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I primi giorni di Papa Francesco hanno colpito i fedeli toccando le corde della sensibilità e dell’immaginario. I suoi gesti, segnati dall’immediatezza e dalla semplicità, hanno avuto una potenza simbolica molto forte, e sembrano rispondere a esigenze molto avvertite tra la gente, anche nella società civile. Non è un caso che sui giornali abbiamo letto commenti che tenevano presente la situazione politica e sociale del nostro Paese, ma anche la situazione di crisi generale che l’Occidente sta vivendo. Questo Papa venuto da finis terrae, dalla «fine del mondo», ha messo in moto energie sopite, speranze che sembravano deluse, forse l’immaginario di un mondo nuovo, migliore. L’entusiasmo espresso, da fedeli e non, nei primi giorni sarà chiamato a diventare forte sostegno nel prossimo futuro quando Francesco farà le sue scelte, specialmente se e quando la croce si manifesterà sul suo cammino.
Come leggere dunque i primissimi giorni di pontificato di Papa Francesco alla luce delle sue parole e dei suoi gesti? Consideriamo qui solamente ciò che è accaduto dalla sera della sua elezione fino alla Messa di inizio del ministero petrino del vescovo di Roma, momento in cui chiudiamo queste riflessioni. Individueremo due pilastri fondamentali della sua visione e ciò che li lega tra loro.
Un messaggio per tutti
Papa Francesco ha colpito subito per il suo stile di relazione e, più precisamente, per il modo di comunicare con chi ha davanti. Nel momento della sua elezione si è rivolto ai fedeli raccolti in piazza San Pietro con il saluto: «Fratelli e sorelle, buonasera!». Così alla conclusione ha salutato dicendo: «Buona notte e buon riposo!»; alla fine del suo primo Angelus: «Buona domenica e buon pranzo!». Il saluto dal gusto ordinario, «laico», si potrebbe dire, ha subito rivelato che per questo Papa la relazione è fondamentale: l’annuncio si compie nelle relazioni. Non c’è contenuto o messaggio che possa essere comunicato se non c’è una relazione umana alla base. Se c’è qualcosa che la ostacola, va rimosso.
Per il Papa questo significa anche gestire in maniera molto personale il comportamento, lo spazio e le distanze all’interno della comunicazione, come abbiamo scoperto successivamente. Il Papa ama gesti che significano vicinanza a «distanza personale» e quindi ravvicinata, inclusi gli abbracci calorosi che indicano empatia e condivisione. Papa Francesco, più che «comunicare», crea «eventi comunicativi» ai quali chi riceve il suo messaggio partecipa attivamente. Quando il Papa si è affacciato per la prima volta dalla loggia delle benedizioni, ha come «fotografato» con parole la scena con una istantanea dicendo: «E adesso incominciamo questo cammino: vescovo e popolo». E per dare corpo a questo «noi», ha chiesto al popolo di pregare il Signore per lui lì, in quel momento. E così ha chiesto il silenzio al quale tutti, vescovo e popolo, hanno partecipato: un unico evento comunicativo di profonda portata simbolica e spirituale.
Questo stile è ricco di contenuto e offre una immagine di Chiesa, ma è anche la cifra di una missionarietà radicale, inclusiva, capace di aprirsi in un abbraccio in grado di contenere tutti. Forse risulta esemplare il fatto che alla fine del suo incontro con gli operatori dei media il Papa abbia impartito la sua benedizione in silenzio. Dunque l’ha impartita. Ma silenziosamente, perché «molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti». Si tratta di un gesto singolare compiuto «rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio». La potenza di questa benedizione silenziosa ha attraversato persino le barriere dei cuori giungendo a toccare chiunque, proprio grazie alla creazione di un «evento comunicativo» che non ha lasciato fuori nessuno. Soltanto ha preso atto della pluralità delle presenze, svolgendo comunque la sua missione che ricorda il nome di Dio di cui «ciascuno» (che dice più che «tutti») è figlio.
Papa Francesco guarda in particolar modo a coloro che, «pur non condividendo la nostra fede — come ha detto durante l’udienza al Collegio cardinalizio nella Sala Clementina — guardano con rispetto e ammirazione alla Chiesa e alla Santa Sede». Il messaggio del Vangelo dunque è chiamato a varcare anche i confini di coloro che più consapevolmente si sentono partecipi della vita della Chiesa: «riguarda tutti».
Questa radicale apertura si fonda su un atteggiamento che il Papa ha riconosciuto presente negli operatori dei media: «Voi avete la capacità di raccogliere ed esprimere le attese e le esigenze del nostro tempo, di offrire gli elementi per una lettura della realtà». Ciò che il Papa riconosce ai giornalisti è in realtà parte della sua stessa spiritualità. Il missionario non è chiamato solamente ad annunciare il Vangelo, ma anche, prima ancora, a riconoscere le attese profonde che l’uomo sperimenta, e a leggerle alla luce della fede. Papa Francesco appare convinto che la vita spirituale delle persone non sia morta, ma a volte fuoriesca dal mondo della confessione religiosa. Le grandi domande oggi sono ancora facilmente riconoscibili, ma c’è bisogno che qualcuno le intenda e le legga bene. C’è bisogno in particolare, come ha detto il Papa, che si presti attenzione a «verità, bontà, bellezza». Il Papa chiede dunque un attento discernimento spirituale per «cercare e trovare Dio in tutte le cose», come scriveva Ignazio di Loyola.
Il discernimento spirituale evangelico cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. La creatività dello Spirito è all’opera ovunque, in tutte le dimensioni della crescita del mondo, nella diversità delle sue culture e nella varietà delle sue esperienze spirituali. Papa Francesco è stato formato a questo tenendo davanti a sé figure come Francesco Saverio e come Matteo Ricci. Compito della Chiesa, dunque, è — rispondeva l’allora cardinal Bergoglio in una intervista — «evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Se però la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima»1.
Ecco dunque che è facile individuare una prima grande sfida del pontificato di Papa Francesco: la trasmissione della fede in un mondo complesso, considerando quello che sant’Ignazio di Loyola chiamava un presupponendum aperto e positivo circa gli atteggiamenti, le parole, la sincera ricerca degli altri (Esercizi Spirituali [ES], 22).
Un’immagine di Chiesa
Papa Francesco nei suoi primi giorni di ministero petrino non ha fatto riferimento a sé come «Pontefice» o «Vicario di Cristo», ma ha usato spesso il titolo di «Vescovo di Roma», sapendo che la Chiesa di Roma «è quella che presiede nella carità tutte le Chiese». Se uniamo queste parole alle considerazioni precedenti, possiamo cogliere un’immagine di Chiesa. La sua universalità non è un’astrazione, ma vive della comunione di realtà locali che sono espressioni concrete dell’unico corpo di Cristo.
La dinamica vitale della Chiesa è stata esplicitata da Papa Francesco durante la Messa pro Ecclesia celebrata con i cardinali elettori nella Cappella Sistina il 14 marzo: «camminare, edificare, confessare». La Chiesa è innanzitutto il popolo di Dio in cammino «nella luce del Signore» (Is 2,5). Si può ricordare che sant’Ignazio di Loyola fa riferimento proprio all’«esercizio corporale» del camminare per far comprendere cosa sia l’«esercizio spirituale» (ES, 3). E la stessa Autobiografia del fondatore della Compagnia di Gesù è conosciuta come «Il diario del pellegrino». La Chiesa, in cammino «spirituale e missionario», è chiamata a «edificare» se stessa «sulla pietra angolare che è lo stesso Signore». Confessare Cristo dunque è la radice della Chiesa, ciò che ci fa discepoli. E, quando parla di Cristo, Papa Francesco intende parlare di Cristo crocifisso: «Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore».
Papa Francesco non si stanca di ripetere: «Cristo. Cristo è il centro. Cristo è il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa. Senza di lui, Pietro e la Chiesa non esisterebbero né avrebbero ragion d’essere» (Udienza ai rappresentanti dei mezzi di comunicazione sociale). Questa centralità di Cristo e della sua croce è tipica del resto della spiritualità della Compagnia di Gesù, nella quale il Papa si è formato: riecheggiano qui le parole della sua Formula Instituti, che così comincia: «Chiunque — nella nostra Compagnia che desideriamo insignita del nome di Gesù — vuole militare per Iddio sotto il vessillo della croce e servire soltanto il Signore e la Chiesa sua sposa…».
I legami che tengono unita questa Chiesa che è in cammino spirituale ed edifica se stessa confessando Cristo sono legami forti. Il Papa vuole puntare molto sul far risplendere la «bellezza della realtà ecclesiale». Parlando ai suoi «fratelli cardinali» Papa Francesco ha usato espressioni molto precise e chiare per definire il tipo di legame che unisce il Collegio, ma che fanno comprendere, più in generale, che cosa significa per lui vivere una «intensa comunione ecclesiale»: ha parlato di «reciproca conoscenza e mutua apertura», di «quella comunità, quell’amicizia, quella vicinanza che farà bene a tutti», di «autentico affetto collegiale», di «condividere fraternamente i nostri sentimenti, le nostre esperienze e riflessioni». E ricordiamo a questo punto che Ignazio di Loyola chiamava i suoi compagni gesuiti amigos en el Señor. Papa Francesco intende vivere una «collegialità affettiva ed effettiva», secondo l’espressione usata in un messaggio ufficiale inviato dal Consiglio permanente della Cei.
È chiaro comunque che questo messaggio non è affatto di puro ottimismo ingenuo o di semplice appello al volersi bene e, men che meno, all’uniformità. Papa Francesco è ben consapevole che la Chiesa non è il frutto della nostra volontà di comunione ma un dono dello Spirito, come disse in un’intervista: «Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione»2.
Se il suo afflato «affettivo ed effettivo» ha certamente un significato ecclesiologico, in realtà ha una portata più ampia. Innanzitutto un significato ecumenico. Un effetto si è manifestato concretamente nel fatto che per la prima volta dallo scisma del 1054 un Patriarca ortodosso, Bartolomeo I, ha partecipato alla messa di inizio del suo ministero di Vescovo di Roma. Avrà anche un impatto sul dialogo interreligioso e su quello con gli ebrei, come è stato dimostrato dall’invio di un telegramma del Papa al rabbino capo di Roma nel giorno stesso della sua elezione.
Come alcuni hanno notato, il compito di Papa Francesco non è solo quello di sostenere la Chiesa, come Francesco nel sogno di Innocenzo III affrescato da Giotto, ma è remare contro la crisi della fiducia e dei legami al tempo della crisi dell’Occidente, che non è solamente economica. In ogni caso Papa Francesco viene da quella Argentina che nel 2001 ha conosciuto una crisi molto dolorosa che minò la coesione della nazione. Puntare in maniera così forte sulle relazioni di comunione — anche nella loro dimensione percepibile, sensibile — significa far leva sulla fiducia reciproca per vincere pessimismo e scoraggiamento, «per far risplendere la stella della speranza».
Ecco quindi delinearsi una sfida ulteriore per il pontificato di Papa Francesco, una sfida di ampia portata che riguarda la collegialità nella Chiesa, ma anche l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.
Misericordia e custodia
Ci sembra dunque che i primi giorni di pontificato di Papa Francesco siano stati caratterizzati da questi due pilastri: uno stile comunicativo aperto e missionario, rivolto a tutti gli uomini, e un’immagine di Chiesa intesa come popolo di Dio in cammino che vive una comunione vivace. Ciò che unisce architettonicamente questi due pilastri è una immagine di Dio che è glorioso nella sua misericordia.
Come sappiamo il motto del Papa è Miserando atque eligendo. Esso è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile3, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi (Vidit ergo Iesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi: Sequere me)». Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di san Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nell’itinerario spirituale del Papa. Infatti, nella festa di san Matteo dell’anno 1953, il giovane Jorge Mario Bergoglio sperimentò, all’età di 17 anni, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito a una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che lo chiamava al ministero sacerdotale.
Papa Francesco è cresciuto nella Compagnia di Gesù, che chiede ai suoi membri: curet primo Deum, cioè «curati innanzitutto di Dio», e ha il motto di ogni sua azione nell’espressione ad maiorem Dei gloriam (per una gloria di Dio sempre più grande). Questo Dio però è glorioso proprio per la sua misericordia. Ignazio di Loyola, nella seconda meditazione dei suoi Esercizi Spirituali, chiede di «terminare con un colloquio di misericordia, ragionando e ringraziando Dio» (ES, 61).
Su Dio glorioso nella sua misericordia Papa Francesco ha centrato la sua omelia della messa nella parrocchia di sant’Anna in Vaticano di domenica 17 marzo concludendo con un appello: «Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia». E, subito dopo nell’Angelus dal Palazzo Apostolico ha proseguito: «Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito. “Grande è la misericordia del Signore”, dice il Salmo».
Alla percezione della misericordia di Dio corrisponde l’azione a cui l’uomo è chiamato. Papa Francesco ha individuato nel «custodire» il mondo un’azione che corrisponde al percepire la misericordia di Dio. Il 19 marzo, mosso dalla meditazione su san Giuseppe durante la Messa di inaugurazione del suo ministero petrino, ha proposto come compito suo, di ogni cristiano e di ogni uomo, e in particolare di «tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale», il ruolo di «custode» dell’intera creazione e di ogni persona.
Si tratta di una visione «francescana» che egli ha maturato all’interno della spiritualità ignaziana. In modo particolare nella cosiddetta contemplatio ad amorem che Ignazio di Loyola pone alla fine del cammino dei suoi Esercizi spirituali. In questa contemplazione è Dio stesso «custode» della sua creazione. Ignazio chiede di «osservare come Dio abita nelle creature: negli elementi dando essere, nelle piante facendo vegetare, negli animali fornendoli di sensi, negli uomini dando l’intendere; e così in me dandomi essere, vita, sensi e facendomi intendere. Quindi chiede di considerare l’azione di Dio: «Considerare come Dio fatica e opera per me in tutte le cose create sulla faccia della terra, cioè si comporta come uno che lavora. Così nei cieli, negli elementi, nelle piante, frutti, armenti ecc., dando essere, conservando, facendo vegetare, dando i sensi ecc».
Papa Francesco assume la stessa modalità ignaziana dell’elenco per espandere il senso della custodia a cui tutti siamo chiamati nelle relazioni: «È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!».
Il ministero petrino viene dunque inquadrato all’interno di una visione ampia e cosmica della custodia dei doni di Dio e delle relazioni umane. Questa logica corrisponde pienamente alla visione inclusiva che è propria di Jorge Mario Bergoglio. E ha i tratti del «discernimento» e della «consolazione», capisaldi della prospettiva spirituale ignaziana. Papa Francesco infatti chiede di essere come Giuseppe, cioè di vivere «nella costante attenzione a Dio, aperto ai segni», capace di «leggere con realismo gli avvenimenti», di essere «attento a ciò che lo circonda», di «prendere le decisioni più sagge». La custodia di cui parla Papa Francesco non è una apertura al creato e al mondo intesa come un sentimento di entusiasmo spontaneo: è invece una disciplina interiore che sa leggere ciò che accade e sa comprendere i segni e prendere adeguate decisioni.
La custodia dunque è una forma di sapienza spirituale critica frutto del discernimento, che sa agire in maniera conseguente: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!», ha esclamato il Papa parlando ai giornalisti. E rivolgendosi ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha aggiunto che «la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza, e penso che in molti dei vostri Paesi possiate constatare la generosità di quei cristiani che si adoperano per aiutare i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più umane e più giuste».
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Risulta chiaro dunque come lo spirito che accompagnerà Papa Francesco nell’affrontare le sfide che si troverà davanti sarà uno spirito di misericordia da «custode» e uno spirito di consolazione. Nel momento in cui Papa Benedetto ha rinunciato al ministero petrino aveva in mente come suo successore un uomo dotato di «vigore sia del corpo sia dell’anima» per far fronte ai rapidi mutamenti e a questioni di grande rilevanza per la vita della fede.
C’è da vedere una continuità di intenti tra l’ultimo gesto compiuto da Papa di Benedetto e il primo di Francesco: due gesti che sembrano ancora resistere a facili interpretazioni e che attendono sviluppi. Ancor prima di incontrarlo, più volte Papa Francesco ha richiamato nella preghiera e nell’augurio il suo predecessore. Non a caso i due Papi hanno assunto due nomi estremamente simbolici per la storia del cristianesimo, legati alla riforma di vita e a un cristianesimo vissuto con profonda autenticità.
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1. A. Tornielli, «Carrierismo e vanità, peccati nella Chiesa», in Vatican Insider, 14 marzo 2012 (http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/america-latina-latin-america-america-latina-12945/).
2. G. Valente, «Bergoglio il teologo: il pericolo è la mondanità spirituale», in Il Messaggero, 17 marzo 2013.
3. Om. 21 [CCL 122, 149-151].