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L’opera di Hans Urs von Balthasar, La verità è sinfonica, che porta il sottotitolo Aspetti del pluralismo cristiano, e allo stesso modo lo scritto di Karl Lehmann intitolato «Die Einheit des Bekenntnisses und der theologische Pluralismus», offrono un positivo apporto alla teologia del pluralismo: quella di Hans Urs von Balthasar affrontando direttamente il problema; quella di Lehmann nella sua relazione con la confessione della fede, da cui prende il titolo: «L’unità di confessione e il pluralismo teologico»1. Muoveremo dalle riflessioni di questi autori per addentrarci nella nostra riflessione teologica, considerando in particolare il Documento di Puebla2.
Unità di fede e pluralismo teologico
La bibliografia sui problemi del pluralismo teologico è molto abbondante, in rispondenza ai molteplici punti di vista da cui questo problema può essere affrontato. Al riguardo, merita particolare menzione la riflessione di Karl Rahner in svariate pubblicazioni. Karl Lehmann si pone, all’inizio del suo lavoro, la domanda sulla libertà della teologia, sui presupposti e sui condizionamenti che hanno originato l’attuale situazione teologica; e rimarca, come oggetto della sua riflessione ulteriore, la tensione esistente tra l’unità di confessione e il pluralismo teologico. Constata il fatto che la diversità nel momento presente è più accentuata che nel passato e oltrepassa la cornice di una gamma di ricchezze e possibilità per collocarsi in relazione intima con l’evoluzione della società moderna, nella quale si può notare una crescente pluralizzazione della vita: specializzazione, divisione del lavoro, diversità di metodi. Vale a dire, l’affluenza di metodi teologici diversi, del pluralismo interno alle discipline particolari, dei presupposti storici ed ermeneutici del contesto socioculturale configura, in teologia, il fenomeno del pluralismo, il quale non soltanto permette molte e diverse sintesi, ma anche, e di frequente, suggerisce una tentazione di carattere sincretistico: si fanno convivere e si mettono d’accordo conoscenze e postulati che derivano da ambiti diversi e finanche contrari. Su questa base, Lehmann pone il problema di come si possa conservare la necessaria unità di confessione della fede accanto a un pluralismo coltivato con tanta profusione.
La soluzione di questo problema è esposta anche a esiti inadeguati. Da una parte, c’è l’errore di voler ridurre tutto a un denominatore comune, cosa che, in fondo, implica che la pluralità venga considerata una realtà negativa. In questo caso, il primato assoluto delle forme di confessione della fede rispetto alla missione costante della loro traduzione sarebbe tale da generare uno spirito di reazione, di conformismo, di ghetto, di integrismo violento, sicché la teologia rinuncerebbe alla sua missione creativa. Se si seguisse questa opzione, verrebbe soppressa la necessaria differenza tra unità di confessione e legittima diversità di spiegazione teologica; ne risulterebbe un’unità morta, artificiale, opprimente e paralizzante rispetto all’impulso missionario. Le idee subentrano alle persone e si apre la strada all’ideologia.
Dall’altra parte, il pluralismo non sembra così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima vista. Se infatti giungesse a non preoccuparsi dell’unità della fede, questo comporterebbe la rinuncia alla verità, l’accontentarsi di prospettive parziali e unilaterali. Appellarsi alla legittimità del pluralismo come una rivendicazione costante potrebbe equivalere semplicemente a un facile espediente: quando, infatti, non sussiste alcuna relazione con l’estraneo, ci si accomoda nel proprio mondo e nei propri interessi particolari, ci si immunizza, ci si isola e si evita la competenza3.
Il pluralismo risulta non meno nefasto quando dimentica i postulati scientifici e agisce, o reagisce, mosso esclusivamente da interessi sociali di carattere politico o di critica sistematica verso la Chiesa. Da questa posizione può derivare un atteggiamento sfrenato e capriccioso, una tirannia di forze che aspira soltanto a imporre il proprio punto di vista. Si scade nella chiusura e nella polarizzazione teologica4. Resta dunque aperta la questione dei percorsi di un pluralismo adeguato, in cui la fede non cada nei lacci di un pluralismo smisurato, né di un becero conformismo. Qual è, dunque, la forma cristiana di unità?
Il mistero non è controllabile
Von Balthasar, nella sua opera, affronta questo problema e cerca di darvi una risposta. Non resta aggrappato a questioni di limiti (per esempio, «fino a dove» sia possibile il pluralismo), né a discussioni accademiche piuttosto formali. Cerca di dare una spiegazione e una soluzione al problema, e lo fa elaborando un’ermeneutica adeguata alla più ampia comprensione del tema. Non per nulla la capacità di elaborare ermeneutiche adeguate alle realtà teologiche è uno dei suoi punti di forza e, all’atto pratico, uno dei motivi per cui la sua teologia risulta così suggestiva.
In una prima parte, egli espone ciò che definisce «una breve panoramica del pluralismo teologico»; nella seconda parte, illustra il tema con alcuni esempi (Chiesa e mondo, fede e azione, un Dio al tempo stesso prossimo e lontano, ministero ed esistenza, la gioia e la croce, le tre forme della speranza).
Von Balthasar pone e risolve il problema del pluralismo teologico intorno al mistero dell’Incarnazione e alla persona di Gesù Cristo. Partendo dall’esperienza di Israele, dove si dà «questa inquietante contemporanea presenza di un irriducibile pluralismo delle rivelazioni e di un centro inedificabile, perché sovranamente libero, da cui le rivelazioni stesse promanano», tramite questa esperienza mostra quale sia stato il cammino attraverso il quale Israele è andato acquisendo una chiara comprensione del mistero e ha aperto la via verso il disegno ultimo del Dio che rivela se stesso: l’Incarnazione del Verbo5.
È un lungo percorso pedagogico verso la fede. E nella fede c’è una riserva, una rinuncia, un «lasciar fare» al Dio che parla. Attraverso un simile «far spazio» alla pluralità della Parola, il credente comincia a intravedere il senso delle parole che Dio pronuncia. E questo senso altro non è che l’interlocutore stesso, in quanto vuole comunicarsi. La religiosità naturale subisce, dunque, un processo di liberazione dagli offuscamenti creati dal timore del demoniaco e dall’ansia di potere, altrettanto demoniaca6. Questo Dio, in quanto vuole comunicarsi perché è amore, si rivela in Gesù Cristo. Nell’«Io» di Cristo radica la misura della distanza e della prossimità di Dio rispetto all’uomo, dell’incomprensibile vicinanza di colui che continua a essere inconcepibilmente trascendente nei confronti di ogni realtà umana7.
Questa realtà di maggiore distanza e maggiore vicinanza di Dio all’uomo che si dà in Gesù Cristo — questo essere in similitudine maior dissimilitudo — offre a von Balthasar la base per elaborare due criteri sui quali egli incentrerà la sua riflessione circa la possibilità di un pluralismo ecclesiale: il criterio di prossimità e il criterio di massimalità.
Il criterio di prossimità comporta che qualsiasi mistero resti tale anche dopo che sia stato rivelato. Il mistero non è «controllabile», come vorrebbe la fantasticheria di tutte le gnosi che — ansiose di controllarlo e, d’altra parte, dovendo mantenere in questo controllo un qualche aspetto misterico — traspongono il mistero nel controllo dei riti d’iniziazione. La stessa cosa accade sul piano umano della comprensione del prossimo: «L’intesa interpersonale, nella sua dialettica tra com-prendere e lasciare-libero, quale capacità di interpretazione di qualche cosa che come libera manifestazione irrompe nell’altro, dal di là di tutto il mio mondo spirituale, si colloca sempre al di là del “categoriale” e del “trascendentale”. Per questo determinato, libero tu, non c’è nell’io nessuna “categoria”, e non può essere sussunto da nulla […]. Vista sotto questa luce, la interpersonalità è senza dubbio il luogo privilegiato per la comprensione di quello che può essere la rivelazione divina in Gesù Cristo»8.
«La comprensione della fede conosce innumerevoli gradi di profondità, il che non vuol dire che il mistero possa essere dissolto successivamente e mutato in concetti misteriosi. Da una simile illusione ci preserverà lo stesso nostro rapporto interpersonale: la conoscenza della sfera personale di un altro uomo ci introduce più profondamente negli spazi incondizionati della sua libertà; ma, invece di diminuire, essa cresce in noi, e noi cresciamo dentro di essa»9.
Poiché qualsiasi prossimità è un avvicinamento di ciò che mi trascende, è essa stessa a liberare la capacità interpellante di qualunque testo. Non si tratta più della contrapposizione «o lettera o spirito», ma di un’apertura del cuore che giunge a scoprire lo Spirito che c’è in ogni testo rivelato. Invece, pretendere di ergere la prossimità a categoria comporta che si distrugga ogni avvicinamento a ciò che mi trascende. In questo senso, l’ideologia è categorizzabile, ma non può partorire un pluralismo. Un dialogo tra ideologie può ripromettersi al massimo la cristallizzazione di un patto. Il genere letterario per esprimere la vera prossimità non è né la categoria, né l’opposizione, ma è l’antinomia che, sul piano dell’azione, genera alternative costruttive. E, nel Vangelo, la prossimità per eccellenza, che è quella del Dio incarnato, si esprime nel genere della parabola (il più adeguato per un’antinomia): il buon samaritano.
In questa parabola si coglie l’atteggiamento di «passare alla larga» connesso a ogni distanza misurata come sufficiente sulla base della mera categorizzazione. Esso rende possibile confondere una persona che invoca nel suo stato di necessità con un impaccio qualsiasi: una confusione costruita dalla sufficienza.
Vi si coglie anche l’altro atteggiamento, quello di colui che «si avvicina» mosso dalla misericordia, «si fa prossimo»; perché qualsiasi miseria ha qualcosa di pudico e si nasconde, e per comprenderla, è necessario «farsi prossimo» ad essa. La prossimità acquista la sua pienezza nella synkatabasis del Verbo, che si fa prossimo. Allora, l’ultima parola di Dio, il Verbo incarnato, trascende ormai l’ambito della rivelazione e dell’indottrinamento (lo presuppone) e si esplicita in partecipazione e comunione.
Questo, più che parola e azione, vuol dire sofferenza, e pertanto l’«abbandono di Dio» fino alla discesa agli inferi. Nel criterio di prossimità, reso eminente in Gesù Cristo, c’è la realtà di Dio espressa sub contrario; e ciò tocca tutti gli organi e i gesti della Parola divina, tutta la Chiesa, compresa la riflessione teologica. La prossimità, condotta a questo grado che si esprime in Cristo, è istituzione, è logica teologica, ma non panteismo diffuso.
L’ideologia addomestica il mistero
L’altro criterio utilizzato da von Balthasar, la massimalità, nasce da qui, e costituisce un criterio universale e sufficiente nei limiti del quale il pluralismo teologico è ammissibile. Si tratta della stessa cosa in tre ambiti: Dio in se stesso, Dio per noi, Dio in noi. «Si tratta del contenuto di quella affermazione, pronunciata con estrema chiarezza — e testimoniata — dalla Parola di Dio, che in Gesù Cristo si dimostra come il Figlio del Padre: “Il Padre vi ama” (Gv 16,27). L’affermazione che Dio ci ama sarebbe — se si considera il mondo così come è — una parola vuota, se non fosse seguita la prova, tramite l’Incarnazione, la croce e la risurrezione di Gesù, della sua totale solidarietà con noi, e se inoltre il rapporto di Gesù con il Padre nello Spirito Santo non avesse contemporaneamente svelato l’essere più intimo di Dio (la sua Trinità come amore in sé). Ogni formulazione dogmatica e teologica tende a questa “realtà”, poiché ogni atto di fede del cristiano ha come contenuto non la formulazione o l’assunto, ma la “realtà” cui viene fatto riferimento: Actus credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem (S. Tommaso, II-II, q. 1, a. 2 ad 2). Ma poiché, per incontrare la realtà, occorre l’enunciazione, in quale enunciazione si incontra la realtà e in quale no?»10.
Secondo von Balthasar, la realtà la si incontra in quell’enunciato che fa apparire l’azione dell’amore di Dio per noi come divina, vale a dire radicale, piena, ma anche imperscrutabile, inverosimile. «Il criterio sta in una massimalità che riesce (in un modo incomprensibile) a includere anche alcuni aspetti che dalla ragione umana potrebbero essere considerati inconciliabili con la realtà in questione»11.
La massimalità dell’amore di Dio va accettata, ma così come si trova in Gesù Cristo: nella povertà e nell’umiliazione volute da Dio, che l’uomo non può respingere con il pretesto che si raffigurava la maestà divina in un altro modo, vale a dire come collocata esclusivamente nel cielo12. In questo senso, possiamo dire che il criterio di massimalità si può intendere come l’eminente esplicitazione del criterio di prossimità.
Per dirla in forma negativa, con parole dello stesso von Balthasar, «tutte le volte che nella spiegazione del mistero sembra che un aspetto risplenda in modo veramente razionale, e che quindi il carattere misterico (che indica la “radicale diversità” di Dio, la sua divinità, che lo distingue da tutto e da tutti) è stato parzialmente respinto, per dare libera espressione a una visione terrena che si può abbracciare con l’occhio umano, lì c’è eresia, o per lo meno si sono oltrepassati i limiti della legittima pluralità teologica»13.
Allora il mistero è stato addomesticato, lo si è allontanato, lo si è minimizzato con un atto che non è intellectus fidei, ma piuttosto intellectus rationis humanae. Allora non ci sono più dogma o riflessione teologica, bensì idea e ideologia. Come dicevamo sopra, infatti, in questo tipo di ideologie plasmate attraverso la categorizzazione del mistero esiste una dimensione che diventa una sorta di caricatura del mistero, una dimensione misterica che lo avvicina a una gnosi.
Resta aperta la problematica della relazione ideologia-gnosi, che tocca la questione del pluralismo. Essa rende possibile definire ogni cattivo pluralismo teologico come un monismo gnostico con pretese programmatiche. Riguardo a questo, i fondamentalismi attuali possono essere citati come esponenti del genere.
Il criterio di massimalità, come espressione più compiuta del criterio di prossimità, renderà possibile un reale pluralismo teologico: infatti richiede un massimo di unità nel corpo di Cristo che è la Chiesa, insieme a un massimo di differenza tra i suoi membri. Il segno sarà l’unanimità nell’espressione plurale.
Un cattivo approccio al pluralismo significa il contrario di questa verità. Implica che non siamo capaci di sopportare l’unità superiore, di cui — attraverso la sua missione e la sua grazia — noi siamo soltanto un frammento, sicché l’unità resta spostata dal tutto alla parte14, e così cadiamo nelle ideologie proprie dell’uomo unidimensionale, che si erge a «signore» della verità. L’unità superiore implica che si sopportino tensioni e conflitti, i quali, secondo von Balthasar, possono mostrarsi come dissonanze, che tuttavia non vanno mai confuse con la cacofonia del monismo gnostico.
Queste tensioni sono il «luogo bellico» del Vangelo, e l’unità superiore a cui aspiriamo — unità in cui si risolvono in maniera qualitativamente diversa le tensioni — è quella che ci costituisce in creature, in servi; è quella che ci dà un riferimento alla nostra identità. Essa, in definitiva, è appartenenza a un corpo al quale siamo chiamati, e ci trascende e ci consolida come credenti.
Legittimo pluralismo e necessaria unità: l’appartenenza
Alcune conclusioni pratiche suggerite da Lehmann possono servire da corollario. Dando per scontato che la relazione esatta tra legittimo pluralismo e necessaria unità non è facile da determinare, Lehmann osserva, in primo luogo, che l’autentico pluralismo deve essere cosciente di essere parte, e mai il tutto. Il teologo deve fare tutto il possibile affinché la sua verità trovi posto nello spazio dell’unica Chiesa.
D’altra parte, la comunione della Chiesa può essere garantita soltanto se essa si esprime chiaramente nella dinamica concreta della riflessione teologica. E qui entrano in gioco tre elementi decisivi: il riferimento costante alla Sacra Scrittura come fondamento; la conoscenza delle grandi tradizioni cristiane; la comprensione attuale dell’uomo e del mondo.
È importante — dice Lehmann — che nel processo di attualizzazione e di traduzione della fede si tenga conto delle mediazioni storiche; altrimenti si può giungere a una visione molto «attuale» nel pieno senso della parola: una visione per l’oggi e nient’altro, di vista corta e unilaterale, che domani sarà passata di moda e sarà considerata «di ieri».
Infine, il pluralismo della teologia attuale richiede una grande predisposizione all’autodisciplina e al dialogo. E qualsiasi dialogo deve essere filtrato dalla realtà della croce, che ci redime dalla vacuità di parole e giudizi. Lehmann propone, per le questioni disputate, il metodo del consenso15.
La tensione tra pluralità e unità non soltanto non si può risolvere accentuando una delle parti e spostando verso di essa il polo di sintesi, ma non si può risolvere nemmeno ecclesialmente, tentando una sorta di equilibrio tra le autonomie delle parzialità, la cui formalità unitiva risulterebbe il sincretismo. In questo caso, si otterrebbe soltanto una caricatura del vero pluralismo, e le opzioni ispirate nel contesto di un simile atteggiamento sincretistico potrebbero riuscire utili soltanto per il «momento», ma non per il «tempo», perché manca loro la capacità di apportare armonia a qualsiasi processo e a qualsiasi accrescimento.
E in concreto, tali soluzioni mancano di armonia cristiana, in quanto, facendo del sincretismo su questo piano, si ottiene un compromesso di parzialità autonome secondo un equilibrio concordato, ma non si assume, né si esprime, quell’armonia cristiana che si raggiunge soltanto passando attraverso la croce. Sopravvive una sorta di asintoto che porta a tendere, senza raggiungerla, verso una federazione di autonomie che pretende di simboleggiare l’unità. L’unità di confessione ci invita a non diluire la ricchezza originale della parola di Dio nelle sue differenze, e a respingere la pretesa di fare noi le sintesi perfette e controllabili.
Partecipare all’unità di confessione implica accettare di appartenere, e quindi assumere tutte le conseguenze dell’appartenenza che questo tipo di unità comporta, in noi, dal punto di vista ecclesiale. È tutta la Chiesa a possedere tutta la verità di fede, ed è possibile partecipare di questa totalità soltanto nella misura in cui l’appartenenza ecclesiale risulta totale.
Il caso dell’America Latina e il Documento di Puebla
È questa la prospettiva che ritroviamo, ad esempio, nel Documento della Terza Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano di Puebla (1979). In questo testo si dice che il Sud America «è stato evangelizzato nella fede cattolica sin dalla sua scoperta. Ciò costituisce un tratto fondamentale di identità e di unità del continente, e al tempo stesso una missione permanente. Per diversi motivi si apprezza oggi un crescente pluralismo religioso e ideologico»16. Come si nota, questo passo sottolinea proprio l’appartenenza alla fede cattolica come tratto di identità e di unità, ma al tempo stesso richiama l’attenzione sul carattere dinamico di tale appartenenza: è una missione permanente. La menzione del pluralismo religioso e ideologico apre la via alla riflessione ulteriore sui pluralismi inadeguati. Ma, piuttosto che addentrarci in questi percorsi, preferiamo accostarci alla concezione davvero ricca che il Documento di Puebla elabora riguardo al vero pluralismo. Partiamo allora dalla concezione teologica di Chiesa che esso ci presenta.
Il Documento si mostra più ricco quando deve mettere in gioco, a proposito di qualsiasi situazione, criteri di ecclesiologia, di quanto non faccia quando deve esporre tali criteri sistematicamente. Detto altrimenti: non comprenderemmo l’ampiezza totale dell’ecclesiologia di Puebla se ci fermassimo soltanto sui testi che ne parlano esplicitamente. Conviene invece fare ricorso all’uso che il Documento fa del sensus Ecclesiae a proposito dei diversi temi. Ed è proprio qui che esso, poiché impiega criteri di ecclesiologia, elabora i profili del vero pluralismo.
Natura intima della Chiesa
Tre lineamenti inquadrano la natura intima della Chiesa nella concezione descrittiva di Puebla.
1) Innanzitutto c’è la presenza viva di Gesù Cristo che, «nella coscienza del nostro popolo, va inseparabilmente unita a quella della Chiesa, perché è per mezzo di essa che la voce del Vangelo è echeggiata nelle nostre terre. Vi è qui una profonda intuizione di fede circa la natura intima della Chiesa»17.
Questa intuizione della Chiesa «inseparabile da Cristo»18 veniva già esplicitata nella Evangelii nuntiandi19con tratti forti e nitidi. Cristo, che è presente nella sua Chiesa, inseparabilmente unito ad essa, è il Signore della storia, e pertanto l’ispiratore delle strade degli uomini a cui la Chiesa convoca20.
2) Ma questa presenza viva di Cristo, Signore della storia, non è una mera habitatio (come pure si potrebbe interpretare alla luce dell’inabitazione della Trinità nel credente), né una semplice actuatio (come nel caso dell’azione diretta dello Spirito Santo). E non è nemmeno soltanto — poiché lo è anche nell’Eucaristia e misticamente nel mistero della sua promessa — una «presenza reale» della sua persona nel seno della Chiesa. Essa va oltre: è una presenza compresa alla luce del mistero dell’Incarnazione e che obbliga la Chiesa ad «annunciare chiaramente, senza lasciare spazio a dubbi o equivoci, il mistero dell’Incarnazione»21.
Così, attraverso questo mistero, la Chiesa diventa un percorso normativo per il cammino dell’uomo22. Cristo, il Signore della storia, attraverso il mistero della sua Incarnazione, è presentato nella condivisione23 delle sofferenze24. E Pietro25 è presentato come modo di esercitare l’autorità26 in un senso comprensivo di servizio, sacramento, collegialità e primato.
Così, tramite la manifestazione della presenza del Signore nel mistero dell’Incarnazione, la Chiesa, fedele alla sua condizione di sacramento, cerca di essere segno sempre più trasparente della comunione trinitaria, perché sa che «la pedagogia dell’Incarnazione ci insegna che gli uomini hanno bisogno di modelli insigni che facciano loro da guida»27. La Chiesa è consapevole che non sta alla discrezione dell’uomo accettare il suo percorso normativo28: questo si impone da sé; non è un semplice corollario, ma è espressione della fedeltà con cui la Chiesa presenta il suo Sposo come Verbo incarnato.
Pertanto, nella concezione di Puebla, «la fedeltà a Gesù Cristo va indissolubilmente unita alla fedeltà alla Chiesa»29; e il nostro popolo, come abbiamo detto prima, se ne rende ben conto30 e sa reagire contro l’idealismo di quanti cercano un Cristo vivo senza il suo corpo che è la Chiesa31; e anche contro tutti coloro nei quali l’assenza di tale sintesi conduce a dualismi, pluralismi stonati, e a qualsiasi tipo di concezione che neghi il mistero dell’Incarnazione del Signore.
D’altra parte, l’esperienza della realtà dell’Incarnazione che la Chiesa possiede in America Latina è fondamentalmente disciplinata — presenza di Pietro, della collegialità episcopale — in un intreccio vivo, che la allontana sia dalle ideologie, che per loro natura tendono a prendere il posto del Verbo, sia da qualsiasi «incarnazionismo» indiscreto. «Questa visione della Chiesa come Popolo storicamente e socialmente strutturato, è una caratteristica a cui deve necessariamente riferirsi la riflessione teologica nel nostro Continente. […] La Chiesa, come Popolo storico e istituzionale, rappresenta la struttura più ampia, universale e definita, entro cui devono inserirsi vitalmente le Comunità Ecclesiali di Base, per non correre il rischio di degenerare in anarchia organizzativa o in un élitismo chiuso e settario»32.
3) Oltre a presentare se stessa come «Popolo storicamente e socialmente strutturato», la Chiesa in America Latina è lieta di vedersi come «sacramento di comunione, che in una storia caratterizzata dai conflitti reca le insostituibili energie atte a promuovere la riconciliazione e l’unità solidale dei nostri popoli»33. Ne consegue che essa mette «il massimo impegno nel salvare l’unità, perché il Signore la vuole»34, giungendo a tali estremi che anche nella denuncia — che essa considera un dovere, e che deve essere obiettiva, coraggiosa ed evangelica — deve cercare di non condannare definitivamente, bensì di «salvare il colpevole e la vittima»35. E la Chiesa chiederà ai Pastori di preoccuparsi dell’unità36, e ai sacerdoti di essere «ministri dell’unità»37.
Dietro questa vocazione all’unità c’è una concezione dinamica di ciò che si potrebbe chiamare «la stabilità della Chiesa». Tale stabilità è concepita come fondamentalmente comunicativa38, sicché si distanzia tanto dalla «dispersione infeconda»39 quanto dalla chiusura sclerotizzata.
Considerare l’identità alla luce dell’appartenenza
Per il Documento di Puebla, è anche vero che l’appartenenza totale alla Chiesa configura l’identità del cristiano. Esso descriverà tale identità alla luce del fatto di appartenenza, e le pecche dell’identità avranno sempre come causa deficienze nell’appartenenza. Puebla scansa la possibilità di descrivere l’identità cristiana e cattolica con tratti disincarnati o meramente etici o psicologici. L’identità totale rifugge questa analisi e si realizza nell’appartenenza piena.
In relazione a quest’ultima, Puebla parla del fatto che, in mezzo alla crisi, ci sono cose positive, e una di esse è l’esistenza di «espressioni di una maggiore coscienza di appartenenza alla Chiesa»40, i cui segni caratteristici sono la serenità, la maturità e il realismo nel promuovere insieme strutture di dialogo, di partecipazione e di azione pastorale. Questi sono altrettanti segni di fecondità.
D’altra parte, Puebla denuncia «settori [che] non hanno preso piena coscienza della loro appartenenza alla Chiesa»41, di cui è segno l’incoerenza tra la fede che dicono di professare e praticare e i compromessi reali che adottano nella società: divorzio tra fede e vita, accentuato dal secolarismo e da un sistema che antepone l’avere di più all’essere di più.
Puebla nota anche l’esistenza di «membri di comunità o comunità intere che […] vanno perdendo l’autentico senso ecclesiale»42, e questo accade quando l’appartenenza primaria alla Chiesa impallidisce davanti a un’altra appartenenza — Puebla ne nomina varie; qui parla del fatto che i cristiani si fanno attirare da istituzioni del tutto laiche o radicalizzate dall’ideologia —. «Perdite dell’autentico senso ecclesiale»43 saranno sempre frutto di atteggiamenti contrari alla comunione e alla partecipazione: individualismo pastorale, autosufficienza, tendenze centrifughe prodotte dall’influsso dell’ambiente secolarizzato.
Il senso ecclesiale e l’identità del cattolico non sono centrifughi, come potrebbe prospettare una visione intimistica: la loro essenza è piuttosto centripeta, implica in ogni cattolico e in ogni comunità una capacità di esodo da se stessi verso gli altri e verso Cristo, unica forza capace di consolidare la particolarità di ogni uomo nell’universalità del Popolo di Dio. Quindi, il problema dell’identità cattolica si pone sul piano dell’appartenenza: a un popolo, a Cristo, a Dio.
Ancora un lineamento: il cristiano, nel seno della Chiesa, va crescendo e maturando, come un giovane nella sua famiglia. Possiamo ricorrere anche a questa immagine per cogliere il senso che Puebla dà all’appartenenza alla Chiesa. Come «la famiglia è il corpo sociale primario nel quale cresce e viene educata la gioventù»44, allo stesso modo la Chiesa è il corpo in cui un battezzato giunge a pienezza, la cornice sicura della crescita dell’identità del cristiano. Fuori della Chiesa, questa si perde, sbiadisce nei suoi tratti fondamentali e non ha forza di attrazione.
Stando così le cose, dopo aver considerato l’identità alla luce dell’appartenenza, osserviamo ora i principali tratti dell’identità cattolica menzionati da Puebla. Resta ben chiaro che «in un mondo pluralista non è facile sostenere la sua fisionomia propria»45. Riferendosi ai pastori, Puebla parla di diverse crisi d’identità unite a sentimento di frustrazione pastorale e insicurezza davanti a sviluppi teologici e a dottrine erronee46; parla dello smarrimento dell’identità in seguito alla tentazione di farsi leader politici, dirigenti sociali o funzionari di un potere temporale47; del «“diluire” il nostro carisma attraverso un esagerato interesse verso l’ampio campo dei problemi temporali»48.
Anche la gioventù femminile «sta attraversando una crisi di identità»49. Questa tocca anche il modo di essere dei popoli: «A causa di influenze esterne dominanti o dell’imitazione alienante di forme di vita e valori importati, le culture tradizionali dei nostri paesi si sono viste deformate e aggredite, con grande pericolo per la nostra identità e i nostri propri valori»50. C’è una crisi generalizzata di identità, perché esiste anche una crisi generalizzata di appartenenza. E tuttavia i cattolici, come i popoli, conoscono l’«affannosa ricerca della propria identità»51, e continuano a cercarla.
«Il cristiano rafforzerà la sua identità nei valori originali dell’antropologia cristiana»52, affinché si possa condurre un impegno audace e creativo nell’elaborazione di progetti storici coerenti con le necessità di ogni momento e di ogni cultura. Questo significa che, se vuole essere feconda e creativa, l’azione del cristiano deve avvenire come frutto e in coerenza con la sua identità e appartenenza alla Chiesa. Altrimenti la sua azione risulterà un’azione divorziata dalla sua appartenenza (e identità) più profonda. In un’epoca di crisi, questo tipo di schizofrenie è assai comune, cosicché il cristiano deve ricorrere continuamente alle fonti della convocazione ecclesiale: il contatto con la parola di Dio, la vicinanza con il Signore tramite l’Eucaristia, i sacramenti e la preghiera, per «rinnovare la sua identità cristiana»53.
Riguardo all’identità, il ricorso alla fonte della convocazione appare «verticale», e nella sua stessa verticalità costituisce il Popolo di Dio, radunandolo in un corpo organico, in comunione, partecipe di una stessa missione, disciplinato e santo. L’appartenenza al corpo della Chiesa non viene da una qualche «affiliazione» sociale, sia pure nata da comunione di ideali, ma dal ricorso alla chiamata «verticale». In questo senso, vale per tutti ciò che viene detto ai religiosi: «Non dimenticate mai che per conservare un concetto chiaro del valore della vostra vita consacrata avrete bisogno di una profonda visione di fede che si alimenta e si mantiene con la preghiera. La stessa che vi farà superare ogni incertezza sulla vostra propria identità, che vi manterrà fedeli a quella dimensione verticale che vi è essenziale per identificarvi con Cristo a partire dalle beatitudini ed essere testimoni autentici del Regno di Dio per gli uomini del mondo attuale»54.
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La creatività risulta feconda a partire dalla libertà
Nel Documento di Puebla troviamo, a proposito dell’ecclesiologia, lineamenti definiti: presenza di Gesù Cristo inseparabile dalla sua Chiesa; il riferimento al mistero dell’Incarnazione come percorso normativo; sacramento di comunione che richiede da noi un atteggiamento creativo di partecipazione per tutelare l’unità superiore. Infine, una descrizione dell’identità cristiana in riferimento alla sua appartenenza alla Chiesa.
Il fatto di un’identità concepita secondo un doppio parametro — in quanto appartenente e in quanto agente — marca i due poli di riferimento che rendono possibile la concezione pluralista. Qualsiasi identità cristiana — l’identità del cristiano cattolico latinoamericano — non può essere concepita senza il riferimento alla Chiesa, ovvero intesa come appartenenza alla Chiesa. Una tale appartenenza — nella dinamica biblica delle «meraviglie» del Signore nel passato e della promessa dell’avvenire — implica una certa donazione attuale della libertà al Signore della storia. E qui si aderisce al «Corpo» di questo Signore, che è la Chiesa, come istanza superiore che dà senso alla propria esistenza; e questa appartenenza implica anche una missione, cioè che si metta in gioco il massimo di differenze entro quell’unità, affinché la creatività risulti feconda a partire dalla propria libertà.
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Riproduzione riservata
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1. Cfr H. U. von Balthasar, La verità è sinfonica. Aspetti del pluralismo cristiano, Milano, Jaca Book, 1991; K. Lehmann, «Die Einheit des Bekenntnisses und der theologische Pluralismus», in G. Bürkle – G. Becker(eds), Communicatio Fidei, Festschrift Eugen Biser, Regensburg, Pustet, 1983, 432.
2. Il presente articolo è apparso in lingua originale con il titolo «Sobre pluralismo teológico y eclesiología latinoamericana», in Stromata 40 (1984) 321-331.
3. Cfr K. Lehmann, «Die Einheit des Bekenntnisses und der theologische Pluralismus», cit., 170.
4. Cfr ivi.
5. Cfr H. U. von Balthasar, La verità è sinfonica. Aspetti del pluralismo cristiano, cit., 18.
6. Cfr ivi, 22 ss.
7. Cfr ivi, 25.
8. Ivi, 26.
9. Ivi, 27.
10. Ivi, 48.
11. Ivi, 49.
12. Cfr ivi.
13. Ivi.
14. Cfr ivi, 10-12.
15. Cfr K. Lehmann, «Die Einheit des Bekenntnisses und der theologische Pluralismus», cit., 171 s; 167.
16. Puebla. Documenti. Testo definitivo, Bologna, Emi, 1979, 1099.
17. Ivi, 221.
18. Ivi, 222.
19. Cfr Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (EN), n. 16.
20. Cfr Documento di Puebla, 174; 181.
21. Ivi, 175.
22. Cfr ivi, 223.
23. Cfr ivi, 176.
24. Cfr ivi, 181.
25. Cfr ivi, 187.
26. Cfr ivi, 181; 260; 225.
27. Ivi, 272.
28. Cfr ivi, 223.
29. Ivi, 995; EN, n. 16.
30. Cfr ivi, 221.
31. Cfr ivi, 1179.
32. Ivi, 261.
33. Ivi, 1302.
34. Ivi, 151.
35. Ivi, 1269.
36. Cfr ivi, 526.
37. Ivi, 527.
38. Cfr ivi, 586 s.
39. Ivi, 151.
40. Ivi, 781.
41. Ivi, 783.
42. Ivi, 630.
43. Ivi, 627.
44. Ivi, 1173.
45. Ivi, 1059.
46. Cfr ivi, 676.
47. Cfr ivi, 696.
48. Ivi, 769.
49. Ivi, 1174.
50. Ivi, 53.
51. Ivi, 233.
52. Ivi, 522.
53. Ivi, 798.
54. Ivi, 742; sono parole di Giovanni Paolo II alle religiose, che Puebla fa proprie.