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Vent’anni fa, esattamente il 6 ottobre 2003, in una cittadina della Somalia, veniva uccisa Annalena Tonelli, una volontaria italiana che da 33 anni si trovava in Africa per prendersi cura dei malati e dei bambini abbandonati. La vita e le opere straordinarie di Annalena hanno radici profonde e la sua morte non ha disperso i frutti della sua missione nei vari ospedali nell’ex Somalia britannica, dimostrando che assassini e mandanti non sapevano che «l’amore è più forte della morte». Per questo, pubblichiamo integralmente anche sul nostro sito l’editoriale che la nostra rivista dedicò alla Tonelli subito dopo il suo assassinio.
Il 6 ottobre scorso, a Borama, una cittadina del Somaliland (ex Somalia britannica e che ora costituisce la parte a nord-ovest della Somalia), fu uccisa, con un colpo di fucile al capo, Annalena Tonelli. Morì dissanguata nell’ospedale che lei stessa aveva fondato sette anni fa. Aveva 60 anni e da 33 anni si trovava in Africa. Chi fosse e che cosa facesse in Somalia lo dice lei stessa in una testimonianza resa nel dicembre 2001 in un convegno tenuto in Vaticano:
«Lasciai l’Italia a gennaio del 1969. Da allora vivo a servizio dei somali. Sono trent’anni di condivisione. Scelsi di essere per gli altri — i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati — che ero bambina e così sono stata e confido di continuare ad essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire Gesù, povera con i poveri di cui è piena ogni mia giornata.
«Vivo a servizio, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenenza a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamento di contributi per quando sarò vecchia. Lasciai l’Italia dopo sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale [Forlì]. Credevo di non potermi donare completamente ai poveri rimanendo nel mio Paese. […] i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici. Trentatré anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così, fino alla fine. Questa la mia passione di fondo, insieme a una passione invincibile per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato, al di là della razza, della cultura, della fede.
«Tento di vivere con un rispetto estremo per i “loro” che il Signore mi ha dato. Ho assunto fin dove è possibile un loro stile di vita. Vivo una vita molto sobria nell’abitazione, nel cibo, nei mezzi di trasporto, negli abiti. Ho rinunciato spontaneamente alle abitudini occidentali. Ho ricercato il dialogo con tutti.
«Vivo in un mondo rigidamente musulmano. Ho vissuto gli ultimi cinque anni a Borama, nell’estremo nord-ovest del Paese, sul confine con l’Etiopia e Gibuti. Là non c’è nessun cristiano con cui io possa condividere. Due volte l’anno, intorno a Natale e intorno a Pasqua, il vescovo di Gibuti viene a dire la messa per me e con me. Oggi molti dei somali che avevano remore contro di me mi hanno accettata e sono diventati miei amici. Oggi sanno che ero pronta a dare la vita per loro, che ho rischiato la vita per loro.
«Il mio primo amore furono i malati di tubercolosi, la gente più abbandonata, più rifiutata in quel mondo. Ero a Wajir, nel cuore del deserto del nord-est del Kenya, quando conobbi i primi malati e mi innamorai di loro, e fu un amore per la vita. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a portare loro l’acqua piovana che raccoglievo dai tetti della bella casa che il Governo mi aveva data come insegnante. Loro mi facevano cenni di comando apparentemente disturbati dalla goffaggine di quella giovane donna bianca. Tutto mi era contro. Ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata da quella razza che si considera superiore a tutti. Ero cristiana e dunque disprezzata, rifiutata, temuta. Erano convinti che io fossi andata a Wajir per fare proseliti. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo, in cui il celibato non esiste e non è un valore per nessuno, anzi è un non valore.
«Trent’anni dopo, per il fatto che non sono sposata, sono ancora guardata con compassione e con disprezzo in tutto il mondo somalo che non mi conosce bene. Solo chi mi conosce bene dice che io sono somala come loro e sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato, guarito, aiutato, facendo passare sotto silenzio la realtà che io madre naturale non sono e non sarò mai.
«È una vita che combatto e mi struggo, come diceva Gandhi, mio grande maestro insieme a Vinoba, dopo Gesù Cristo. La mia vita ha conosciuto tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho sperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, la cattiveria dell’uomo, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare.
«Ma il dono più straordinario, il dono per cui io ringrazierò Dio e loro in eterno, è il dono dei miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore».
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Questa testimonianza — che può considerarsi una grande pagina della storia cristiana — merita che particolarmente noi cristiani dell’Occidente riflettiamo su di essa. Ci si deve, certo, soffermare sull’assassinio di Annalena: chi le ha sparato il colpo di fucile al capo e per quali motivi ha agito il suo — o i suoi — carnefici? Chi dunque l’ha uccisa? Subito dopo l’uccisione, la polizia locale ha detto che a sparare è stato un «pazzo». È più attendibile la notizia che sia stata uccisa da due giovani sicari, penetrati nella sua abitazione vicino all’ospedale da lei diretto: un ospedale con 200 posti-letto, nel quale lavorano 75 persone.
Per quali motivi Annalena è stata assassinata? Non è semplice dirlo con sicurezza; è certo però che, proprio per le attività che svolgeva, si era fatta molti nemici tra gli estremisti islamici che dominano il Somaliland. Già nei primi anni Settanta era stata espulsa — dopo essere stata aggredita e picchiata dai soldati kenioti — dal Kenya per aver difeso le popolazioni autoctone che risiedevano al confine tra il Kenya e la Somalia dalla repressione e dalla «pulizia etnica» imposte dal Governo di Nairobi (Kenya). Giunta nel Somaliland, non solo si era presa cura dei bambini ciechi e handicappati, dei tubercolotici, dei malati di AIDS — la malattia che sta oggi rovinando l’Africa, dove 11 milioni di persone sono morte e 30 milioni sono sieropositive e dunque destinate in buona parte a morire in un lasso di tempo più o meno breve, anche per mancanza di medicine —, ma aveva combattuto l’usanza locale di praticare sulle bambine e ragazze dai 4 ai 12 anni le mutilazioni genitali, segno del dominio del maschio sulla donna: un’usanza assai diffusa in molti Paesi africani a maggioranza musulmana, tanto che colpisce circa 120 milioni di persone, ma che è estranea all’islàm.
Questa lotta a un’usanza radicata, fino al punto che una ragazza su cui non è stata praticata l’infibulazione rischia di non trovare marito, ha potuto suscitare in una società maschilista qual è quella somala una particolare avversione, tanto più che la lotta a quell’usanza poteva apparire come un tentativo di una donna occidentale di imporre alla civiltà africana i modelli della civiltà europea. E questo non poteva essere sopportato da africani fieri della propria civiltà e della propria maniera di vivere.
Tuttavia, ciò che doveva suscitare un odio profondo per Annalena nei fondamentalisti islamici dominanti nel Somaliland era il fatto che essa era bianca e cristiana. In quanto bianca, e dunque occidentale, ricordava loro che gli europei nel passato avevano colonizzato i Paesi musulmani — tra il 1889 e il 1905 la Somalia divenne colonia italiana, ingrandita nel 1925 con l’annessione dell’Oltregiuba britannico — e che oggi gli americani hanno invaso due Paesi islamici, l’Afghanistan e l’Iraq. In quanto cristiana, era per essi oggetto di disprezzo e di odio: di disprezzo, perché «miscredente» come tutti i cristiani; di odio, perché, sempre secondo il fondamentalismo islamico radicale (che nell’universo musulmano è soltanto una minoranza, ma molto attiva), il cristianesimo è stato ed è il nemico dell’islàm. Come appare dalla sua «testimonianza», Annalena era ben consapevole del pericolo che correva per la sua vita in quanto cristiana: «Ero cristiana, e dunque disprezzata, rifiutata, temuta», essa dice.
Così, il suo assassinio si colora della luce del martirio, purtroppo con una perdita per coloro a cui essa, soltanto per amore di Cristo e dei poveri — che è il contrassegno dei veri cristiani — aveva dedicato la sua vita. Una vita passata nella povertà materiale, nella solitudine spirituale (una messa due volte l’anno!), tra gli orrori di feroci guerre civili, tra malati di ogni genere che, pur con tutto l’impegno, essa non riusciva a curare come avrebbe voluto. Perciò, sotto il profilo semplicemente umano, una vita «perduta»; ma sotto il profilo evangelico una vita «trovata» e «guadagnata». Dice Gesù: «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,39).
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La morte tragica di Annalena Tonelli mette in luce una realtà, che è certamente una delle più belle del nostro tempo, ma a cui gli strumenti della comunicazione sociale dedicano uno spazio minimo, preferendo dare ben maggiore risalto, forse perché «fa più notizia», soltanto agli aspetti brutti e orribili del nostro mondo. Col risultato di creare una grande angoscia nelle persone che si preoccupano del destino dell’umanità di oggi, oppure di produrre nelle persone più superficiali una banalizzazione del male e un’assuefazione ad esso, fino a non farci più caso.
La realtà bella e nobile che la morte tristissima di Annalena mette in luce è quella del volontariato: si tratta di uomini e donne che, per alcuni anni o per tutta la vita, lasciano l’esistenza agiata dell’Europa per andare nei Paesi poveri del Sud del pianeta — soprattutto in quelli più disastrati dell’Africa — a prendersi cura degli ammalati, dei bambini handicappati e orfani (i quali sono alcuni milioni solo nell’Africa, a causa dell’AIDS, che ne ha ucciso i genitori); a curare l’alfabetizzazione dei bambini e degli adulti, che è la prima condizione per uscire dal sottosviluppo. Essi sanno di andare incontro a una vita difficile, alla privazione di tutto ciò che un europeo considera assolutamente necessario per vivere, a un lavoro sfibrante anche per il clima dei Paesi africani, asiatici e latinoamericani che un europeo difficilmente riesce a sopportare; soprattutto, sono consapevoli di andare incontro a pericoli di morte, perché in molti Paesi dell’Africa ci sono feroci guerre tribali o civili e sentimenti di avversione e di odio verso gli occidentali, per cui alcuni volontari europei vengono uccisi senza ragione apparente.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Uno di questi volontari, il dott. Paolo Marelli, chirurgo in un ospedale della Zambia, ha affermato: «Ciò che è capitato ad Annalena è la regola, non l’eccezione. No, non mi ha stupito l’assassinio di Annalena. Avevo un amico, Antonio, ucciso poco tempo fa nel Burundi (dove c’è sempre guerra tra hutu e tutsi), come altri due sacerdoti, che conoscevo bene. Qui, in Zambia, di recente hanno ucciso una suora. La quasi totalità delle persone per i quali lavori ti apprezza, ti vuole bene, ma talvolta ci sono interessi particolari che vanno oltre queste cose, gelosie, antichi rancori verso gli europei. Lo sappiamo tutti» (Corriere della Sera, 8 ottobre 2003, 18).
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Quanti siano i volontari italiani che operano nei Paesi poveri del mondo non è facile saperlo: si calcola approssimativamente che 605 volontari facciano capo ad organizzazioni laiche e altri 600 ad organizzazioni cattoliche. Volontari laici e volontari cattolici non si distinguono per l’impegno — in molti casi assai duro e talvolta eroico — che essi pongono nello svolgere il loro lavoro a servizio degli «ultimi» del nostro mondo. Tutti — laici e cattolici — condividono le stesse difficoltà, le stesse sofferenze e gli stessi pericoli. Perciò tutti meritano il nostro rispetto e la nostra ammirazione: sono tra le persone migliori del nostro mondo, egoista e duro di cuore, che, chiuso nel godimento di una ricchezza in continua crescita e di condizioni di vita assolutamente impensabili nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, non riesce neppure a vedere e tanto meno a rendersi conto delle tristissime condizioni in cui vive la maggior parte dell’umanità, oppressa dalle malattie, dalla fame e dall’ignoranza.
Quello che distingue i volontari laici da quelli cattolici è la motivazione di fondo della scelta di essere volontario. Nei laici, la motivazione è «umanitaria»: è il senso vivissimo della solidarietà umana verso chi soffre; è il desiderio di dare un senso più profondo e più autentico alla propria vita, avendo compreso che questa ha senso pieno soltanto se è donata per aiutare chi è nella sofferenza e nel bisogno. Nel volontario cristiano non manca, certo, la motivazione «umanitaria», per cui si sente in profonda comunione col volontario laico e volentieri collabora con lui in un’impresa comune. Tuttavia, nel volontario cristiano la motivazione profonda è di ordine religioso, propriamente «cristiana»: nelle persone bisognose di aiuto, di cure, di conforto egli vede il volto di Cristo, che ancora oggi porta sulle sue spalle di crocifisso l’intero carico della sofferenza umana e, per amore, vuole aiutarlo a portare quel peso, cercando di recare aiuto e sollievo alle persone sofferenti, abbandonate dall’egoismo umano a un tragico destino.
«L’amore di Cristo ci spinge», scriveva san Paolo (2 Cor 5,14), pensando alle sofferenze che doveva affrontare nel suo apostolato. Lo stesso amore per Cristo sofferente nei poveri — in particolare nei «poveri tra i poveri», che formano le grandi moltitudini dei sofferenti nei Paesi in via di sviluppo — muove i volontari cristiani ad andare incontro a grandi sofferenze e a pericoli mortali.
Così, se i volontari laici sono l’onore del mondo laico, in quanto manifestano che nelle sue pieghe più profonde, anche se non nominato, agisce lo Spirito di Dio, il quale, essendo Spirito di amore, è capace di suscitare nei cuori che non si murano nel proprio egoismo il senso della solidarietà fino al dono della propria vita per gli altri, i volontari cristiani — e oltre ad essi andrebbero ricordati con particolare rilievo i sacerdoti, le suore e i religiosi missionari — sono l’onore della Chiesa, forse il più alto. In particolare quando «gridano Cristo con il sangue», come nel caso di Annalena Tonelli, essi sono la «gloria di Cristo» e riscattano le infedeltà, le miserie e i tradimenti dei cristiani che formano la Chiesa. Se, infatti, questa è la «santa» Chiesa di Dio, lo è anzitutto, perché in essa è presente Cristo con la sua grazia redentrice e purificatrice, è presente lo Spirito Santo, che agisce nei sacramenti, è presente la parola di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione Apostolica; ma lo è anche per le tante persone, spesso di condizione modesta, che si sforzano di vivere il vangelo della carità e del servizio dei poveri e dei sofferenti nel silenzio di una vita umile e senza splendore; lo è per il grande numero di coloro che, in patria o in altri Paesi, fanno della loro vita un dono di carità, per amore di Cristo e dei fratelli più abbandonati; lo è soprattutto per i suoi martiri, che formano la corona più splendida della Chiesa.
Oggi, presso molte persone, la Chiesa non gode buona fama. Purtroppo, non sempre a torto, poiché, come nel passato così oggi, ci sono tanti motivi di critiche che creano attorno alla comunità ecclesiale un clima di sfiducia e di discredito, tanto che molte persone sincere e di retto sentire si allontanano da essa. A queste persone vorremmo far presente due cose.
La prima: la Chiesa è essenzialmente una realtà divina, e dunque santa; ma è anche una realtà umana, poiché è formata e diretta da uomini peccatori, quindi soggetti al male e all’errore. Non deve dunque meravigliare il fatto che, nella Chiesa, anche ai livelli alti, ci siano peccati ed errori. Perciò la Chiesa deve continuamente riformarsi e rinnovarsi, confessando i peccati dei suoi figli e lasciandosi purificare e rinnovare dallo Spirito Santo, che è la sua «anima profonda».
La seconda: se nella Chiesa di oggi è presente il male per il fatto che taluni cristiani non vivono secondo il Vangelo (senza che ciò renda la Chiesa «peccatrice»), è pure presente il bene, in forme forse più grandi e ammirabili che nel passato. La maggior parte delle opere di carità che si compiono nel mondo di oggi è frutto dell’impegno, spesso eroico, di cristiani. I secoli XIX e XX sono stati quelli che hanno visto il più grande numero di martiri di tutta la storia cristiana. Sono anche i secoli in cui è fiorita in maniera eccezionale, sia pure nascosta, la santità cristiana. Ora, sono la carità, la santità e il martirio i caratteri più autentici della «vera» Chiesa di Dio.
Il resto è paglia che il fuoco dello Spirito Santo brucerà.