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Il 16 novembre 1955, con un Decretum generale e l’annessa Instructio, Pio XII istituì il nuovo Ordo della Settimana Santa, valevole per il Rito romano, stabilendo che esso sarebbe entrato in vigore nella Pasqua del 1956[1]. Sono dunque passati 65 anni da quella disposizione, certamente coraggiosa, con la quale è iniziata di fatto quella riforma della liturgia romana che poi sarebbe stata portata avanti dal Concilio Vaticano II con la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963.
Secondo p. Ferdinando Antonelli[2], l’importanza della nuova riforma liturgica andava ricercata soprattutto in «motivi di natura pastorale, per riportare cioè la massa dei fedeli alla celebrazione dei santissimi misteri della passione e morte del Salvatore». Egli scriveva: «Dalla fine del sec. XVI in poi, da quando cioè S. Pio V, attuando le prescrizioni del Concilio di Trento in materia liturgica, pubblicava nel 1568 il Breviario romano riformato e nel 1570 il Messale romano, non vi è forse, nella storia liturgica, un fatto che possa uguagliare, per importanza, l’odierno Decreto della S. Congregazione dei Riti»[3].
La Settimana Santa così ristabilita da Pio XII è, a parte la lingua latina, sostanzialmente identica a quella che conoscono gli attuali fedeli di Rito romano. Va infatti ricordato che prima del 1956 la liturgia del Triduo pasquale, compresa quella del Sabato Santo, era celebrata solo di mattina. La riforma invece volle che i riti fossero celebrati negli stessi giorni e possibilmente nelle stesse ore in cui erano avvenuti i misteri da essi ricordati. In particolare, al termine del Sabato Santo, giorno di «sommo lutto», dedicato ancora alla meditazione della passione e morte del Redentore, fu reintrodotta la Veglia pasquale, in modo da far coincidere l’inizio della Messa con la mezzanotte tra il sabato e la domenica. Ora, per comprendere meglio il senso di quella riforma, intendiamo riproporre alcune note attinte dai primi secoli, non in modo sistematico, ma sufficiente a dare un’idea di come veniva vissuta la Pasqua dai Padri della Chiesa.
La Veglia pasquale
Partiamo dalla Veglia pasquale, che è il culmine di tutta la Settimana Santa. La Pasqua ebraica era una festa annuale, che cadeva sempre il 14 del mese primaverile di Nisan ed era localizzata necessariamente a Gerusalemme, ma la Pasqua cristiana non fu vincolata a quell’unica data e a quell’unico luogo. In realtà, il più attestato ciclo liturgico cristiano è quello settimanale, come si evince già dal Nuovo Testamento[4]. Esso era collegato con la santa Cena, memoriale della passione e risurrezione del Signore, celebrata in un clima di fervida attesa del suo ritorno nella gloria (cfr 1 Cor 11,26).
Questo primo giorno della settimana venne ben presto indicato come «giorno del Signore», o «domenica», quando tutta la comunità si riuniva per «spezzare il pane […] con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Si legge in Didaché 14,1: «Ogni domenica, giorno del Signore, riunendovi spezzate il pane e fate l’eucaristia, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro»[5]. Tuttavia, questa «Pasqua settimanale» non soppiantò la celebrazione della Pasqua annuale. In effetti, i primi cristiani, tutti di origine o di cultura ebraica, non fecero un vuoto dietro di sé, come se si fossero distaccati dalle loro radici, ma continuarono a celebrare la Pasqua ebraica, dandole un significato nuovo, come mostra un testo di Paolo, scritto verso l’anno 53: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1 Cor 5,7-8).
Ma, a parte questa affermazione di Paolo, i documenti che attestino indubitabilmente una Pasqua cristiana non sono molti[6]. La più antica testimonianza si trova nella Epistula Apostolorum, della metà del II secolo. Essa presenta i discepoli che celebrano la Pasqua durante una «notte di veglia», per commemorare la morte del Signore, che viene considerato risorto e vivente. Vi è detto che al canto del gallo la veglia si dovrà concludere con l’agapē, cioè con l’Eucaristia, che dovrà essere celebrata fino alla parusia[7]. La celebrazione della Pasqua dunque era tutta concentrata nella Veglia pasquale, come testimonia indirettamente anche Tertulliano[8].
Alla Veglia si arrivava preparati con un digiuno, in ottemperanza alla parola di Gesù: «Verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno» (Mc 2,20 e par.). La durata e la forma di tale digiuno potevano variare da regione a regione. In varie Chiese invalse l’uso di un digiuno preparatorio di 40 giorni (Quaresima), a imitazione di quello praticato dal Signore, escludendo però dal digiuno il sabato e la domenica[9]. In altre Chiese, il digiuno pasquale cominciava sei giorni prima della domenica di Pasqua, dando inizio alla «Settimana grande della Passione»[10]. Certamente il digiuno diventava obbligatorio a partire dalla Parasceve (= Venerdì Santo) e per tutto il sabato, fino alla Veglia pasquale inclusa[11].
Essendo una cerimonia notturna, la Veglia pasquale era illuminata non solo dalla luna piena, ma anche dalle lampade e dai ceri accesi, portati dai fedeli o posti nella chiesa[12]. Cromazio di Aquileia († 407), nella prima delle due omelie tenute nella notte pasquale, allude a questa pratica: «Questa veglia è superiore a tutte le altre veglie, perché è chiamata veglia del Signore (cfr Es 12,42), […] nella quale egli ha illuminato non solo questo mondo, ma anche coloro che erano negli inferi»[13]. E più avanti scrive: «Giustamente dunque questa notte è chiamata veglia del Signore, poiché è celebrata in tutto il mondo in onore del suo nome. Tante sono le preghiere dei singoli, quanti sono i desideri; tanti i loro ceri accesi, quanti i voti dei meriti. Le tenebre della notte sono vinte dalla luce della devozione»[14]. Zenone di Verona (380 circa) parla di «dolce veglia di una notte luminosissima per il suo proprio sole»[15]. Agostino ha pronunciato molte omelie per la Veglia, che chiama «la madre di tutte le veglie»[16]. Queste omelie menzionano spesso le lampade accese, citando anche quel celebre versetto del salmo: «E la notte sarà luminosa come il giorno» (Sal 138,12)[17]. È probabile che l’accensione delle lampade fosse accompagnata da un rito, che poi si svilupperà in un vero e proprio lucernario, con la benedizione del nuovo fuoco[18]. Verso la fine del IV secolo, in Occidente invalse l’uso di accendere un grande cero pasquale, oggetto di una laus, o preconio pasquale, in collegamento con il fonte battesimale[19]. Ne abbiamo un esempio nell’Exultet, attribuito a sant’Ambrogio, o per lo meno ispirato da lui[20]. Il preconio era cantato da un diacono, e Agostino attesta che una volta toccò a lui cantarlo[21].
La celebrazione poteva essere introdotta da un praeconium o praefatio pascalis, come lo troviamo nell’Ambrosiaster[22] e in Zenone di Verona[23]. La Veglia pasquale certamente comprendeva letture dell’Antico Testamento, in particolare Gen 1 (creazione)[24], Es 12 (agnello pasquale)[25], Es 14-15 (uscita dall’Egitto), ma anche Gen 22 (sacrificio di Isacco) e forse anche Dt 32 (cantico di Mosè) ed Ez 37 (ossa aride)[26]. Tra le letture del Nuovo Testamento, figuravano certamente 1 Cor 5,7-8 e, naturalmente, uno dei Vangeli delle apparizioni del Risorto. L’omelia poteva precedere o seguire le letture, oppure entrambe le cose.
La maggior parte delle omelie pasquali dal II al V secolo, dato il loro legame con la liturgia, rispecchiano sempre la primitiva concezione della Pasqua cristiana, nella quale veniva celebrato tutto il mistero di Cristo: dall’incarnazione alla passione e morte, inclusa la discesa agli inferi, per sfociare nella risurrezione e ascensione al cielo, con il tempo di Pentecoste (sette settimane). Il termine stesso di pascha è però riservato alla Vigilia e al giorno di Pasqua, come in questo passo di Agostino: «Poiché il Signore nostro Gesù Cristo, il giorno che aveva reso luttuoso con la sua morte, lo ha reso glorioso con la sua risurrezione, rievocando entrambi i momenti in questa solenne memoria, vegliamo ricordando la sua morte e gioiamo ricevendo la sua risurrezione. Questa è la nostra festa annuale e la nostra Pasqua, non figurata come per l’antico popolo nell’uccisione di una pecora, ma realizzata come per il popolo nuovo nella vittima che è il Salvatore. Sì, Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato (1 Cor 5,7), e le cose vecchie sono passate, ed ecco sono diventate nuove (2 Cor 5,17)»[27].
Dopo l’omelia, venivano amministrati i battesimi, come attesta Tertulliano: «La Pasqua offre il giorno più solenne per il battesimo, perché in quel giorno si è compiuta la passione del Signore, nella quale siamo battezzati»[28]. I battesimi, amministrati prevalentemente a persone adulte, poiché prevedevano un’immersione in una vasca, non avvenivano in chiesa, ma in un edificio adiacente, il battistero, situato vicino all’ingresso[29]. Abbiamo la più antica descrizione dei riti battesimali nella Tradizione apostolica di Ippolito[30]. Si dispone che i candidati facciano un bagno il giovedì, digiunino il venerdì e si riuniscano attorno al vescovo il sabato, pregando in ginocchio. Essi trascorreranno «tutta la notte» tra letture e istruzioni. Al canto del gallo, quindi dopo la mezzanotte, hanno luogo i battesimi, dopo i quali i neofiti passano dal battistero alla chiesa, dove per la prima volta si uniscono agli altri fedeli per l’Eucaristia. Alla comunione, oltre al pane e al vino consacrati, essi ricevono anche latte e miele, simboli della Terra promessa. Secondo Odo Casel, i riti lì riportati sono certamente presi dalla liturgia pasquale: «Pasqua e battesimo sono legati insieme […]. È talmente scontato che il battesimo sia conferito a Pasqua che essa non è neppure nominata»[31]. A Milano, ad Aquileia e in Africa (ma non a Roma) il battesimo era seguito dal rito della lavanda dei piedi, sempre nel battistero, con la lettura di Gv 13,1-20[32]. Dopo di che i neobattezzati, rivestiti di una veste bianca, entravano processionalmente in chiesa, tra la gioia degli altri fedeli, che vedevano così accrescere la loro comunità[33].
Il culmine della notte pasquale si situa nell’Eucaristia, che viene celebrata allo spuntare del giorno. Lo si deduce dall’esordio dell’omelia pasquale attribuita a Ippolito: «Ecco, già brillano i sacri raggi della luce di Cristo, albeggiano i puri lumi dello Spirito puro, si spalancano i tesori celesti della gloria e della divinità. La notte immensa e nera è stata inghiottita, la tenebra impenetrabile è dissolta in se stessa e la triste ombra di morte è stata oscurata. La vita si è diffusa su tutte le cose e tutto è ripieno della luce infinita, un’aurora perenne occupa l’universo e colui che è prima della stella mattutina e degli astri, immortale e immenso, grande risplende Cristo su tutte le cose più del sole»[34].
Con la Pasqua inizia il tempo della santa allegrezza dei 50 giorni della Pentecoste. Essa era considerata «la grande domenica»: «Il giorno di Pentecoste, da intendersi nel senso di una grande domenica che si estende per sette settimane, è prefigurato nell’Antico Testamento dalla festa delle settimane. Essa è simbolo del mondo futuro in cui i cristiani, migrati da questo mondo, parteciperanno con Cristo alla festa immortale»[35]. Questo tempo era caratterizzato da preghiere e canti gioiosi, come l’acclamazione dell’ Alleluia. Per tutto questo tempo, la preghiera liturgica era fatta in piedi ed era escluso l’inginocchiarsi: «Il non piegare le ginocchia nella domenica [di Pasqua] è simbolo della risurrezione, attraverso la quale, per grazia di Cristo, siamo stati liberati dai peccati e dalla morte, che in lui è stata uccisa. Tale consuetudine ha avuto inizio fin dai tempi apostolici, come dice il beato Ireneo, martire e vescovo di Lione, nel trattato Sulla Pasqua, in cui ricorda anche la Pentecoste, nella quale non pieghiamo le ginocchia perché ha la stessa importanza del giorno della Domenica [di Pasqua], per il motivo che abbiamo detto a proposito di essa»[36]. Questo uso liturgico è attestato anche da Tertulliano: «Noi consideriamo che non ci è permesso digiunare o pregare in ginocchio di domenica. La stessa astensione la pratichiamo con gioia dal giorno di Pasqua fino alla Pentecoste»[37].
Il tempo pasquale, che si prolunga per 50 giorni (sette volte sette giorni), è la Pentecoste, che non è solo l’ultimo giorno, ma l’insieme dei 50 giorni[38]. Infine, tutta la Veglia aveva una forte accentuazione escatologica, come attesta Girolamo: «Vi è una tradizione dei giudei secondo la quale il Messia verrà nel mezzo della notte, a somiglianza del tempo dell’Egitto, quando fu celebrata la Pasqua e venne lo sterminatore e il Signore passò sopra le case, e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue dell’agnello. Da qui ritengo che sia rimasta la tradizione apostolica che nella veglia di Pasqua non si congedi il popolo prima della mezzanotte, in attesa della venuta di Cristo, e solo dopo essersi assicurati che sia trascorsa, fare festa tutti insieme»[39]. Solo nella seconda metà del IV secolo la celebrazione pasquale iniziò a comportare, oltre all’Eucaristia vigiliare, anche una Messa nel giorno di domenica, che divenne più specificamente il giorno della risurrezione.
Il Triduo pasquale
Il desiderio di ricalcare più da vicino gli eventi della passione ha indubbiamente favorito l’espandersi della celebrazione liturgica in più giorni, cioè nel Triduo santo del Venerdì Santo (Croce), Sabato Santo (riposo di Gesù nel sepolcro) e Veglia nella notte fino alla domenica di Pasqua. Già alla metà del III secolo, con Cipriano di Cartagine, si nota uno spostamento di linguaggio, in quanto si comincia a far coincidere la Pasqua con il giorno della risurrezione[40]. Una traccia del Triduo pasquale si può trovare già in Origene: «Il primo giorno è per noi quello della passione del Salvatore, il secondo quello in cui discese agli inferi, il terzo poi è il giorno della risurrezione»[41].
L’impulso più grande alla ripresentazione storico-cronologica della settimana della Passione è tuttavia venuto dalla liturgia di Gerusalemme, dopo che l’imperatore Costantino aveva rimesso in luce i luoghi della crocifissione e della sepoltura di Gesù, erigendo su di essi la splendida basilica del Santo Sepolcro. Questo edificio unico comprendeva il Martyrium (luogo della Croce), l’ Anastasis (Santo Sepolcro), un atrio e un battistero. Notizie dettagliate sui luoghi e sulla liturgia della Settimana Santa ci vengono da un diario di viaggio – compiuto tra il 381 e il 384 – da una donna, Egeria (o Eteria), venuta dall’Occidente[42]. Le feste pasquali sono descritte in dettaglio (cc. 27-44), e in particolare viene riportata la liturgia della «Grande Settimana» (cc. 30-40).
È a Gerusalemme che ha origine la processione delle Palme la domenica antecedente la Pasqua: il popolo, con il vescovo, si riuniva sul Monte degli Olivi e poi, letto il Vangelo che descrive l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, tutti scendevano processionalmente nella città, cantando inni e salmi[43]. Fino al Sabato Santo, tutte le celebrazioni erano assorbite dall’idea della passione. Il Giovedì Santo – chiamato in Coena Domini – era ordinato principalmente a commemorare l’istituzione dell’Eucaristia, ma comprendeva anche la riconciliazione dei penitenti e la consacrazione degli oli santi[44]. Verso il VI secolo si introdusse, dopo la Messa, la «lavanda dei piedi», che il vescovo faceva, sull’esempio di Cristo, a dodici poveri[45]. Il Venerdì Santo comportava un servizio di letture, canti e preghiere, secondo il tipo delle riunioni stazionali aliturgiche. A Gerusalemme si pose al centro la venerazione e il bacio della reliquia della Santa Croce[46], e questo rito fu ben presto imitato da molte Chiese d’Oriente e di Occidente, favorendo anche la diffusione di reliquie della Croce. Il Venerdì Santo si chiudeva con la «Messa dei presantificati», cioè con la comunione alle sacre specie consacrate il giorno prima[47]. Il Sabato Santo è sempre stato, anche in Oriente, un giorno assolutamente aliturgico, nel quale quindi non si celebra l’Eucaristia. Solo dopo il tramonto si iniziava la grande Veglia pasquale, di cui abbiamo parlato sopra. La tensione liturgica si scioglieva la domenica di Pasqua, che diventava così il giorno della risurrezione.
La frammentazione del mistero pasquale è evidente soprattutto nell’omiletica più tardiva, a partire dalla fine del IV secolo, dove troviamo tre distinti gruppi di omelie: quelle per il Venerdì Santo[48], quelle per il Sabato Santo[49] e quelle per la domenica di risurrezione[50]. Verso la fine del IV secolo, la festa dell’Ascensione e quella della Pentecoste acquisirono una loro autonomia[51]. Le omelie così dense dei primi secoli e quelle della Veglia pasquale sembravano scomparse. Tuttavia la liturgia ha conservato memoria di una celebrazione unitaria della redenzione che si è realizzata attraverso il mistero di Cristo: «Malgrado tutte le trasformazioni, la natura profonda della festa di Pasqua rimase salva. La santa notte dei misteri rimase il centro e il vertice di tutto»[52].
Ciò è testimoniato dal prefazio di Pasqua che viene proclamato ancora oggi: «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare sempre la tua gloria, o Signore, e soprattutto esaltarti in questa notte nella quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato. È lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita»[53]. O, per usare i termini di un prefazio ambrosiano: «Questa è la vera Pasqua esaltata dal sangue del Signore, nella quale, o Padre, la tua Chiesa celebra la festa che dà origine a tutte le feste. Il Figlio tuo, come schiavo, si consegna prigioniero agli uomini per restituirli a libertà piena e perenne e con una morte veramente beata vince per sempre la loro morte. Ormai il principe delle tenebre si riconosce sconfitto, e noi, tratti dall’abisso del peccato, ci rallegriamo di entrare col Salvatore risorto nel regno dei cieli»[54].
Conclusione
Considerare la Pasqua a partire dalla Grande Veglia permette di cogliere quello che è il senso della festa nella sua intima essenza: un rito di passaggio, e precisamente «il superamento di una frontiera tra la morte e la vita o, meglio ancora, tra la vita presente e quella dell’eone a venire»[55]. Indipendentemente dall’etimologia seguita dai vari autori antichi (Pasqua = passione del Signore, o Pasqua = passaggio del popolo, o Pasqua = passare oltre dell’angelo sterminatore), il centro rimane sempre il sacrificio dell’agnello-Cristo.
Non è un centro statico, immobile, bensì è l’elemento che fa da perno a un processo di trasformazione e di passaggio, quello dal digiuno alla festa, dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita[56]. Non un giorno solo, ma l’intero processo prende il nome di Pasqua. Come l’agnello immolato fu il punto di svolta che rese possibile il passaggio dall’Egitto alla Terra promessa, e come in ogni celebrazione della Pasqua il popolo ebraico prendeva coscienza di essere sempre chiamato dalla schiavitù alla libertà, così ora è Cristo che, non solo a Pasqua ma in ogni Eucaristia, opera in noi il passaggio dalla morte alla vita nuova nello Spirito.
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THE LITURGICAL CELEBRATION OF EASTER IN THE EARLY CHURCH
The celebration of Holy Week in the Roman Rite dates back to the reform desired by Pius XII in 1956. The heart of this liturgy is certainly the Easter Vigil. The Easter Triduum then developed from this older core: Maundy Thursday, with the Mass in Coena Domini, Good Friday, centred on the Passion, and Holy Saturday, the “aliturgical day”. The article aims to give an idea of how intensely Easter was experienced in the early centuries
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[1]. Cfr Sacra Congregazione dei Riti, «Decretum “Maxima Redemptionis nostrae mysteria”», in Acta Apostolicae Sedis 47 (1955) 838-847.
[2]. Ferdinando Antonelli (1896-1993) è stato arcivescovo e cardinale. Durante il Concilio Vaticano II fu perito e segretario della Commissione Conciliare della Sacra Liturgia.
[3]. F. Antonelli, «Importanza e carattere pastorale della riforma liturgica della settimana santa», in Oss. Rom., 27 novembre 1955, 2.
[4]. Cfr le apparizioni di Gesù risorto collocate proprio «il primo giorno della settimana» (Mc 16,2 e par.), e riprese «otto giorni dopo» (Gv 20,26). Il primo giorno della settimana è indicato come giorno liturgico in 1 Cor 16,2 e At 20,7.
[5]. Segue un riferimento a Ml 1,11-14, dove è preannunciato un «sacrificio puro», che sarà offerto «tra i gentili», «in ogni luogo e tempo»: ciò fa pensare a una contrapposizione alla Pasqua ebraica, che poteva essere celebrata solo a Gerusalemme (luogo) e il 14 del primo mese (tempo).
[6] . Cfr A. Di Berardino, Istituzioni della Chiesa antica, Venezia, Marcianum, 2019, 509-518.
[7] . Cfr Epistula Apostolorum, 15. Si veda R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino, SEI, 1978, 30.
[8] . Cfr Tertulliano, Ad uxorem, II, 4,2: «Quale [marito pagano] sopporterà tranquillamente che la moglie passi fuori tutta la notte nella solennità della Pasqua?».
[9] . Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica. II. L’ anno liturgico. Il breviario, Milano, Àncora, 19693, 131-146. Ufficialmente la Quaresima fu introdotta in Egitto da Atanasio nel 334. Cfr Atanasio di Alessandria, s., Lettere festali, Milano, Paoline, 2003, 178-181.
[10]. Atanasio di Alessandria, s., Lettera festale, 19,10, in Id., Lettere festali, cit., 428.
[11]. Cfr Tertulliano, De oratione, 18,7: «Per il giorno di Pasqua ci impegniamo in un digiuno comune e per l’appunto pubblico». In effetti, il digiuno terminava solo con l’Eucaristia all’alba della domenica.
[12]. L’imperatore Costantino aveva trasformato il rito della luce in un atto di propaganda imperiale, come dice compiaciuto il suo biografo Eusebio di Cesarea, s., Vita di Costantino, IV, 22,2: «Egli rese la santa veglia notturna così luminosa come il giorno, facendo accendere per tutta la città [di Costantinopoli] immense colonne di cera per mezzo di agenti a ciò designati; lampade di fuoco illuminavano ogni luogo, così da rendere la veglia mistica più luminosa dello splendore del giorno. All’alba, egli imitava la generosità del Salvatore, stendendo la sua destra benefattrice su ogni gente, popolo e nazione, colmando tutti con ogni sorta di doni».
[13]. Cromazio di Aquileia, s., Sermo 16,1. La discesa di Cristo negli inferi, cioè nel soggiorno dei morti, per liberare le anime dei giusti, faceva parte del mistero di salvezza.
[14]. Id., Sermo 16,3.
[15]. Zenone, Tractatus, I, 24.
[16]. Agostino, s., Sermo 219,1.
[17]. Ivi.
[18]. Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 253-255.
[19]. Cfr A. Chupungco, «Cero pasquale», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova – Milano, Marietti, 2007, 991 s; F. Mazzitelli, Urget unda flammam. Il significato battesimale del cero pasquale, Roma, Einaudi, Edizioni Liturgiche Vincenziane, 2020, 135-172.
[20]. Cfr A. Chupungco, «Exultet», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, cit., 1895 s.
[21]. Cfr Agostino, s., La città di Dio, XV, 22: «Come io stesso dissi brevemente cantando in versi la lode del cero pasquale». Secondo alcuni, la colonna di porfido fatta erigere da Costantino al centro del Battistero Lateranense potrebbe essere un prototipo del cero pasquale: cfr F. Mazzitelli, Urget unda flammam…, cit., 41-63.
[22]. Cfr Ambrosiaster, Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, 121: Laus et gloria Paschae (CSEO 50, 363 s). Ma qui non vi è nessuna menzione del cero.
[23]. Cfr Zenone, Tractatus, I, 6. 16. 26. 44.
[24]. Cfr Agostino, s., Sermo 223/A.
[25]. Infatti le più antiche omelie pasquali – quelle di Melitone e di Ippolito – comportano tutte un commento a Es 12. Anche il Perì Pascha di Origene è un commento a Es 12 (cfr Origene, La Pasqua, Roma, Città Nuova, 2011).
[26]. Cfr Cromazio, s., Sermons, I, Paris, Cerf, 1976, 93, nota 3.
[27]. Agostino, s., Sermo 221 de nocte sancta, 1.
[28]. Tertulliano, De baptismo, 19,1.
[29]. Cfr R. Iorio (ed.), Battesimo e battisteri, Firenze, Nardini, 1993. Stranamente, in questo volume non è menzionato il battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli, forse il più antico in Italia. Cfr J.-P. Hernández, Nel grembo della Trinità. L’ immagine come teologia nel battistero più antico di Occidente (Napoli IV secolo), Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2004.
[30]. Cfr Ippolito, s., La Tradizione apostolica, nn. 20-21. Per una presentazione complessiva dell’iniziazione cristiana e dei suoi riti, cfr A. Di Berardino, Istituzioni della Chiesa antica, cit., 87-136.
[31]. O. Casel, La fête de Pâques dans l’Église des Pères, Paris, Cerf, 1963, 52.
[32]. Da rito battesimale, di difficile interpretazione, la lavanda dei piedi è passata poi al Giovedì Santo, come gesto di umiltà. Cfr P. F. Beatrice, «Lavanda dei piedi», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, cit., 2755-2758.
[33]. Questo legame del battesimo con la Pasqua è sottolineato nell’attuale liturgia romana con la benedizione dell’acqua lustrale e la rinnovazione delle promesse battesimali, anche là dove non ci sono battesimi di adulti o di bambini.
[34]. G. Visonà, Pseudo Ippolito. In sanctum Pascha, Milano, Vita e Pensiero, 1988, 231.
[35]. A. Camplani (ed.), «Introduzione» a Atanasio di Alessandria, s., Lettere festali, cit., 167.
[36]. Pseudo-Giustino, Questioni agli ortodossi, 115 (PG 7, 1233).
[37]. Tertulliano, La corona, 3,4 (CCL 2, 1043).
[38]. Cfr O. Casel, La fête de Pâques..., cit., 43-45.
[39]. Girolamo, s., In Matthaeum IV (25,6) (CCL 77, 237). Cfr R. Le Déaut, La nuit pascale. Essai sur la signification de la Pâque juive à partir du Targum d’Exode XII 42, Roma, Gregorian & Biblical Press, 1963, 290 s.
[40]. Cfr Cipriano, s., Epistula 21,2; O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 64 s.
[41]. Origene, Omelie sull’Esodo, 5,2.
[42]. Cfr P. Maraval, Égérie. Journal de voyage (Itinéraire), Paris, Cerf, 15-39.
[43]. «Come e quando quest’uso liturgico gerosolimitano sia passato in Occidente è sconosciuto. […] Bisogna scendere al sec. X per trovare nell’Ordo romanus vulgatus il più antico rituale della processione delle Palme» (M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 186).
[44]. Cfr ivi, 209-213.
[45]. Il papa invece faceva la lavanda dei piedi a 13 poveri, e ciò viene fatto risalire a san Gregorio Magno. Si racconta infatti che questo papa fosse solito ogni giorno servire a tavola 12 poveri, ai quali un giorno si aggiunse un angelo in veste di mendicante. Da qui il numero 13, attestato pure da un’antica iscrizione nella chiesa di San Gregorio al Celio (cfr ivi, 217 s).
[46]. Il ritrovamento della Santa Croce è avvolto nella leggenda, legata alla conversione di Costantino. Sant’Ambrogio ne parla nella sua orazione funebre per Teodosio. Cfr E. Cattaneo, «“Victoria Crucis”: l’“excursus” di Ambrogio sul ritrovamento della santa Croce», in Augustinianum 49 (2009) 421-437.
[47]. Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., II, 230-232.
[48]. Cfr Agostino, s., Tractatus de Passione Domini («Sources Chrétiennes» 116, 200-229). Si tratta di un’omelia tenuta il Venerdì Santo e tutta centrata sulla Croce salvifica, di cui il cristiano si deve gloriare.
[49]. Cfr «Omelia sul Sabato Santo» (PG 43,439-463). Si veda Liturgia delle Ore secondo il rito romano, vol. II, 446-448.
[50]. Cfr Agostino, s., Sermo 121. Tractatus de sanctissimae Paschae die prima.
[51]. Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 301-318.
[52]. O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 102. Un esempio del permanere di questa concezione legata alla liturgia è dato dai sermoni di papa Leone Magno (cfr ivi, 134).
[53]. Conferenza Episcopale Italiana, Messale Romano, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 20203, 348.
[54]. Messale Ambrosiano, Milano, Centro Ambrosiano, 19902, 256 s.
[55]. O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 90.
[56]. Cfr R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, cit., XXVIII: il «dinamismo della Pasqua» non consiste «in un fatto (la passione o la risurrezione), ma in un fieri, cioè in un passaggio attraverso la passione verso la risurrezione, dalla morte alla vita».