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Proseguendo la nostra precedente riflessione su Gesù di Nazaret[1], vorremmo qui affrontare, pur se in modo schematico e sintetico, il problema dell’atteggiamento di Gesù di fronte alla propria morte, evento della cui storicità nessuno seriamente dubita e presumibilmente avvenuto il 7 aprile dell’anno 30 d. C.[2].
Iniziamo da un’affermazione decisiva di R. Bultmann, che ha profondamente segnato, direttamente o indirettamente, non soltanto la ricerca strettamente esegetico-ecclesiale del XX secolo, ma anche quella più laica su Gesù, e i cui echi si avvertono ancora oggi. Secondo l’esegeta tedesco, «Gesù non ha parlato della sua morte e della sua risurrezione e del loro significato salvifico. È vero che nei vangeli sono poste in bocca a lui alcune parole di tale contenuto, ma esse provengono dalla fede della comunità»[3].
Con questa sua affermazione Bultmann non soltanto ha scavato un abisso tra Gesù e tradizione ecclesiale, tra tempo prepasquale e tempo postpasquale, tra fede e storia, ma ha ormai lasciato la morte di Gesù fuori dall’orizzonte teologico di Gesù, riducendo quest’ultimo a essere nient’altro che l’annunciatore della Parola di Dio, compreso secondo i dettami di una teologia luterana della Parola, peraltro intesa un po’ angustamente[4]. Inoltre, secondo l’esegeta tedesco, Gesù, pur non ritenendosi probabilmente tale, «morì sulla croce come profeta messianico, né più né meno degli altri agitatori»[5]. È inevitabile trarre da queste affermazioni la conclusione che la morte di Gesù fu per lui un destino tragico e fatale, che finì per smentire l’avvento del regno di Dio Padre, da lui stesso annunciato come imminente in una modalità che Bultmann non esita a definire «mitica», e quindi bisognosa di una profonda revisione ermeneutica[6].
Sollecitati dalla radicale sottovalutazione bultmaniana della dimensione strettamente teologica che Gesù poteva attribuire alla propria morte e dall’importanza della storia degli effetti di tale scelta ermeneutica, che poi di fatto ha aperto le porte alle successive interpretazioni secolarizzate e unilateralmente politiche del destino del Nazareno, vogliamo iniziare il nostro saggio cercando di mostrare come oggi, già soltanto a partire dai testi e dagli eventi evangelici che possiamo ragionevolmente ricondurre al terreno storico, Gesù abbia in realtà considerato la sua morte come parte integrante dell’annuncio del regno da lui stesso proclamato.
Una morte sempre più possibile
Va innanzitutto considerato come Gesù, dopo un iniziale successo del suo ministero in Galilea, abbia dovuto fronteggiare non soltanto la crescente incomprensione dei discepoli e dei suoi ascoltatori (cfr Mc 4,13.40; 6,52; 6,1-6; 8,14-21), ma anche il progressivo radicalizzarsi delle opposizioni alla sua predicazione da parte delle autorità religiose e politiche giudaiche (cfr Mc 7,1). Ciò ha progressivamente finito per rendere sempre più pericolosa la sua missione di annunciatore del regno del Padre, una pericolosità che appare in relazione al tragico destino di molti profeti di Israele, primo tra tutti Geremia (cfr Ger 7-10.26 e 2 Cr 36,14-16). E proprio la vicenda di Geremia riceve una luce tutta particolare non soltanto dalle già considerate profezie del Nazareno relative alla distruzione del tempio gerosolimitano (cfr Mc 13,1-4; Lc 19,41-44), ma anche dalla sua decisione di salire a Gerusalemme e dal gesto di critica profetico-simbolica da lui lì rivolto alla gestione del tempio, cuore religioso del giudaismo, nonché centro del potere economico-politico del paese (cfr Mc 11,1-11.15-19 e par.)[7].
Tutto questo va inoltre collegato alla diffusa critica intratestamentaria nei confronti dello stesso tempio[8]. Si sarebbe trattato di un gesto simbolico in sé certamente modesto, ma che, collegato agli annunci della distruzione del tempio, poteva nondimeno apparire come una sfida rivolta alle autorità sadducee responsabili della sua gestione, sfida che, sommandosi alle critiche farisaiche già rivolte a Gesù durante il suo ministero in Galilea, avrebbe poi finito per concorrere alla sua successiva condanna a morte.
Comunque li si voglia valutare, questi episodi mostrano che egli «doveva realisticamente mettere in conto la possibilità di una morte violenta e che, nel dialogo con la storia, poteva alla fine (al più tardi nell’ultima cena) considerare il suo martirio come probabile o addirittura certo»[9].
Morte incombente e annuncio del regno del Padre
Questa progressiva consapevolezza dell’eventualità della propria morte va collegata anche con quello che da tutti viene considerato il centro della predicazione e della missione storica di Gesù, cioè l’annuncio del regno del Padre. Ciò significa affermare che, come già prima il suo vivere e operare, così anche l’incomprensione, l’opposizione e la prospettiva stessa della morte sono state da lui progressivamente assunte come intimamente collegate all’avvento del regno del Padre. Gesù guarda al destino di non pochi profeti, e non da ultimo quello di Giovanni Battista, giustiziato da Erode Antipa probabilmente il 28 d. C., agli inizi della missione gesuana.
Come afferma Dunn, «presumibilmente Gesù ha in qualche modo collegato la sua proclamazione della buona notizia della venuta imminente del regno di Dio alla previsione della propria morte. Non è affatto verosimile che egli abbia visto nella sua morte il segno del fallimento del disegno prestabilito di Dio, mentre è molto più plausibile che l’abbia ritenuta l’attuazione di questo disegno o una sua conseguenza. Per quanto questa prospettiva lo sgomentasse, certo Gesù non vide nella sua morte una sconfitta o una catastrofe: se così fosse, avrebbe intrapreso con tanta risolutezza il viaggio verso Gerusalemme?»[10].
E che si tratti del regno del Padre, è ben attestato, oltre che dalla preghiera del Padre nostro, che Gesù stesso ha insegnato ai suoi discepoli, anche dall’uso gesuano della parola Abbà, espressione aramaica da lui certamente utilizzata (cfr Mc 14,36). Senza entrare nelle questioni più direttamente esegetiche, possiamo in ogni caso affermare che l’uso gesuano di tale espressione presuppone un suo rapporto filiale e sorprendentemente intimo con Dio. Cosa tanto più significativa, se si considera che il Primo Testamento qualifica raramente Dio come Padre e, quando lo fa, è in relazione quasi esclusiva con Israele, considerato come figlio (cfr Os 11,1-4).
Siamo dunque in presenza di una relazione con Dio vissuta in termini sorprendentemente filiali, la quale, per logica conseguenza, fa comprendere come Gesù si considerasse Figlio in un modo tutto particolare, se non unico (cfr Lc 2,41-52). E questo è detto senza dover specificare ulteriormente le caratteristiche di tale sua speciale autocomprensione filiale, se non richiamando la parabola dei vignaioli omicidi (cfr Mc 12,1-9 e par.), un testo che ha buone probabilità di essere ricondotto al terreno storico e nel quale Gesù unisce la linea profetica, impersonata dai servi, e quella filiale, impersonata dal figlio e unico erede della vigna del padre[11].
Trattandosi poi dell’Abbà di Gesù, l’identità di questo Padre va affermata in modo non estrinseco, cioè predefinendone a priori i contenuti, ma sempre e solo facendo costante riferimento al comportamento e all’insegnamento di Gesù stesso. E qui si deve senz’altro fare ricorso alle parabole tipicamente gesuane della misericordia, così come al suo atteggiamento verso i peccatori, che esse presuppongono e genialmente illustrano, come è ben mostrato da Luca. In questa prospettiva possiamo allora sinteticamente affermare che il Padre di Gesù è caratterizzato da un amore senza limiti, che si manifesta con una forza tutta particolare nel perdono concesso ai peccatori e nell’amore verso i nemici, cioè di fronte all’inquietante mistero del male e dell’ingiustizia del mondo, come Gesù stesso afferma nel Discorso della Montagna. Questo ci sembra essere, in sintesi, l’orizzonte all’interno del quale Gesù ha presumibilmente affrontato l’eventualità della propria morte.
Una morte annunciata?
L’eventualità della sua morte è stata anche esplicitamente annunciata da Gesù? A questo punto il pensiero corre spontaneo ai tre annunci sinottici della morte. Ma già un rapido esame di questi testi mostra chiare tracce della rilettura postpasquale, particolarmente evidenti in Mc 10,33-34 e Mt 20,18-19. Tra questi testi emerge tuttavia Lc 9,44, che alla forma arcaica dell’espressione («il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini») unisce anche l’assenza di ogni riferimento alla risurrezione. Già questo lascia supporre che qui potremmo trovarci di fronte a una forma dell’annuncio vicina a quella storicamente utilizzata da Gesù. Per quanto riguarda poi il ricorso diretto alla figura del Figlio dell’uomo, essa è coerente con la tradizione enochica[12], mentre la singolarità dell’uso che qui ne fa Gesù in relazione alla sua morte riceve la sua plausibilità storica dalla reazione scandalizzata di Pietro e dalla violenta reprimenda del Maestro, la cui inaudita equiparazione dell’apostolo con satana non fu mai utilizzata da lui, neppure di fronte ai suoi peggiori nemici.
A questo punto possiamo domandarci se un tale annuncio e la consapevolezza della propria morte che esso presuppone possano essere messi in relazione anche con l’ultima cena. Per rispondere in modo criticamente avvertito a questa domanda, dobbiamo però previamente almeno accennare alla problematica dell’ultima cena considerata in se stessa e come tale già alquanto complessa, in quanto vi si intrecciano problemi diversi, che noi qui potremo soltanto evocare.
Ultimo banchetto del regno o «seder» pasquale?
Se non vi sono ragionevoli dubbi sul fatto che Gesù, nella notte in cui fu tradito, tenne un ultimo banchetto con i suoi discepoli, come attestano concordemente la tradizione sinottica, quella giovannea e quella paolina, e che in tale banchetto egli collegò, con gesti e parole, il pane e il vino al suo corpo e al suo sangue (cfr Mc 14,22-24; Mt 26,26-28; Lc 22,19-17; 1 Cor 11,23-26), tuttavia qui finisce il consenso tra le fonti e, di conseguenza, anche quello tra gli studiosi.
Nei sinottici l’ultima cena viene infatti presentata come la cena rituale della Pasqua ebraica o seder pasquale, mentre Giovanni la presenta semplicemente come una cena consumata «prima della festa di Pasqua» (Gv 13,1), che sarebbe stata celebrata a partire dal tramonto del giorno successivo (cfr Gv 18,28 e 19,14). Inoltre Giovanni omette ogni riferimento diretto all’istituzione dell’Eucaristia, che Paolo si limita dal canto suo a collocare genericamente nella notte in cui Gesù fu tradito (cfr 1 Cor 11,23).
Questa situazione delle fonti pone non soltanto lo storico, ma anche il teologo di fronte a una quaestio disputata, nella quale sono legittime soluzioni diverse, che valgono tanto quanto valgono gli argomenti portati per suffragarle. Secondo la maggioranza degli studiosi, bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea, che sembra riscuotere più favori, non soltanto in ragione di Gv 18,28, ma anche perché è difficile pensare che le autorità ebraiche avessero potuto organizzare un processo a Gesù la notte stessa in cui si celebrava il seder pasquale e presenziare poi alla sua condanna ed esecuzione capitale proprio il giorno di Pasqua![13].
Noi ci allineiamo a tale ipotesi, per ora maggioritaria, facendo comunque osservare che, al di là delle diverse ipotesi avanzate dagli studiosi, le discussioni storico-esegetiche hanno il merito di mostrare come quella cena di fatto avvenne in una settimana senz’altro carica di molti significati simbolici, che non potevano non sollecitare non soltanto i narratori evangelici, ma molto verosimilmente lo stesso Gesù.
Nell’ipotesi maggioritaria, Gesù, consapevole dell’imminenza della propria morte, invita dunque i suoi apostoli a una cena «che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma che era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua»[14]. Si è trattato di un banchetto particolarmente solenne, che, come viene suggerito da A. Puig i Tàrrech, si svolse secondo il costume dei pasti giudaici solenni. Questi, in evidente collegamento con la struttura del seder pasquale, comprendevano «una preghiera di benedizione/ringraziamento per il pane, all’inizio del pasto; il pasto propriamente detto, abbondante e completo, condiviso da tutti; e una preghiera di benedizione/ringraziamento per il calice dopo aver mangiato»[15]. Siamo così di fronte a un banchetto solenne, che risente dell’imminente festività pasquale ebraica, che Gesù non potrà mai celebrare ritualmente, perché il giorno dopo verrà condannato e morirà, per di più proprio nel momento in cui al tempio verranno immolati gli agnelli per il seder pasquale, come è implicitamente suggerito da Giovanni (cfr Gv 19,14)[16].
Ma parlare di banchetto significa richiamare anche i tanti banchetti del regno a cui Gesù aveva preso parte durante il suo ministero pubblico per celebrare la misericordia del Padre verso i peccatori e che tanta opposizione avevano suscitato da parte di molti farisei, come è ben attestato dalla tradizione sinottica (cfr Mc 2,16). A simili banchetti sembra peraltro alludere lo stesso Gesù quando afferma: «Io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25; cfr Lc 22,18). Questo detto escatologico «è dunque una riconferma del fatto che in quest’ora Gesù metteva senz’altro in conto la sua morte violenta, ma anche conservava in sé fiduciosamente l’attesa della basileia che costituiva il contenuto centrale della sua predicazione»[17].
Un gesto profetico
Senza attardarci sulla vexata quaestio delle parole esatte che Gesù avrebbe detto sul pane e sul vino, qui ci basta considerare il loro tenore complessivo, relativamente chiaro. Esse, realizzando ciò che significano, mettono profeticamente in relazione il pane e il vino con il corpo e il sangue di Gesù, riferendo così tutto il suo essere umano alla sua morte ormai imminente. E questo all’interno di una cena che richiamava contemporaneamente i banchetti del regno e il mistero pasquale, la cui celebrazione era ormai alle porte. Limitandoci a considerare la cosa in funzione del nostro tema specifico, ciò significa che, come tutta la vita di Gesù è stata un dono per testimoniare, in quanto Figlio, ai peccatori e ai poveri la misericordia del Padre, così lo sarebbe stato anche il suo morire, vissuto anch’esso filialmente, e per di più in un orizzonte di speranza suggerito dall’imminente festività pasquale. Mai come nel caso di Gesù il detto che uno muore come ha vissuto viene pienamente realizzato. Egli muore come ha vissuto, cioè come Figlio di quel Padre misericordioso di cui ha annunciato il regnare.
Per esprimere il radicale dono di sé con il quale Gesù si appresta ora ad affrontare la propria morte, molti studiosi parlano di proesistenza amante, cioè di esistenza in favore degli altri, termine evidentemente coniato a partire dal pro vobis e dal pro multis della traduzione latina delle parole istituzionali a noi trasmesse dalla successiva tradizione liturgico-ecclesiale[18]. In questa prospettiva, Romano Penna afferma che le parole profetiche di Gesù sul pane e sul vino attestano come minimo «una discreta ma chiara allusione al dono di sé in favore almeno dei commensali (se non anche di Israele e delle nazioni)»[19]. Un dono di sé filiale perfettamente coerente con quella proesistenza che ha caratterizzato tutto il ministero pubblico di Gesù in favore dei poveri e dei peccatori e che le parole istituzionali postpasquali hanno poi in vario modo esplicitato.
Così «dal contesto dell’ultima cena emerge, da parte di Gesù, la consapevolezza di morire come l’inviato ultimo di Dio al suo popolo, e che la sua morte, come fu tutta la sua vita, sarà fonte di benedizione per i suoi discepoli. Il regno annunciato, per il quale egli fu disposto a morire, verrà, e là saranno finalmente ancora commensali»[20]. Con Gamberini possiamo aggiungere che «nell’intima comunione con il Padre, Gesù ha maturato l’interpretazione della sua morte. Il Regno di Dio costituiva un’apertura fondamentale e definitiva per Gesù, anche se questo destino del Regno comportava un’oscurità per quanto riguarda il modo con cui Dio avrebbe operato la sua salvezza nella e attraverso la sua passione-morte. Disposto ed aperto alla Signoria del Padre, Gesù attendeva che fosse Dio Padre a dare un significato salvifico, a rivelare il fine della sua fine»[21].
Considerata in questa prospettiva, la proesistenza di Gesù lascia dunque intravedere anche la presenza di una soteriologia implicita o indiretta. Oggi infatti «quasi nessuno contesta più la possibilità che Gesù, in virtù dell’atteggiamento fondamentale della sua esistenza per gli altri, abbia potuto dare un senso salvifico alla propria morte imminente. Dimostrarlo è però un’impresa difficile. Solo dopo la Pasqua incontriamo con sicurezza ed in modo incontestabile una concezione soteriologica della sua morte»[22]. Questo consenso è comunque importante, perché mostra che proprio tale soteriologia implicita «divenne la base e il punto di partenza di spiegazioni postpasquali»[23], che perdono così la loro presunta arbitrarietà storica, suggerita invece dalla prospettiva bultmaniana.
Un contesto riccamente simbolico
Questa ricchezza simbolica dell’ultimo banchetto gesuano del regno viene ancora accresciuta se teniamo presente l’aspetto giudiziale connesso alla figura enochica del Figlio dell’uomo. Facendola sostanzialmente propria fin dal suo ministero pubblico, Gesù lasciava intravedere già nel suo operare la presenza di un giudizio di misericordia antecedente a quello escatologico, al quale era invece esclusivamente connesso il ricorso più specificamente enochico a tale figura.
Collegandola esplicitamente alla propria morte anche durante l’ultima cena (cfr Mc 13,21 e par.), come già prima in Lc 9,44, Gesù sembra ora confermare l’esistenza di una relazione tra la sua morte ormai imminente e questo giudizio di misericordia per i peccatori, da lui anticipato durante il ministero pubblico, confermando così la presenza di una soteriologia implicita anche nella sua stessa morte.
Il simbolismo dell’ultima cena viene poi ulteriormente arricchito dal già accennato collegamento giovanneo tra la morte di Gesù e la figura dell’agnello pasquale: un collegamento di cui negare una paternità almeno verosimilmente gesuana, una volta assunta l’ipotesi della solidità storica della cronologia giovannea, ci sembra incomprensibile ipercriticismo. L’ampio e sicuro ricorso gesuano allo stile parabolico mostra infatti come l’ebreo Gesù fosse una personalità singolarmente attenta al significato simbolico della realtà.
Se questo è vero, i gesti e le parole di Gesù durante l’ultima cena, situata in un contesto storico obiettivamente già carico di simboli, possono essere legittimamente interpretati tenendo conto anche dell’immolazione degli agnelli al tempio che preparava la celebrazione pasquale. Considerati in questa luce, quei gesti e quelle parole di Gesù possono dunque lasciare trasparire una sua implicita identificazione, da lui stesso suggerita, con l’agnello pasquale, il cui sangue, secondo Es 12,7.22, aveva salvato dall’angelo della morte i primogeniti degli ebrei in Egitto. Secondo l’ipotesi che stiamo seguendo, la notte in cui si svolse quella cena l’agnello pasquale mancava sulla tavola[24].
Questa assenza è dovuta al fatto che quel banchetto non è stato un seder pasquale, in quanto quell’agnello sarebbe stato immolato soltanto il giorno successivo. Ma tutto sembra svolgersi come se, proprio mediante questa assenza, Gesù volesse suggerire che di lì a poco sarebbe sorprendentemente potuto essere proprio lui l’agnello pasquale! Questa possibile, iniziale indicazione simbolica gesuana verrà poi esplicitata letterariamente da Gv 19,29 mediante l’introduzione dell’issopo (hyssopos) invece del più storicamente verosimile hyssos (giavellotto) sinottico, così da richiamare esplicitamente, insieme alla mancata rottura delle tibie in Gv 19,33-37, l’agnello pasquale di Es 12,22[25].
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Una morte assunta con «autorevolezza»
Nella prospettiva che qui si viene progressivamente delineando, l’ultimo banchetto del regno ci appare sempre più come sospeso nell’ormai imminente passaggio dall’antica alla nuova alleanza. Esso infatti si svolge all’ombra della Pasqua ebraica ormai alle porte, aprendosi però profeticamente già verso la nuova Pasqua che Gesù stesso avrebbe realizzato il giorno successivo sul Calvario. Ripetiamolo ancora una volta: sarebbe veramente strano se a un ebreo dell’intelligenza di Gesù fosse sfuggita tutta questa ricchezza simbolica suggerita dalle stesse circostanze storiche in cui si svolse quell’ultimo banchetto del regno, da lui stesso voluto proprio nella notte precedente la sua morte! Anche perché negare una tale intelligenza simbolica al rabbì di Nazaret significa poi doverla inevitabilmente e paradossalmente attribuire a quei discepoli a cui tutte le fonti bibliche unanimemente la negano! L’unico candidato in grado di poter far fronte a una simile sfida sarebbe stato Paolo, ma, come l’apostolo stesso testimonia agli inizi degli anni Cinquanta (cfr 1 Cor 11,23-26), per ciò che riguarda la tradizione della cena egli non elabora nulla di nuovo, ma si limita a trasmettere ciò che a sua volta ha ricevuto dal Signore mediante la primitiva tradizione apostolica, poco dopo il suo incontro con il Risorto, e dunque già durante gli anni Trenta.
In realtà, è stata proprio l’acuta intelligenza simbolica e scritturistica di Gesù ad aver posto le basi sufficienti, a partire dalle quali, dopo la risurrezione e in un tempo molto breve, la più antica tradizione apostolica avrebbe potuto poi sviluppare il memoriale non più della sola Pasqua ebraica, né tanto meno quello dell’ultima cena, bensì quello della Pasqua di Gesù, quella nuova ed eterna alleanza nella quale l’antica non viene abolita, ma trova il suo pieno e definitivo compimento.
Ora, proprio questa straordinaria intelligenza simbolica e scritturistica del rabbì di Galilea fa trasparire un modo di affrontare la propria morte che non si lascia dominare, soccombendovi, dagli eventi pur drammatici che deve affrontare. Tutto sembra svolgersi come se Gesù quasi li sovrastasse spiritualmente, pur percependone tutta la drammatica crudezza, come è attestato dall’episodio del Getsemani. Ora, questo atteggiamento non è affatto sorprendente, perché richiama il modo con cui Gesù ha vissuto tutta la sua missione pubblica, cioè con quella misteriosa e insieme discreta autorevolezza (exousia) del suo io, che traspare, senza tuttavia mai imporsi in modo incontrovertibile, in alcuni suoi gesti e parole riconducibili al terreno storico.
La sua importanza è tale che la ricerca cristologica contemporanea parla in proposito, com’è noto, di cristologia implicita. Oltre alla già menzionata particolare coscienza filiale gesuana, possiamo qui ricordare anche il fatto che il rabbì di Nazaret non chiama i suoi discepoli per imparare la Torah, come facevano i farisei del suo tempo, ma per seguire la sua persona[26], oppure il suo atteggiamento complessivo di fronte alla Torah[27].
Una morte vissuta in un orizzonte di speranza
Il quadro che abbiamo appena delineato ci permette ora di esplicitare l’orizzonte di speranza all’interno del quale Gesù ha vissuto la propria morte, facendo così qualche passo nella direzione del superamento anche del divieto bultmaniano relativo alla sua risurrezione.
Anzitutto non dobbiamo negare a Gesù ciò che si concede facilmente alla maggioranza dei correligionari del suo tempo, e cioè la fede nella risurrezione corporale alla fine dei tempi, a cui va aggiunta l’esaltazione post mortem del giusto martirizzato della tradizione sapienziale (cfr Sap 3,1-9 e 5,1-5). Vanno poi considerati il contesto pasquale e l’affidamento filiale con i quali egli ha concretamente vissuto l’imminenza della sua morte e che gli devono aver dato un orizzonte di speranza nell’intervento del Padre, a cui infine va aggiunta anche la dimensione escatologica comunemente associata alla figura enochica del Figlio dell’uomo, da lui fatta propria. A partire dalla convergenza indiziale di tutti questi elementi «si deve ammettere che Gesù abbia nutrito speranza in un futuro al di là della morte»[28], così che si può dare «una seria possibilità di scorgere una speranza formulata prima della mattina di pasqua»[29].
***
[1]. Cfr M. Imperatori, Gesù di Nazaret tra ricerca storica e teologia, in Civ. Catt. 2012 III 3-16.
[2]. Cfr J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 1. Le radici del problema e della persona, Brescia, Queriniana, 2001, 405.
[3] R. Bultmann, Gesù, Brescia, Queriniana, 1984, 170.
[4]. Cfr ivi, 172. Non a caso, dopo una brevissima introduzione storica, tutto il testo bultmanniano ruota solo ed esclusivamente attorno alla predicazione di Gesù.
[5]. Ivi, 24.
[6]. Cfr R. Bultmann, Credere e comprendere, Brescia, Queriniana, 1986, 1.017 ss.
[7]. Sanders, che come molti altri autori individua nell’atteggiamento di Gesù verso il tempio e i sadducei l’unica vera ragione che lo avrebbe condotto alla morte, ha ritenuto certo «che Gesù predisse o minacciò pubblicamente la distruzione del tempio» (E. P. Sanders, Gesù e il giudaismo, Genova, Marietti, 1992, 103), mentre «l’entrata fu probabilmente attuata deliberatamente da Gesù per simboleggiare la venuta del regno e il proprio ruolo in esso» (ivi, 397). Jossa ridimensiona invece l’importanza di questi episodi, considerando tanto l’uno quanto l’altro come «azioni simboliche che avranno attratto l’attenzione solo dei pochi gruppi di astanti» (G. Jossa, La condanna del Messia, Brescia, Paideia, 2010, 160).
[8]. «La letteratura intratestamentaria, a partire dal Libro dei Sogni, scritto intorno al 160 a. C., presenta più volte la profezia della distruzione del tempio di Gerusalemme. Era una profezia-desiderio espressa da enochici e da qumranici e, al tempo di Gesù, era motivo noto e diffuso» (P. Sacchi, Gesù e la sua gente, Milano, Paoline, 96 s).
[9]. H. Schürmann, Regno di Dio e destino di Gesù, Milano, Jaca Book, 1996, 58 s (il secondo corsivo è nostro).
[10]. J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo I. La memoria di Gesù 3. L’ acme della missione di Gesù, Brescia, Paideia, 2007, 875 (corsivi nostri).
[11]. «Questa parabola è il testo più alto che Gesù ci abbia lasciato circa il senso della sua missione. Essa non parla soltanto del particolarissimo rapporto che Gesù pensava di avere con Dio e quindi del fondamento della sua autorità, ma dice anche il senso ultimo della missione di Gesù: la necessità della sua morte, perché il regno di Dio sia predicato» (P. Sacchi, Gesù e la sua gente, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 2003, 182).
[12]. Da Enoch, patriarca antediluviano (cfr Gn 5,21-24), personaggio centrale del cosiddetto Pentateuco enochico, in un libro dei quali — il Libro delle Parabole di Enoch, risalente probabilmente al 30 d. C. — si fa cenno a una figura trascendente e giudiziale di «Figlio dell’uomo». Questo filone della ricerca intratestamentaria ha trovato in P. Sacchi e G. Boccaccini i suoi più autorevoli esperti.
[13]. Cfr J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 1. Le radici del problema e della persona, cit., 377-401; J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2011, 122-129. Se qualche anno fa, riferendosi al processo di Gesù, Jossa scriveva che «una ricostruzione del processo di Gesù deve partire quindi necessariamente dal vangelo di Marco» (G. Jossa, Il processo di Gesù, Brescia, Paideia, 2002, 47-55), recentemente, riferendosi all’ultima cena, ha riconosciuto anche lui che, «una volta esclusi tutti i tentativi di mettere d’accordo i testi, le probabilità sono tutte dalla parte della datazione di Giovanni» (Id., Gesù. Storia di un uomo, Roma, Carocci, 2010, 117). S. Barbaglia ha rilanciato il dibattito, sostenendo invece la tradizionale identificazione tra ultima cena e seder pasquale sulla base di un’ermeneutica canonica dei testi evangelici svolta con suggestivo rigore e attenta al contesto giudaico (cfr S. Barbaglia, Il digiuno di Gesù all’ultima cena. Confronto con le tesi di J. Ratzinger e di J. Meier, Assisi (Pg), Cittadella, 2011).
[14]. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione, cit., 130.
[15]. A. Puig i TÀrrech, Gesù. La risposta agli enigmi, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2007, 575.
[16]. Cfr R. E. Brown, Giovanni, Assisi (Pg), Cittadella, 1991, 1.111.
[17]. J. Gnilka, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Brescia, Paideia, 1993, 361 s. Si tratta di un detto «che nella sua autenticità non è mai stato seriamente messo in dubbio» (ivi, 362).
[18]. Cfr H. Schürmann, Jesu ureigener Tod, Leipzig, St. Benno, 1975.
[19]. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria 1. Gli inizi, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1997, 165.
[20]. M. Gronchi – J. Llunga Muya, Gesù di Nazareth. Un personaggio storico, Milano, Paoline, 2005, 214.
[21]. P. Gamberini, Questo Gesù (At 2,32). Pensare la singolarità di Gesù, Bologna, Edb, 2005, 158.
[22]. H. Kessler, Cristologia, Brescia, Queriniana, 2001, 59.
[23]. Ivi, 60 (corsivo nel testo).
[24]. È significativo che anche i racconti sinottici dell’ultima cena, che pure la identificano con il seder pasquale, non facciano cenno alcuno all’agnello pasquale.
[25]. Dal punto di vista strettamente letterario, cfr R. E. Brown, Giovanni, cit., 1.131 e 1.158.
[26]. Cfr R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria 1. Gli inizi, cit., 45-57.
[27]. Cfr ivi, 74-86. Penna non esita ad affermare in sintesi che, in ragione della presenza di una tale cristologia implicita, «per tenerci ad affermazioni minimali, occorre riconoscere che la sua comunione con Dio appare eccedente rispetto ai normali canoni dell’esperienza religiosa» (ivi, 170). Secondo Jossa, Gesù fu condannato proprio perché «ha posto il problema di un suo riconoscimento come colui che annunciava la svolta decisiva nella storia di Israele» (G. Jossa, La condanna del Messia, cit., 190 s).
[28]. M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio salvatore, Brescia, Queriniana, 2008, 218.
[29]. J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo I. La memoria di Gesù 3. L’acme della missione di Gesù, cit., 873.