
|
Se ci chiediamo: «I Vangeli ci fanno conoscere la “storia” di Gesù, cioè quello che egli “storicamente” ha detto e fatto, insomma quello che egli è stato nella realtà storica del suo tempo?», la risposta che possiamo dare è questa: i Vangeli — che sono praticamente l’unica fonte della nostra conoscenza di Gesù — non sono una «vita di Gesù» nel senso che noi attribuiamo a tale espressione. Indubbiamente l’indagine storico-critica condotta sui Vangeli da circa tre secoli, pur in mezzo a posizioni non solo contrastanti ma contraddittorie, ha condotto, a proposito della figura storica di Gesù, ad alcune conclusioni oggi comunemente accettate: a) Gesù era oriundo della Galilea e della cittadina di Nazaret; b) verso i 30 anni fu battezzato da Giovanni Battista; c) dopo il battesimo si diede alla predicazione della venuta imminente del «regno» di Dio; d) convocò attorno a sé dei discepoli, tra i quali costituì un gruppo particolare (i «Dodici»); e) insieme con la predicazione del regno di Dio svolse un’attività taumaturgica, compiendo guarigioni ed esorcismi; f) si attribuì un’autorità assoluta sulla Legge, che lo condusse a un dissidio radicale con le autorità religiose ebraiche e alla morte violenta sulla croce, inflittagli dal prefetto romano Ponzio Pilato; g) dopo la sua morte, i suoi discepoli affermarono di averlo visto vivo e predicarono che egli era il Messia, il Figlio di Dio e il Salvatore degli uomini. Nacque in tal modo, all’interno del giudaismo, la «setta dei Nazareni» (At 24,5) che, staccatasi in seguito dal giudaismo, divenne il cristianesimo[1].
Questi dati, storicamente sicuri, sulla «storia» di Gesù sono certamente di grande importanza, ma ci dicono assai poco sulla sua persona, sulla sua predicazione, sulle opere da lui compiute, e non soddisfano certamente il nostro bisogno di conoscere in maniera più profonda e sicura un personaggio come Gesù di Nazaret, che ha avuto un peso così grande nella storia umana. D’altra parte «il reale Gesù storico si sottrae ai nostri sguardi e non ci diventa più percepibile per opera della ricerca critica storiografica. Quello che viene fuori nella ricerca impostata con grande strumentazione metodologica è una costruzione conforme a modi di procedere che sono comunemente adoperati nella scienza storica, ma che restano del tutto inadeguati nel caso di una figura così inusuale come Gesù di Nazaret, che può essere colta soltanto nella fede»[2].
Che cosa sono i Vangeli e qual è il loro valore storico?
Che fare, allora, per conoscere Gesù di Nazaret nella sua realtà storica? L’unica via che abbiamo è quella di rifarci ai quattro Vangeli. Si obietterà subito che essi sono opere storico-catechetiche, che perciò danno di Gesù una visione soprattutto dogmatica, la quale può essere accettata da un credente, ma non da uno storico e, più generalmente, da chi non ha fede. Per rispondere a questa obiezione radicale, bisogna esaminare che cosa sono i Vangeli e qual è il loro valore storico.
Il «vangelo» — questo termine si trova all’inizio del Vangelo secondo Marco (Mc 1,1) — designa originariamente l’annuncio «orale» del messaggio di salvezza, predicato da Gesù. Così Marco riporta il «vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio», cioè la predicazione del regno di Dio, fatta da Gesù (Vangelo di Gesù: genitivo soggettivo). Più tardi il «vangelo» ha indicato un genere letterario particolare, cioè la messa per iscritto delle tradizioni orali e scritte riguardanti Gesù di Nazaret, resasi necessaria per la catechesi e per l’attività missionaria della Chiesa primitiva. Così, tra il 65/70 e l’80/85, nascono i Vangeli secondo Marco, secondo Matteo e secondo Luca e, intorno al 90, il Vangelo secondo Giovanni. Fin dai primi tempi della Chiesa, questi quattro Vangeli formano il «Vangelo quadriforme»[3], vale a dire un unico Vangelo in quattro forme, nel senso che è sempre lo stesso Gesù di cui si parla nei quattro Vangeli, ma ogni volta da una prospettiva particolare.
Perciò, per comprendere in pieno Gesù, bisogna tener conto dei quattro Vangeli, perché ognuno di essi ha qualcosa di essenziale da dire alla Chiesa su Gesù. In altre parole, non si può fare a meno di nessuno dei Vangeli, ma, nello stesso tempo, si deve avvertire che i Vangeli sono soltanto quattro, né di più né di meno. Così sant’Ireneo critica Marcione, perché accetta come Vangelo soltanto quello di Luca, ma critica anche gli gnostici valentiniani, i quali si vantano di avere un altro vangelo, il «Vangelo della verità»[4].
Ora, quale valore storico hanno i quattro Vangeli? Per rispondere a questa domanda, bisogna tener presente che essi non sono biografie di Gesù né hanno lo scopo di raccogliere «memorie» e «ricordi» su di lui; neppure vogliono presentare la sua personalità: infatti non dicono nulla del suo aspetto esteriore, del suo modo di vestire, e soltanto occasionalmente accennano alla sua vita affettiva (pietà, compassione, ira, ammirazione, senso dell’amicizia); anzi, non dicono neppure con precisione per quanto tempo sia durata la sua predicazione, dove si sia svolta, quando egli sia nato e quando sia morto. L’interesse degli evangelisti non è primariamente storico e biografico, ma catechetico o, come si suole dire, «kerygmatico», vale a dire di «annuncio della salvezza che Dio ha operato in Cristo, morto e risorto, per tutti gli uomini».
In altre parole, gli evangelisti partono, in quanto credenti, da un dato di fede: Gesù di Nazaret — predicatore del regno di Dio e «potente in opere e in parole», in quanto annunciatore del messaggio di Dio con autorità assoluta e operatore di prodigi a favore di persone sofferenti nel corpo e nello spirito — è stato ucciso da uomini malvagi con il supplizio infamante della crocifissione; ma dopo tre giorni Dio l’ha fatto risorgere dalla morte e lo ha fatto sedere alla sua destra, quale unico Salvatore degli uomini, Signore della storia umana e Giudice di tutta l’umanità alla fine dei tempi. È da questa prospettiva «kerygmatica», e con lo scopo di servire alla vita e alla catechesi delle comunità cristiane e all’attività missionaria di queste, che gli evangelisti hanno redatto i loro Vangeli.
Ma questo non significa che essi non abbiano avuto un interesse storico: non abbiano cioè avuto la preoccupazione di presentare ai loro lettori il Gesù nella sua esistenza concreta. «Se ci si interroga sulla base storica, risulta da tutti gli evangelisti che essi poggiano su tradizioni riguardanti il Gesù storico, che ben presto furono raccolte, elaborate in forma narrativa e al tempo stesso anche interpretate. Tutti gli evangelisti sono convinti di riportare nei loro racconti qualcosa di vero della vita di Gesù, qualcosa che è accaduto (particolarmente chiaro Lc 1,1-4)»[5].
Infatti, proprio all’inizio del suo Vangelo, Luca afferma che «molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi»; a questi «molti» e servendosi di quanto essi hanno scritto, si aggiunge anche lui, Luca, quando «decise di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne un resoconto ordinato». È chiara perciò l’intenzione dell’evangelista Luca di scrivere un’opera storicamente fondata. Luca cioè vuol dare di Gesù un’immagine storicamente fedele, anche se il punto di vista da cui egli guarda la figura di Gesù è quello del significato salvifico. Il suo Vangelo perciò non è una biografia di Gesù, ma la raccolta di avvenimenti, azioni e detti che ne mettono in luce la missione e l’opera di salvezza.
Tali avvenimenti, detti e fatti sono accaduti nella vita di Gesù, e dunque hanno una base storica, ma all’evangelista servono per dare un’immagine dell’opera salvifica di Gesù e del suo destino di Salvatore degli uomini. In conclusione, il fondamento storico di quanto è detto nei Vangeli è sicuro; ma esso è oltrepassato dalla visione di fede che gli evangelisti hanno di Gesù, il Crocifisso risuscitato. Questa visione ha fatto sì che gli avvenimenti storici della vita di Gesù fossero rivisti e reinterpretati alla luce della Risurrezione.
È avvenuto così che ogni evangelista, secondo la propria cultura e la propria sensibilità, in base alle tradizioni orali e scritte di cui era in possesso e secondo le necessità della propria comunità, abbia elaborato un’immagine — potremmo dire, un «ritratto» — di Gesù di Nazaret, insieme fondato nella storia, ma elevato a un piano sovrastorico, cioè al piano del mistero di Dio. Tale piano è il solo che riesce a gettare luce sugli interrogativi che, sul piano storico, accompagnano Gesù di Nazaret.
Si può affermare allora che i Vangeli sono la storia più «vera» di Gesù, perché essi soltanto ci permettono di penetrare a fondo nel «mistero», che nella storia umana rappresenta la figura di Gesù. Essi però non devono essere né fusi in un solo Vangelo né sommati, quasi che, mettendoli insieme, si avrebbe un’immagine più completa di Gesù. In realtà, pur parlando dello stesso Gesù, ognuno di essi, come si è detto, ne dà un’immagine propria, che con l’andar del tempo si è andata arricchendo attraverso l’apporto di ulteriori tradizioni su Gesù, ma anche attraverso le riflessioni di ogni evangelista sulla persona del Salvatore. Così c’è una grande differenza tra il primo Vangelo, che è il Vangelo secondo Marco, e l’ultimo, che è il Vangelo secondo Giovanni. Ma tanto l’uno quanto l’altro sono necessari per conoscere chi è stato storicamente e chi è oggi, per gli uomini del nostro tempo, Gesù di Nazaret.
Il «ritratto» di Gesù nel Vangelo di Marco
Quanto abbiamo detto sin qui può servire da introduzione al nostro proposito di presentare i quattro «ritratti» che i quattro Vangeli tracciano della persona di Gesù[6]. Cominciamo dalla presentazione che ne fa il Vangelo più antico — quello secondo Marco — destinato a una o più comunità formate essenzialmente da pagano-cristiani, e scritto prima del 70 (anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera delle legioni romane al comando di Tito) probabilmente a Roma[7]. Per comporre il suo Vangelo Marco si è servito di «raggruppamenti di dati tradizionali già messi per iscritto nell’interesse delle comunità cristiane» e di «tradizioni che si tramandavano, per la maggior parte oralmente nella comunità. L’evangelista si è assunto il compito di calarli nella sua “biografia”, rimaneggiandoli in caso di bisogno […]. Il tutto confluisce in un Vangelo che non è però affatto un assemblaggio eteroclito di tradizioni, ma che, a una lettura attenta, appare l’opera di un autore consapevole dei suoi doveri e preoccupato di rivolgere ai lettori futuri un messaggio omogeneo e salvifico»[8].
Nel Vangelo di Marco il Gesù storico è talmente presente che S. Légasse non esita a dire che esso «non è un trattato di teologia, ma un racconto, una vita di Gesù»[9].
Gesù, annunciatore del regno di Dio e maestro della comunità
Marco inizia il suo Vangelo presentando Gesù come l’annunciatore del regno di Dio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). In queste parole è compendiata la predicazione di Gesù. Questo annuncio è il suo primo e più importante compito, e in esso è presente la potenza salvifica di Dio. Col suo annuncio Gesù vuole raggiungere l’intero popolo d’Israele e, a tale scopo, costituisce il gruppo dei Dodici, che rappresentano simbolicamente le dodici tribù d’Israele e che egli invia a portare avanti la sua missione, dando loro la sua stessa autorità di cacciare i demoni.
Così, per Marco, Gesù è l’iniziatore di una missione di salvezza, che dovrà dapprima raggiungere tutto Israele e poi tutto il mondo, dovendo il Vangelo essere «proclamato a tutte le genti» (Mc 13,10). In realtà, per Marco, Gesù, che annuncia l’avvento della «signoria» o «regno» di Dio, estende la sua azione al di là della sua comparsa storica: egli è legato al Cristo che, dopo la Pasqua, continua ad annunciare il regno di Dio attraverso la Chiesa.
L’immagine di Gesù annunciatore del regno di Dio è associata, in Marco, a quella di «maestro» (rabbi). Egli insegna nella sinagoga, nel Tempio e anche all’aperto, lungo le sponde del lago di Genezaret o in giro per i villaggi. Marco nota che Gesù «vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Ma nota anche che l’insegnamento di Gesù si distingue da quello degli scribi del tempo, perché egli insegna «come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22), e la sua è «una dottrina nuova insegnata con autorità» (Mc 1,27).
Nel riportare l’insegnamento di Gesù, Marco ha di mira i problemi che sorgono nella propria comunità cristiana: cioè l’insegnamento del Gesù storico diviene attuale e si prolunga nella vita della comunità. Così il capitolo decimo tocca questioni attuali per la vita della comunità: la liceità del divorzio (vv. 2-12), la posizione dei bambini nella comunità, che devono essere accolti e non respinti (13-16), il problema della ricchezza e della povertà (17-31), la pretesa dei figli di Zebedeo di occupare i primi posti nel regno di Dio, che pone il problema del comandare e del servire (35-45). Si tratta di questioni che toccano la vita della comunità cristiana e che vengono risolte con le parole e con l’esempio di Gesù. «Da annunciatore, Gesù diviene il “maestro” della sua comunità»[10].
Ma quello che soprattutto conta è che, per Marco, Gesù parla con autorità assoluta dietro la quale c’è Dio; perciò con la stessa autorità assoluta egli può istruire la sua comunità sugli interrogativi che riguardano la sua vita. Quello che stupisce in Marco è il fatto che, da una parte, egli afferma che Gesù «insegnava [alle folle] molte cose in parabole» (Mc 4,2); ma, dall’altra, egli non riporta di Gesù se non tre parabole soltanto: quella dello spargimento della semente (4,3-9); quella del seme che cresce da sé (4,26-29) e quella del granello di senapa (4,30-32), probabilmente perché le trovava più adatte ai bisogni della sua comunità.
Invece mette fortemente l’accento sul fatto che l’insegnamento di Gesù, per essere compreso, richiede uno sforzo di attenzione a causa del suo significato profondo: «Chi ha orecchi per intendere intenda» (Mc 4,9). Tuttavia Marco aggiunge che la comprensione dell’insegnamento di Gesù in parabole è la conoscenza di un «mistero», che Dio dona a coloro che seguono Gesù e hanno fede in lui e che nega a coloro che volontariamente si chiudono nell’incredulità e nell’indurimento del cuore (Mc 4,11-12). Eppure, benché l’insegnamento di Gesù fallisca in molti casi — quando la sua parola cade sulla strada, nel terreno sassoso e tra le spine che la soffocano —, esso non è vano, perché, quando viene accolto nella terra «buona», cioè con fede nella persona di Gesù, rende il trenta, il sessanta e anche il cento per uno (Mc 4,8).
Gesù guaritore ed esorcista
Insieme con l’attività d’insegnamento, Marco mette in forte rilievo l’attività di Gesù come guaritore ed esorcista. In realtà, benché sia venuto per annunciare il regno di Dio e insegnare, Gesù è in contatto continuo con gli ammalati di ogni genere: la suocera di Pietro (Mc 1,29-31), un lebbroso (1,40-45), un paralitico (2,1-12), un uomo con la mano paralizzata (3,1-6), l’indemoniato di Gerasa (5,1-20), l’emorroissa e la figlia morta di Giairo (5,21-43), la figlia della sirofenicia (7,24-30), un sordomuto (7,31-37), il cieco di Betsaida (8,22-26), il ragazzo epilettico (9,14-27), il cieco Bartimeo, presso Gerico, sulla via che conduce a Gerusalemme (10,46-52). Così, dal principio alla fine del suo ministero — dalla casa di Pietro a Cafarnao a Gerusalemme —, le guarigioni di malati accompagnano l’attività d’insegnamento di Gesù. Queste guarigioni, insieme con gli esorcismi, ai quali sono spesso legate, fanno parte del «ritratto» che Marco traccia di Gesù: egli è l’esorcista e il terapeuta che guarisce i malati mediante una forza risanatrice che emana da lui, come nel caso della donna che perde sangue e che è risanata dalla «potenza» uscita da Gesù che egli stesso ha avvertito (Mc 5,30).
Con le sue guarigioni Gesù ripristina la benedizione della creazione di Dio e apre la via al tempo messianico, di cui parla Isaia (35,5-10). In realtà, per Marco, le guarigioni e gli esorcismi sono il segno del tempo della salvezza, in cui Dio, per mezzo di Gesù, vuole sanare le debolezze e le infermità umane. Il Gesù che annuncia il regno di Dio è anche colui che lo realizza, guarendo le ferite dell’umanità. Ma ciò che per Marco conta di più è che le guarigioni, gli esorcismi e le «opere di potenza (dynameis)» che Gesù compie, come il salvataggio dalla burrasca, la moltiplicazione dei pani, rivelano lo splendore futuro della risurrezione, di cui la trasfigurazione sul monte è l’anticipazione e che perciò può essere compresa soltanto dopo la risurrezione: per questo i discepoli, che hanno assistito alla trasfigurazione, non dovranno parlarne se non dopo che Gesù sarà risorto dai morti (Mc 9,2-9). Soltanto allora infatti sarà svelato il «mistero» di Gesù: durante la sua vita terrena la sua persona e la sua opera saranno coperte da un velo che soltanto la fede potrà sollevare, ma solamente in misura minima.
Il «fallimento» di Gesù
Tuttavia questo velo non sarà sollevato né dalle folle che seguono Gesù e lo ascoltano «volentieri» (Mc 5,24; 12,37), ma che presto lo abbandonano, deluse; né dai suoi parenti, che lo ritengono «fuori di sé» e vanno perciò «a prenderlo» (Mc 3,21), per ricondurlo al suo villaggio natale; e neppure dai discepoli, che non lo comprendono e ai quali egli deve rimproverare di avere «il cuore indurito», di avere occhi, ma di non vedere (Mc 8,17-18). E infatti, quando Gesù cammina sul mare, lo credono un «fantasma» (Mc 6,49); e Pietro viene rimproverato aspramente, perché per Gesù è un «satana», un tentatore, che vuol distoglierlo dal suo cammino di sofferenza, perché «non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,32-33). In realtà, ai suoi discepoli il Padre ha comunicato il «mistero del regno», cioè il mistero di Gesù, della sua persona e della sua opera; ma Gesù deve rimproverarli di essere «uomini di poca fede» nella sua potenza, di avere paura e di non sapersi affidare a lui nei pericoli (Mc 4,35-41).
A questa incapacità di comprendere Gesù e alla pochezza di fede in lui, che ne è la conseguenza, si aggiungono la paura di seguire Gesù in cammino verso Gerusalemme (Mc 10,32), il lasciarsi sopraffare dal sonno nel Getsemani, incapaci di comprendere il dramma che sta per svolgersi (Mc 14,37-40), il tradimento di Giuda e l’abbandono di «tutti» i discepoli (14,50), anche se Pietro lo segue «a distanza» fin nel palazzo di Caifa, dove si comporta in maniera deplorevole. Nessuno di essi è presente alla crocifissione del Maestro e il loro silenzio al mattino di Pasqua è in contrasto col coraggio delle donne, le quali dapprima ne hanno preso il posto sotto la croce e poi, al mattino di Pasqua, sono corse da essi ad annunciare la risurrezione.
Così Marco presenta come un «fallimento, che si può ben dire totale»[11], l’azione di Gesù nei riguardi dei suoi discepoli; tuttavia, le lacrime di Pietro (Mc 14,72), la promessa di Gesù che precederà i suoi discepoli in Galilea (Mc 14,28) dopo la sua risurrezione, e là lo «vedranno» (Mc 16,7), per ricominciare un nuovo cammino — quello della Chiesa — con la forza dello Spirito che li assisterà (Mc 13,11), apre l’animo alla speranza: per Marco, il fallimento dei discepoli è un avvertimento per i cristiani, che devono rendersi conto di quanto sia duro seguire Gesù e di quante difficoltà questo comporti: difficoltà che si possono superare soltanto con la fede in Gesù e col seguirlo sulla via della croce, nella consapevolezza che la croce sfocia nella risurrezione.
Gesù in cammino verso la morte
Così il «ritratto» che Marco traccia di Gesù è, da una parte, quello dell’annunciatore del regno di Dio, del «maestro» e del terapeuta, ma dall’altra, è quello dell’«incompreso» dai suoi discepoli. A questa incomprensione si aggiunge il conflitto, sempre più duro e aspro con i capi religiosi — sommi sacerdoti di tendenza sadducea — e le guide spirituali (scribi e farisei) del suo popolo, i quali nel loro scontro con Gesù sul sabato, sulle regole di purità legale, sulla sua attività di esorcista, si mostrano ottusi e malevoli, ritenendolo un violatore della Legge — in particolare, del sabato —, un falso esorcista che agisce col potere di Satana. Così, fin dal principio del suo ministero, il destino di Gesù è segnato: subito dopo la guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata, i farisei e gli erodiani, usciti dalla sinagoga, «tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6).
Nel Vangelo di Marco, Gesù appare «continuamente in cammino»[12]; ma è un cammino che lo conduce verso la morte. Egli è cosciente di questo suo destino e per ben tre volte dice ai suoi discepoli che va a Gerusalemme per essere ucciso. Così il «ritratto» di Gesù in Marco è tracciato su uno sfondo drammatico, come appare dalla parabola dei vignaioli omicidi, nella quale l’ostilità dei capi del popolo, ai quali la parabola è raccontata, sospinge Gesù, il «figlio diletto» di Dio, verso la morte (Mc 12,1-12).
Ma Gesù non si avvia passivamente alla morte: egli affronta i suoi avversari, discute con loro, ne denuncia l’incapacità di comprendere lo scopo della Legge di Dio, che è il bene e la salvezza dell’uomo, ne svela le trame per toglierlo di mezzo senza che il popolo insorga, ricorrendo all’«inganno» (Mc 14,1), e infine ne sottolinea la sterilità religiosa con il simbolo del fico sterile (Mc 11,12-14). Per tale motivo, tutto il Vangelo di Marco tende verso la passione, che si concluderà con la morte di Gesù sulla croce.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Il punto più alto dello scontro mortale tra Gesù e i suoi nemici si ha quando, di fronte al sinedrio, che è l’istanza religiosa suprema del popolo d’Israele, al sommo sacerdote che gli chiede se egli è il Messia, il Figlio del Benedetto [Dio], Gesù risponde: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo» (Mc 14,62). Con questa risposta Gesù confessa chiaramente la sua messianicità; ma nello stesso tempo la eleva in un orizzonte più ampio, affermando che egli è il «Figlio dell’uomo» di cui parla Daniele (Dn 7,13), che siede alla destra di Dio e verrà sulle nubi del cielo, come Signore e Giudice, in potenza e splendore. Questa risposta di Gesù al sommo sacerdote trova la conferma nelle parole del centurione romano che, avendolo visto «spirare in quel modo», esclama: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39), e nell’annuncio dell’angelo alle donne presso il sepolcro: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (Mc 16,6).
Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo
In tal modo al centro del «ritratto» che Marco traccia di Gesù c’è l’affermazione che egli è il Figlio di Dio, rigettato dagli uomini e crocifisso, ma esaltato da Dio con la risurrezione dai morti. Infatti il titolo di «Figlio di Dio» ricorre cinque (o sei) volte nel Vangelo di Marco in momenti decisivi come quelli del battesimo e della trasfigurazione, del processo dinanzi al sinedrio e al momento della morte. Se la soprascritta del Vangelo di Marco — Evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio — è autentica[13], il suo autore inizia e chiude il Vangelo con l’affermazione che Gesù, nella sua vita e nella sua morte, pur così ignominiosa, è il Figlio di Dio, e quindi che per lui questa espressione è la categoria interpretativa della vicenda terrena di Gesù più significativa e più vera. Indubbiamente il titolo di Figlio di Dio non è l’unico che Marco attribuisce a Gesù; tuttavia è quello che riassume e dà senso e valore a tutti gli altri.
Infatti in Marco, Gesù riceve molti titoli: egli è il Maestro, il Signore, il figlio di Davide, il Messia («il Cristo»): titolo, quest’ultimo, che lo caratterizza in maniera particolare, tanto da divenire, senza articolo, una specie di cognomen: Gesù Cristo. Infatti, quando egli chiede ai suoi discepoli chi essi pensano che egli sia, Pietro a nome di tutti risponde: «Tu sei il Messia» «il Cristo», che traduce in greco l’ebraico Mashiâ e che significa l’Unto, consacrato con l’unzione, riservata nell’Antico Testamento ai re e ai sommi sacerdoti. Ma Gesù accetta questo titolo con riserva: esso ricorre otto volte nel Vangelo di Marco, ma mai sulla bocca di Gesù.
In realtà nel modo di pensare comune dei suoi contemporanei giudei, il Messia, figlio di Davide, è glorioso e trionfante. Egli ha una funzione politica, in quanto deve liberare il popolo d’Israele dal dominio straniero e compiere quindi una funzione terrena di ordine politico, ma Gesù non intende la sua missione messianica in senso politico e terreno; perciò impone «severamente» ai suoi discepoli di non dire a nessuno che egli è il Messia (Mc 8,30), per evitare che la gente veda in lui il Messia glorioso e trionfante che egli non è né vuole essere. È il segreto messianico, così fortemente sottolineato in Marco. Anzi, ai discepoli, che pensano come gli altri al Messia glorioso, Gesù annuncia «apertamente» che egli dovrà «molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31). Così Gesù è il Messia, ma il Messia che compie la sua missione messianica attraverso la sofferenza della passione e della morte. Questo è il motivo per cui nel Vangelo di Marco è dato tanto rilievo al racconto della passione: è infatti in essa che Gesù si rivela veramente «Messia».
Il titolo, invece, che Gesù si attribuisce senza riserve nel Vangelo di Marco, è quello di «Figlio dell’uomo»: questa espressione ricorre 14 volte in Marco e sempre e soltanto sulla bocca di Gesù. Marco ha legato questo titolo alla persona di Gesù, riferendolo solamente a lui: così, per Marco, Gesù è il «Figlio dell’uomo» come è il «Figlio di Dio». I due titoli sono complementari. Infatti Gesù designa se stesso come «Figlio dell’uomo» soprattutto in tre occasioni. Anzitutto quando vuole affermare che ha il potere di rimettere i peccati già sulla terra (Mc 2,10) e di essere «signore anche del sabato» (Mc 2,28). Perciò il titolo di «Figlio dell’uomo» è un titolo di autorità: indica il potere autoritativo concesso dal Padre al Gesù terreno, in quanto egli è l’interprete della volontà di Dio sul comandamento del sabato e ha il potere, proprio di Dio, di rimettere i peccati. Questo potere autoritativo si traduce però nel servizio: perciò si dice che «il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
In secondo luogo il titolo di «Figlio dell’uomo» è collegato con la passione e la morte di Gesù: esso infatti si trova negli annunci che fa Gesù della sua passione e della sua morte (Mc 8,31; 9,12.31; 10,33; 14,21.41). Così, se da un lato «Figlio dell’uomo» indica sovranità e potenza, dall’altro è un titolo di umiltà e di abbassamento: il «Figlio dell’uomo» è il «Figlio di Dio» nella sua vicenda terrena di sofferenza e di morte «per il riscatto di molti»; è il «Servo di Dio» che prende su di sé i peccati degli uomini e li salva. Nel destino doloroso del Figlio dell’uomo si compie il disegno di salvezza, preannunciato nel Servo di JHWH (Is 52-53).
In terzo luogo il titolo di «Figlio dell’uomo» è collegato con la venuta di Gesù nella sua gloria: «Chi si vergognerà di me […], il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo, con gli angeli santi» (Mc 8,38). «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,26). Infine, dinanzi al sinedrio che lo sta giudicando, dopo aver affermato di essere il Messia, il Figlio del Benedetto, Gesù aggiunge: «E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza [Dio] e venire sulle nubi del cielo» (Mc 14,62). Qui il riferimento è a Daniele (Dn 7,13), dove si parla dell’apparizione sulle nubi del cielo di «uno, simile a un figlio dell’uomo», a cui Dio dà «potere, gloria e regno».
In conclusione, per Marco, Gesù è il Figlio di Dio che nella vicenda terrena, culminata nella passione dolorosa e nella morte ignominiosa, assume l’umile e tragica condizione di un figlio di uomo, ma che con la risurrezione e sedendo alla destra del Padre rivela la sua vera natura di Redentore degli uomini, attraverso la sua vittoria sul peccato e sulla morte, e di Giudice degli uomini alla fine della storia umana. Per tale motivo, nel «ritratto» di Marco, Gesù appare nello stesso tempo come il «Figlio di Dio»[14] e il «Figlio dell’uomo»[15]. Intorno a queste due immagini, ricevute dalla tradizione, egli costruisce il suo Vangelo.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2004
Riproduzione riservata
***
[1] Cfr S. PIÈ-NINOT, La Teologia fondamentale, Brescia, Queriniana, 2002, 358-369.
[2] R. SCHNACKENBURG, La persona di Gesù Cristo nei quattro Vangeli, Brescia, Paideia, 1995, 25 s.
[3] IRENEO, S., († 202 circa), Adv. haer., 3, 11, 8.
[4] Ivi, 3, 11, 9.
[5] R. SCHNACKENBURG, La persona di Gesù…, cit., 440.
[6] Ci serviremo principalmente di R. SCHNACKENBURG, La persona di Gesù Cristo nei quattro Vangeli, cit., 37-114. Per il Vangelo di Marco sono stati consultati anche J. GNILKA, Marco, Assisi (PG), Cittadella, 1987, 964; S. LÉGASSE, Marco, Roma, Borla, 2000, 892; B. RIGAUX, Testimonianza del Vangelo di Marco, Padova, Gregoriana, 1968, 182; F. LAMBIASI, Vangelo di Marco, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1987, 127; R. PESCH, Il Vangelo di Marco, 2 voll., Brescia, Paideia, 1980-82.
[7] S. LÉGASSE, Marco, cit., 38 s, dopo aver criticato la testimonianza di Papia, vescovo di Gerapoli, che fa di Marco l’«interprete (hermèneutès) di Pietro»; dopo aver detto che non si può identificare l’autore del primo Vangelo con Marco, di cui si parla in vari scritti del Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli, Lettere di Paolo e di Pietro), così conclude: «Se non ci si vuole rassegnare a farne [dell’autore del Vangelo secondo Marco] uno sconosciuto tra i giudeo-cristiani di Roma, dobbiamo accordare qualche credito alla tradizione che lo chiama Marco e lo identifica con Giovanni-Marco di Gerusalemme. In questo caso, essendo sufficientemente seri gli argomenti in favore della composizione del vangelo a Roma, è possibile che Marco sia emigrato dall’Oriente alla capitale e che in seno alla comunità romana e in primo luogo per essa abbia composto la sua opera».
[8] Ivi, 39 e 41.
[9] Ivi, 45.
[10] R. SCHNACKENBURG, La persona di Gesù..., cit., 41.
[11] S. LÉGASSE, Marco, cit., 52
[12] J. GNILKA, Marco, cit., 322.
[13] Il dubbio è dovuto al fatto che l’espressione «Figlio di Dio» non si trova in alcuni codici importanti e non si spiega la sua soppressione per mano di un copista, data la tendenza dei copisti ad aggiungerla, come in Mc 8,29, dove alla risposta di Pietro alla domanda di Gesù — «Voi chi dite che io sia?» — «Tu sei il Cristo», alcuni manoscritti aggiungono: «il Figlio di Dio». Tuttavia molti commentatori, come J. Gnilka (Marco, cit., 41) e R. Schnackenburg (La persona di Gesù…, cit., 76), la ritengono autentica.
[14] Alcune volte, in Marco, invece del titolo «Figlio di Dio» appare quello di «Figlio», come in Mc 13,32. Il termine «Figlio» non si oppone a quello di «Figlio di Dio», ma ne è una variante, nel senso che il «Figlio» è il «Figlio prediletto» del Padre (Mc 9,7), è «il figlio prediletto» del padrone della vigna — Dio — che egli invia a ritirare i frutti della vigna (Mc 12,6).
[15] A questo proposito si può rilevare la forte sottolineatura che Marco, a differenza degli altri Sinottici, fa dell’«umanità» di Gesù. Anche per Matteo e Luca, Gesù è veramente uomo. Marco però — come osserva B. Rigaux (Testimonianza…, cit., 114) — «è il solo a riportare sentimenti e azioni del Maestro, che la tradizione a poco a poco ha lasciato da parte, giudicandoli alla luce della glorificazione, troppo terrestri». Infatti soltanto Marco descrive i sentimenti di Gesù in certe occasioni: è preso dalla commozione alla vista del lebbroso che lo supplica in ginocchio e, dopo averlo guarito, lo ammonisce «severamente» di non dire niente a nessuno (Mc 1,40-43). È meravigliato della mancanza di fede degli abitanti di Nazaret (Mc 6,6). Si rattrista per l’indurimento dei cuori dei farisei e li guarda «con indignazione» (Mc 3,5). «Si indigna» con i discepoli che allontanano da lui i bambini, che egli invece prende tra le braccia e benedice (Mc 10,13-16). Fissa uno sguardo di amore — «fissatolo, lo amò» — sul giovane ricco e non accetta che egli lo chiami «buono» (Mc 10,21.17). Infine solamente Marco, seguito da Matteo ma non da Luca, mette sulle labbra di Gesù morente sulla croce il grido angoscioso: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Così in Marco, Gesù, il «Figlio di Dio», appare nel pieno della sua umanità, come vero «Figlio dell’uomo».