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Più volte si è detto che il pontificato di Giovanni Paolo II è stato caratterizzato da gesti altamente simbolici e da movimenti precisi, ampi, sicuri. Molti hanno così ricordato che Karol Wojtyła ha avuto un passato teatrale nel «Teatro Rapsodico» fondato da Mieczysław Kotlarczyk. Ecco come lo stesso Wojtyła sintetizza le modalità proprie di questa forma espressiva: «Era un teatro molto semplice. La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo; l’impegno si concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico»[1].
La passione per la parola e il teatro
I suoi scritti teorici ci fanno comprendere come per lui, e per il genere di teatro che egli praticava, a contare veramente non era in primo luogo il gesto, ma la parola. Per Wojtyła la parola non segue né accompagna, ma precede la gestualità: «La parola stessa matura fino al gesto, gesto parco, semplice, ritmico, e il ritmo del gesto è attinto dal ritmo delle parole»[2]. Già da queste riflessioni comprendiamo chiaramente come per lui la fonte del gesto e dell’azione sia la parola, a cui va tutta l’attenzione, e che porta un «carico molto grosso e assolutamente specifico di pensiero»[3]. Da ciò consegue, come aveva notato il poeta Giovanni Raboni, che le sue poesie non sono da leggere in silenzio, ma da recitare ad alta voce[4].
Occorre guardarsi però dal pensare che questa pratica teatrale sia stata intesa da Wojtyła come una sorta di pura «tecnica» espressiva. Nel 1958 in uno scritto teorico, infatti, egli precisava l’importanza di una «particolare devozione» per la poesia: «La devozione alla parola del poeta, l’accollarsi la missione del suo annuncio non è un dettaglio della tecnica di recitazione, ma è un elemento di natura morale», che fa appello a una «disciplina interiore»[5]. Ecco allora ciò che più conta nella comunicazione wojtyáiana: la devozione per la parola. Da qui l’importanza della poesia, che vive di questa devozione.
Il suo interesse per la poesia risale alla prima giovinezza[6]. Fu molto importante a questo riguardo l’incontro con M. Kotlarczyk, professore di lingua polacca nel ginnasio di Wadowice. Wojtyła ne era entusiasta e lo considerava un pioniere, capace di esprimere con il suo teatro il cuore delle tradizioni letterarie nazionali. Nel 1938 Wojtyła scelse il corso di laurea in Filologia polacca presso l’Università Jagellonica di Cracovia. Qui si confermerà la sua «chiara predisposizione verso la letteratura»[7], grazie alla frequentazione del corso di recitazione offerto dall’Università, ma soprattutto grazie al contatto ininterrotto con Kotlarczyk, che in quella città animava incontri di giovani appassionati di poesia e teatro.
Verso la maturità poetica: i «Canti»
La fase giovanile della poesia wojtyłiana si concentra tra il 1938 e il 1940. Non abbiamo qui lo spazio per darne conto, sebbene sia di grande interesse. Ci limitiamo a constatare che alcuni versi sono folgoranti, premonitori, densi di capacità visiva, epica e sonora; altri sono chiaramente acerbi o, come affermò lo stesso Wojtyáa, «artisticamente immaturi»[8]. Poco dopo questa prima fase, nel 1942 Wojtyła avvisa l’amico e maestro Kotlarczyk di non contare più su di lui: l’anno successivo avrebbe chiesto al cardinal Sapieha di cominciare il cammino per l’ordinazione sacerdotale. L’ordinazione ebbe luogo il 1° novembre 1946, lo stesso anno nel quale pubblica, in una rivista carmelitana, Głos Karmelu, la sua prima opera della maturità, Canto del Dio nascosto, composto durante gli anni del seminario clandestino. Egli adesso ha 26 anni: si lascia ispirare dalla poesia di san Giovanni della Croce e medita in quegli anni anche un eventuale ingresso nel noviziato carmelitano. Il Canto si divide in due quadri. Il primo si apre con la meditazione Rive piene di silenzio: Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia. / Non le sorvolerai come un uccello. / Devi fermarti a guardare sempre più in profondità / finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo. Là nessun verde sazierà la vista, / e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Non serve che gli occhi si strizzino per farsi acuti: più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere. La tensione è verso una soglia che va raggiunta soltanto mediante uno sguardo aperto, meravigliato, intenso, capace di toccare il fondo e coinvolgere l’anima in maniera inesauribile. È lo sguardo dello stupore che sarà tutto il contenuto dell’eternità. Il senso della contemplazione allora è lasciarsi immergere nel mistero che si contempla: Finché tu accogli il mare nelle pupille aperte, / in sembianze di cerchi ondulati, / ti sembra che in te anneghino tutti gli abissi e i limiti – / ma ormai hai toccato l’onda con il piede, / mentre così ti sembrava: / era il Mare che stava dentro di me / spandendo intorno tanto silenzio tanta freschezza. È proprio la freschezza il primo effetto della presenza di Dio, un dolce chinarsi pieno di freschezza e insieme di arsura che ricorda l’alba della creazione, quando lo Spirito aleggiava sulle acque col suo vento immenso. Wojtyła sembra desiderare il nulla perché Dio nuovamente operi in questo vuoto la meraviglia della sua opera: Inappagato dall’unico giorno della creazione / io bramo un nulla crescente, / perché il mio cuore sia disposto al soffio del Tuo Amore.
Alla meditazione Rive piene di silenzio corrisponde il secondo quadro del poema dal titolo Canto del sole inesauribile, ricco di richiami al mistero eucaristico. Si susseguono soliloqui e preghiere, in cui però, al contrario della prima parte, il primato è dello sguardo di Dio fisso sull’anima, che è come quello del sole che verso la foglia s’inclina. Così sale la preghiera: Ti prego, tienimi nascosto / in un luogo inaccessibile, / nella corrente di silenziosa meraviglia / o nella cupa notte. / Ti prego, proteggimi / dal lato che sprofonda nel buio – / e Ti prego togli i veli davanti a me / dal lato che inchioda lo sguardo, / perché so di un luogo segreto / dove nulla disperderò di quei soli / che ardono sotto l’orizzonte / degli sguardi inchiodati sul fondo. / Avverrà allora il miracolo / della trasformazione: / ecco, diverrai me – / io – eucaristico.
Nel 1950 Wojtyła scrive il poemetto in otto parti Canto dello splendore dell’acqua, che uscirà, come altre sue quattro opere successive, sulla rivista culturale Tygodnik Powszechny. Esso pone al centro la figura della samaritana al pozzo e il suo mutamento interiore davanti alle parole di Gesù. Lo sguardo del poeta si fissa nell’acqua del pozzo: Guarda – l’acqua senza posa si sfalda in scaglie d’argento – / e trema in essa il peso della profondità / come quando la pupilla sente, nel profondo, l’immagine. / L’acqua lava dai tuoi occhi i cerchi di stanchezza / e ti lambisce il volto con riflessi di larghe foglie. Come negli occhi del Signore brilla lo splendore dell’acqua così questi occhi conoscono la gente inaridita nella stanchezza. Egli conosce le moltitudini che riempiono oggi le grandi città del mondo. Così lo sguardo del poeta si sposta su un paesaggio urbano, tra i passi dei viandanti in una sera di pioggia e la folla che naviga dietro l’onda del neon. Sono i «samaritani» di oggi. Questo via vai richiede uno sguardo che sveli il segreto che nessuna fiamma può distruggere, il segreto del cuore, il mistero della vita umana e della sua posizione sulla terra.
Soltanto il contatto col Cristo, mai qui chiamato per nome, svela questo mistero e la samaritana può riconoscere: Da quel momento la mia ignoranza si è chiusa alle mie spalle come una porta / dalla quale sei entrato – svelando ciò che non sapevo. La donna, concluso il suo incontro con Cristo, continua a riflettere sul modo che egli ha di conoscere e di far percepire la sua presenza, anche attraverso le vergogne e le repressioni interiori: Era lui la grande lente d’ogni conoscenza / – Come il pozzo che alitava splendore attraverso il viso – / Uno specchio… come il pozzo… che rifulgeva nel profondo. Non doveva uscir da se stesso, alzare gli occhi, a capire. / Mi vedeva in sé. Mi possedeva in sé. / Attraversava senza sforzo il mio essere / e apparve in me attraverso la mia vergogna e il pensiero lungamente represso. Wojtyła a questo punto inquadra la samaritana tra la folla del muro serale, cioè tra la gente della città descritta alcune strofe sopra. Fra Cristo e questa folla si apre un dialogo, proprio grazie alla parola della donna. Per bocca di lei Cristo afferma: Non siete soli nel vostro cammino. / Mai, neppure un istante, da voi si stacca il mio profilo. La samaritana riprende la propria voce esultante: il pozzo l’ha introdotta nei suoi occhi, in essi l’ha chiusa, liberandola da ogni divisione interiore e da ogni peso, e dandole una comprensione meravigliata della vita: Nel fondo stesso, a cui volevo solo attingere / acqua con la mia brocca, ormai da tempo alle pupille / aderisce splendore… tante le mie scoperte / quante mai fino ad ora!
«La Madre»
Il 1° novembre 1950 Pio XII proclama il dogma dell’Assunzione. Il poemetto La Madre, in tre parti, viene scritto e pubblicato in questa occasione. La prima parte si apre con i ricordi di Maria che rivede l’infanzia di Gesù: Il mio spazio scorre nella memoria. Non svanisce / il silenzio di viuzze lontane, fermo nell’aria come vetro / che nelle pure iridi si sbriciola in luce e zaffiro. Vicinissime le parole del bambino dalle quali il silenzio prende il volo / «Mamma, mamma». / E di nuovo rade il fondo delle viuzze come uccello invisibile. Il ricordo non è una pura immagine del passato, ma è fonte di nuova vita e di nuovi significati: senza tregua la vita si allarga, / ribolle sul fondo d’un senso inaudito. Il suo rapporto materno con Dio, sin dal suo primo istante, da quando divenne mio corpo, nutrito in me col mio sangue, afferma Maria, non ha mai smesso di echeggiare: è un Momento che continua a dilatarsi / e in sé trasforma tutta la mia vita – / franta negli occhi, che si spengono, come in goccia di vergine cera.
È da questi ricordi che si apre una meditazione che è tra le più belle dedicate in versi a Maria: Nelle madri vi sono istanti in cui il mistero dell’uomo / scocca nelle pupille il primo lampo profondo / Come il tocco del cuore dietro la tenue onda dello sguardo – / io ricordo quei lampi, passati senza eco, / dandomi appena il tempo di un semplice pensiero. / Figlio mio difficile e grande. Figlio mio semplice, / tu certo in me ti avvezzi ai pensieri degli uomini / e all’ombra di questi pensieri attendi l’istante profondo del cuore / che ha un inizio diverso in ogni uomo – / ed è in me di pienezza materna / – la pienezza che ignora sazietà. / Racchiuso in quest’istante tu non subisci mutamenti / ed a tanta semplicità rechi ogni cosa ch’è in me / che, se le madri negli occhi dei figli riconoscono il lampo del cuore / io resto tutta assorta nel tuo Segreto.
Il poemetto si chiude con una riflessione di Maria sulla propria esistenza e sul mistero della morte. Proprio questo mistero tocca vertici di forte intensità in un susseguirsi di immagini che sembrano siglare la piena maturità della poesia wojtyliana: Ma la tua intensa quiete in me non avrà fine – / unica foce al mio cammino, ed un giorno sarà così mia / che vi starò come fiume portato dal suo letto trasparente – / pure se il corpo inerte resterà. / Verranno i tuoi discepoli – sentiranno che il cuore non batte. / La fonda bilancia del sangue non ritmerà più la mia vita / e dai miei piedi stanchi non fuggirà la strada. / Mi avvolgerà il tempo nuovo, che agli occhi languenti già splende, / abiterà nel mio cuore. / E tutto infine sarà colmo, diventerà delizia al pensiero. / Aprirò allora il mio canto, ne capirò ogni sillaba, / aprirò allora il mio canto, ch’è intento alla tua vita, / tutto pervaso dall’Evento, immensamente chiaro e semplice / che in ogni uomo germoglia, così palese e segreto / e che in me si è incarnato e rivelato / giungendo a molte genti, tra cui ha trovato dimora.
Lo «strano spazio» e la «segreta struttura del mondo»
Scritto nel 1952, Pensiero – Strano spazio è un poemetto in 4 parti ispirato alla lotta di Giacobbe con l’angelo sulle rive dello Iabbok, narrato in Genesi 32. Protagonista della poesia è l’uomo di oggi, di cui Giacobbe è figura. Wojtyła ama le sfide e riconosce che spesso esse sono vere e proprie lotte che riguardano verità profonde. Egli ritiene che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di «visione», cioè perché è incapace di vedere ciò che più conta e così deve lottare per aprirsi la strada fra i segni, forse brancolando nel buio. Non capisce così il senso del tutto, di sé, del mondo, della vita. Giacobbe invece non era alienato, era capace di «visione». Egli si sentì abbracciato da una grande forza, un Qualcuno che entrò nella sua coscienza fino in fondo, / in modo simile eppure diverso da un fanciullo, un agnello, un arnese. E Giacobbe tremava perché, come in un’illuminazione, la realtà / mai gli si era aperta davanti così all’improvviso. Ecco il punto: l’inquietudine, la «lotta con l’angelo», si risolve in una comprensione possibile soltanto se la coscienza è penetrata fino in fondo da Qualcuno che la avvolge. Così si apre in noi quello «strano spazio» di cui si parla nel titolo, quello spazio di intensa contemplazione a cui Wojtyła implicitamente o esplicitamente fa riferimento sin dal Canto del Dio nascosto.
Nel 1957 Wojtyła compone il poemetto La cava di pietra, che viene pubblicato sulla rivista culturale Znak, dove egli, sempre sotto pseudonimo, pubblicherà altre otto composizioni successive. Il tema è il lavoro fisico. Nel giugno del 1956 gli operai di Poznan indissero una manifestazione rivendicando i loro diritti e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Il Governo comunista fece ricorso ai carri armati per sedare la rivolta, e furono uccise più di cinquanta persone. Forse questo tragico evento fu uno dei motivi che ispirarono la composizione, anche se in essa non si trovano tracce di quelle vicende. In ogni caso Wojtyła conosceva bene il lavoro pesante. Dal 1939 al 1944, per evitare la deportazione, lavorò come operaio prima nelle cave e, poi, nelle industrie chimiche Solvay presso Cracovia. L’esperienza segnò il giovane Wojtyła, che adesso rivive in questi versi quel lavoro come dura realtà, ma anche come ricca metafora in un contrappunto serrato tra grandezza del lavoro e dignità umana: Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra, / e in me cresce un pensiero, di giorno in giorno: / che la grandezza del lavoro è dentro l’uomo. Il poeta ben conosce la forza fisica necessaria al lavoro pesante. Essa è espressione non di una pura fisicità, ma del pensiero e del cuore: dura e piagata, la mano variamente si gonfia serrando il martello, / variamente si snoda nella pietra il pensiero umano. […] Le mani sono il paesaggio del cuore. […] Non solamente le mani calano giù col peso del martello, / non solamente il torso si tende e i muscoli disegnano la loro forma, / ma attraverso il lavoro passano i suoi pensieri più intensi / per intrecciarsi in rughe sulla fronte, / per congiungersi in alto, sopra il capo, nell’arco acuto di braccia e di vene. La concretezza del dettaglio e il disegno di un fisico robusto accompagnano una visione ampia e profonda del lavoro, capace di plasmare la materia con l’intelligenza e la passione. Il lavoro ha inizio dentro l’uomo: non è un’azione esterna, estranea. Poi fuori tanto si dilata / che presto prende le mani, raggiunge i confini del respiro. Ma il lavoro umano è duro, pieno di pericoli. Il rapporto tra l’uomo e la materia è sublime e rischioso: l’uomo ha portato con sé la segreta struttura del mondo.
«Profili di Cireneo»
Quattro mesi prima di diventare vescovo di Cracovia, nel marzo 1958, in occasione della Domenica delle Palme, veniva pubblicato il poema Profili di Cireneo, che Wojtyła aveva composto un anno prima. L’opera si ispira alla Passione di Cristo e si concentra sulla figura di Simone di Cirene, che fu costretto ad aiutare Gesù a portare la croce nella sua salita al Golgota. Il Cireneo è una potente immagine che ben rappresenta l’uomo contemporaneo. Il poeta coglie questo denso valore metaforico della figura e su questa medita in versi. La lunga e complessa composizione si divide in tre parti. Nella prima Wojtyła sceglie tra tanti profili quello di Simone che sta sempre accanto all’Uomo, cioè al Cristo. Il Cireneo è, scrive, quello che meglio conosco / da ogni angolazione possibile. / […] Di quel profilo dunque e dell’altro Uomo / ininterrottamente mi parla la vita. Egli è, quindi, un profilo aderente alla vita ordinaria di ogni uomo e di ogni donna. Infatti, nella seconda parte, ecco 14 profili di «cirenei» contemporanei: il melanconico, lo schizoide, i ciechi, l’attore, la ragazza delusa in amore, i fanciulli, due operai, un intellettuale, un emotivo, un volitivo… Wojtyła compone una fenomenologia poetica dell’uomo contemporaneo in piccoli ma densi quadri. Ciascun profilo è quello di un cireneo che ha il proprio giogo da portare sulle spalle.
Nelle pupille vuote del cieco continuamente muore un mondo / che a se stesso non somiglia: / un mondo fatto non di colori ma di brusii, mentre l’uomo che vede e cammina senza bastone bianco abbraccia in un istante lo spazio. Splendido il ritratto della ragazza delusa in amore. La delusione amorosa è un malessere di cui però, al di là di ogni misurazione di tipo psicologico, occorre saper valutare la grandezza. Così il poeta si rivolge alla ragazza: Se riuscissi a capire che il perno non sei tu, / e Colui che lo è / neppure lui trova amore – / se riuscissi a capirlo. / A che serve il cuore umano? / Temperatura del cosmo e cuore umano – e mercurio. E così ogni profilo è riflesso di un’umanità dalle trame aggrovigliate.
La terza parte di Profili di Cireneo è una sintesi del volto affaticato e oppresso dell’uomo d’oggi nella sua tensione, più o meno cosciente e aperta, verso Dio. L’uomo-cireneo vuole essere lasciato in pace, non vuole che alcun pezzente o alcun condannato o perfino alcun Dio irrompa in lui o sopra di lui. Eppure la potenza dell’Incarnazione, la forza che unisce nel dolore l’uomo e Dio, lo vince: Chi ci distinguerà quando il peso ci sbatterà insieme per terra. / Io con Lui. Simone adesso «vede»: E accanto scorre la folla, / donne, bambini, soldati: tutti si aggirano ai confini di Dio.
Intorno agli anni del Concilio
Il giovane vescovo Wojtyła si reca in un paese di montagna per conferire il sacramento della Confermazione. Nel 1961 scrive Nascita dei confessori, una sorta di riflessione poetica su questa visita pastorale nella quale, tramite la Cresima, sono nati nuovi «confessori» della fede. Il poemetto si divide in due parti: la prima presenta i pensieri del vescovo che amministra il sacramento, la seconda i pensieri di un uomo che lo riceve.
L’incipit immerge l’azione che si sta compiendo nello sfondo delle fonti nascoste di energia che scorrono nel mondo: Il mondo è pieno d’occulte energie, arditamente le chiamo per nome. Esse non scorrono via velocemente come l’acqua sulla roccia dei monti: bisogna fissarle a lungo, come si fissa l’insetto oltre il vetro… Non si può non notare quanto il poeta insista in molte sue composizioni sulla dimensione contemplativa che si realizza nel fissare un oggetto o un mistero in maniera intensa e prolungata. In questo caso l’invito è a contemplare le energie complesse del mondo. Il vescovo sente di esserne un dispensatore. Tocco forze di cui l’uomo dovrà traboccare. Anche il viso dei fedeli che ricevono il sacramento, la tanta gente assorta, sembrano potenziali di energia. Nei volti, segnati dal gioco delle rughe, soprattutto negli occhi un campo elettrico vibra… / Qui l’elettricità è reale – ed è insieme anche un simbolo del pensiero, dello spirito, delle forze che sono nell’uomo, sulle quali si esercita la pressione dell’invisibile imprigionata in fasci di atmosfere. Questi i pensieri del vescovo, a cui corrispondono i pensieri dell’uomo che riceve il sacramento, il quale si chiede: Come devo nascere? […] Devo forse domandare dov’è la fonte – forse basta andare, / basta seguire il corso, non fermarsi, non opporsi mai all’onda / ed opporsi, non è già confessare? Dopo varie domande sul come e sul dove, l’unica certezza è quella di non opporsi, lasciare agire la Grazia: Ma se c’è in me la verità – deve esplodere. / Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso. L’accoglienza pone armonia, e la Grazia può affluire anche da qualunque fonte creata: Ti raccoglierò da tutti gli alvei, / dai ruscelli, dalle fonti di luce, dalle radici degli alberi, dagli spazi del sole.
Tra l’ottobre e il dicembre del 1962 egli compone la raccolta di nove poesie dal titolo Chiesa – I pastori e le fonti, ispirata appunto al mistero della Chiesa nel suo aspetto materiale e nel suo aspetto spirituale, senza però distinzione tra la realtà concreta e il suo significato simbolico. Wojtyła, che si trovava a San Pietro per il Concilio Vaticano II, vede le pareti sorreggere senza fatica le vòlte: così esse sembrano sostenere simbolicamente anche l’abisso in cui ora si avvolge la terra. L’«abisso» è il mistero dell’uomo in tutta la sua complessità. È questo mistero che le pareti della basilica sembrano sorreggere. Le nicchie, a loro volta, appaiono come singolari luoghi di sosta all’interno di quell’immenso Slancio che invade noi uomini. Il pavimento guida e unisce, unifica gli spazi della struttura, ma anche gli spazi interni di coloro che camminano così consapevoli delle nostre debolezze e sconfitte. Pietro vuole essere Colui che sostiene i passi – come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge. Leggere questi versi col senno di poi colpisce il lettore, che coglie in essi l’anticipo di una missione e il senso di un pontificato.
Nel dicembre 1963 Wojtyła con altri vescovi si reca in pellegrinaggio in Terra Santa. L’anno successivo egli scrive alcuni ricordi, che poi successivamente si trasformano in una composizione — Pellegrinaggio — pubblicata nel 1966. L’opera è suddivisa in cinque parti che sfumano dai versi alla prosa. A metà della seconda parte, infatti, il verso libero si allunga fino a diventare prosa poetica. Il pellegrinaggio si apre con l’orto degli ulivi che da vista oggettiva e concreta subito si trasforma in visione capace di solcare la storia, e di congiungere lo sguardo di Cristo con quello del poeta. Quindi il cammino prosegue con il deserto di Giuda, che diviene il centro di generazione e di gravitazione dell’intero cosmo: Questo è il punto che hai scelto. / Tutta la terra viene verso quest’unica Terra e grazie a questa / diviene terra, l’esistente diviene l’esistente / grazie a COLUI CHE E’. La Terra Santa è stremata dal travaglio di partorirci e soltanto in essa ci si può riconoscere veramente, trovare una Identità di respiro: nel Tabor, a Cafarnao, a Betsaida, a Magdala… Anch’io prendo inizio di qui, scrive Wojtyła.
Il senso della patria e della storia
L’anno di pubblicazione di Pellegrinaggio era il millesimo anniversario del battesimo di Mieszko I, primo sovrano polacco, duca di Polans, che diede poi il nome alla Polonia. Sullo sfondo di tale anniversario Wojtyła pubblica anche Veglia Pasquale 1969, un poema in sette sezioni. La composizione riformula la tradizione romantica polacca, che unisce la sorte di Cristo e quella della nazione, la quale risorge dopo essere stata sepolta dai suoi avversari. La Polonia in questi versi assume la forma di un albero ferito, che però in tal modo è pronto per l’innesto. Dio ne protegge le radici. Ma qui il destino polacco sembra essere, più ampiamente, un simbolo per parlare del destino della storia che va verso il suo compimento escatologico: La storia degli uomini come me cerca il Corpo che Tu darai loro. / Nella storia ciascuno perde il suo corpo e s’avvia ad incontrarTi. / Nell’istante della partenza ciascuno è più grande degli eventi di cui / egli fu minima parte (scheggia di un certo secolo / o schegge di due secoli, riunite in una vita). Allora l’uomo acquisterà quella Luce, senza la quale non sarà compiuto.
L’anno successivo Wojtyła, ad appena 47 anni, sarà creato cardinale da Paolo VI. Inizia da questo momento un silenzio poetico che durerà otto anni. Sarà interrotto nel 1974, quando Wojtyła scrive Pensando patria…, che sarà pubblicato solamente dopo la sua elezione al pontificato, nel 1979, ancora sempre sotto pseudonimo. Si tratta più di prosa poetica che di poesia vera e propria, ma i confini delle forme sono labili. La poesia matura di Wojtyła, al contrario di quella giovanile, tende alla meditazione; d’altra parte la meditazione tende alla poesia, dando vita a un equilibrio instabile, difficile da definire con precisione. L’amore per la Polonia e la forza delle sue radici cristiane sono temi cari al poeta.
Nel 1978, cioè l’anno in cui il card. Wojtyła diventa Giovanni Paolo II, viene composto Stanislao, un’ulteriore meditazione poetica sulla Polonia cristiana. Essa è dedicata al santo patrono della Polonia, vescovo di Cracovia, che nell’XI secolo cristianizzò profondamente la nazione, quell’uomo in cui la mia terra seppe / di essere legata ai cieli.
Le penultime meditazioni
L’ultima composizione di Wojtyła pubblicata prima della sua elezione al soglio di Pietro è Meditazione sulla morte, composta nel 1975. È un testo che abbandona l’andamento in prosa per tornare a uno stile più concentrato, ritmico, a volte circolare. Il poeta ne ha bisogno per esprimere la sua riflessione, ora spezzata ora legata come un flusso di coscienza, che va per barlumi e intuizioni. Tutta la mèsse finale è racchiusa nell’inizio. In questa dialettica si ritrovano gli ultimi momenti, sui quali il poeta si concentra con estrema attenzione e capacità introspettiva: Quando saremo sulla riva d’autunno / esploderanno timore ed amore nelle loro opposte brame: / il timore bramando il ritorno a ciò che una volta fu vita / e lo è ancora – / l’amore bramando inoltrarsi verso Colui in cui la vita trova tutto il suo domani. / Ed in noi che guardiamo verso la riva d’autunno / si scatena la lotta lungo la spaccatura / che ogni uomo porta in sé / quando il corpo è in lui ancora il passato del suo domani / e l’uomo non riesce a legare quel domani al suo corpo…
Ed ecco che la riflessione si tramuta nell’appello: Lascia agire in me il mistero, fallo agire / nel corpo affranto dalla debolezza. Ed esso diviene subito una splendida preghiera: E così m’iscrive in Te la mia speranza, / fuori di Te non posso esistere – / quando innalzo il mio «io» sopra la morte / svellendolo da un suolo di sterminio, / questo avviene perché esso sta in Te / come nel Corpo / che dispiega la sua potenza sopra ogni corpo umano / e rinnova il mio «io», cogliendolo da un suolo di morte / in figura diversa eppure tanto fedele, / dove il corpo della mia anima e l’anima del mio corpo ritornano a congiungersi / fondando sulla Parola, per sempre, la vita fondata prima sulla terra, / dimenticando ogni affanno, come al levarsi, nel cuore, d’un Vento improvviso / al quale nessun uomo vivente può resistere / né le cime dei boschi, né in basso le radici che si fendono. / Il Vento mosso dalla Tua mano, ecco, diviene Silenzio.
Alla Meditazione sulla morte segue nel 1978 la composizione di La redenzione cerca la tua forma per entrare nell’inquietudine di ogni uomo, che fu pubblicata sotto pseudonimo quando il poeta era già stato eletto Pontefice. Come il poema Profili di Cireneo si ispirava alla figura di Simone di Cirene, così quest’opera si concentra sulla Veronica, che nel cammino della Croce asciugò il volto di Cristo. Essa si compone di quattro parti. La figura di Veronica è introdotta lentamente, attraverso una riflessione sui significati della vita quotidiana, che sono il contesto della sua esistenza: Attendo qui le tue mani / cariche dei lavori di ogni giorno, / attendo qui le tue mani / che reggono un semplice panno. / Nel paese dei più profondi significati / porta le tue mani, Veronica, / porta le tue mani / e tocca il volto dell’uomo. Ecco che il volto di Cristo diviene il volto di ogni uomo, del quale la Veronica è sorella: il suo panno attira a sé tutta l’inquietudine del mondo. Il suo è un mistero di vicinanza e distacco. L’uomo è forma inquieta che nessuno sguardo è in grado di raggiungere fino in fondo, ma il volto di Cristo impresso nel velo di Veronica attraversa colui che lo contempla, dando pace alla sua inquietudine.
Trittico romano
Dal 1978, data della composizione di Stanislao e dell’elezione al pontificato, Wojtyła abbandona l’esplicita pratica poetica per riprenderla ben 25 anni dopo con la composizione di Trittico romano. Esso si compone di tre grandi quadri: «Torrente», «Meditazioni sulla “Genesi”. Dalla soglia della Cappella Sistina» e «Colle nel paese di Moria». La prima tavola si apre con l’esperienza della creazione, della sua bellezza e della sua forza, colta nell’argentata cascata del torrente, / che dal monte cade ritmato, / trasportato dalla propria corrente… L’uomo, che sempre ha in sé l’Adamo delle origini, è «definito» radicalmente dalla sua capacità di stupirsi davanti al creato. Questa capacità lo differenzia dalle altre creature: L’uomo, con loro, scorreva / sull’onda dello stupore. Nell’uomo ha un senso lo scorrere delle acque, così come tutto il creato. Nell’uomo tutto ha un porto, un approdo, in lui che si asperge le labbra d’acqua della sorgente e che percepisce la freschezza, / freschezza vivificante. È lo stupore di questa freschezza che spinge a cercare la sorgente, il mistero della sua scaturigine.
Si apre così un pellegrinaggio controcorrente che ha la sua prima tappa nella seconda tavola del Trittico. Il poeta è all’ingresso della Cappella Sistina, e la visione è quella del Giudizio: l’Inizio si congiunge con la Fine. Rapito dall’affresco, Wojtyła, come in un gioco di specchi, intuisce che il testo biblico genera una visione, la quale resta come in attesa che qualcuno la colga e la rappresenti artisticamente. Il racconto biblico aspettava il frutto della «visione», anzi esso era atteso sin da quando il Verbo si fece carne. Nella visione michelangiolesca, dalla quale proviene la meditazione poetica, viene visto lo scorrere delle generazioni fino alla Fine. Ogni uomo è chiamato a riacquistare questa visione di nuovo.
La terza e ultima tavola ha per protagonista Abramo, l’uomo dalla fede assoluta nell’Insolito, Colui che è Diverso da tutto ciò / che l’uomo di Lui poteva pensare. Nei versi si dispiega la visione della sua salita con Isacco sul monte di Moria, il monte del sacrificio. Nel dialogo silenzioso tra padre e figlio — scriveva l’allora card. Ratzinger nel suo commento al Trittico — «si riflettono tutte le domande della storia, la loro sofferenza, le loro paure e speranze»: è lo stesso dialogo tra Padre e Figlio, un «dialogo eterno» che «rappresenta allo stesso tempo anche la risposta al nostro dialogo umano incompiuto»[9]. Il Dio della Creazione, intuito nella prima tavola del Trittico, è divenuto il Dio del Giudizio nella seconda. Tra Inizio e Fine è il divenire umano, storico, che la terza tavola dispiega, concentrandone il significato nel cammino di Abramo verso il Moria, che è il cammino del Figlio verso il Calvario: «Attraverso il cammino del Figlio sul monte del sacrificio si svela “il mistero celato dell’esordio del mondo”»[10].
Il Trittico, come afferma il sottotitolo, è una meditazione poetica più che una poesia meditativa, anche se resta difficile per la poesia di Wojtyła operare queste distinzioni.
Un «pensiero poetante»
Giovanni Raboni scrisse del Papa poeta: «Le si condivida oppure no nel merito culturale e politico, in venticinque anni nessuna delle scelte, nessuna delle prese di posizione di questo papa ha dato, che io ricordi, l’impressione d’esser stata decisa a cuor leggero e ci può dunque apparire, in prospettiva, priva di peso, di drammaticità, di sofferenza. E non è forse questo ciò che si chiede, per sentirla davvero tale, anche alla poesia? Non è di casualità, di gratuità, di (l’ombra di Calvino mi perdoni) eccessiva “leggerezza” che le parole della poesia rischiano perlopiù di ammalarsi e morire?»[11]. Le architetture metaforiche della poesia di Wojtyła non sono affatto «leggere». Esse si intrecciano a domande inquiete e risposte di grande intensità spirituale.
L’ispirazione di Wojtyła si è mossa verso composizioni che seguono il ritmo del pensiero, e che si restringono fino all’ermetismo e si allargano fino alla meditazione in prosa. Tra pensiero e visione non sembrano esserci cesure, e la lettura migliore delle poesie non è certo quella in grado di sezionarne e riassumerne i concetti e i significati filosofico-teologici, ma quella che sa dispiegare e chiarire la potenza delle visioni. Così anche non ci sono scissioni tra la dimensione ascetica e quella pratica, a tal punto che, ad esempio operai intenti al loro duro lavoro e perfino nel momento della morte violenta, diventano figure del moto laborioso dell’universo, movimento dell’essere. Questa è, appunto, una delle caratteristiche della poesia wojtyłiana: partire da un oggetto, un fatto, una persona e cogliere la trama infinita di nessi col mistero dell’esistenza umana, con la segreta struttura del mondo.
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[1] K. Wojtyła, Dono e Mistero, Roma, Libr. Ed. Vaticana, 1996, 16.
[2] Id., «Sul teatro della parola» [1952], in Id., Tutte le opere letterarie. Poesie, drammi e scritti sul teatro, Milano, Bompiani, 2001, 970.
[3] Id., «I rapsodi del millennio» [1958], ivi, 981.
[4] Cfr G. Raboni, «Le venti poesie di Karol Wojtyła», in http://www.corriere.it/speciali/2003/Cronache/papa/raboni.shtml
[5] Id., «I rapsodi del millennio [1958]», cit., 983 s. Il corsivo è nostro.
[6] Tutta l’opera poetica di Karol Wojtyła in lingua italiana (ma col testo originale a fronte) è racchiusa in tre volumi. Il primo, che comprende la poesia giovanile composta tra la primavera e l’estate del 1939, è Karol Wojtyła. Le poesie giovanili (salterio di Davide, Libro slavo, Salterio rinascimentale). Cracovia, primavera-estate 1939, a cura di M. Burghardt, Roma, Studium, 2004. Le poesie della maturità, e con esse anche tutte le altre opere teatrali, sono raccolte in Tutte le opere letterarie…, cit. Infine Trittico Romano. Meditazioni, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2003.
[7] K. Wojtyła, Dono e Mistero, cit., 11 s.
[8] Citato in Karol Wojtyła. Le poesie giovanili…, cit., 23. Per un’analisi critica della produzione poetica giovanile cfr A. Spadaro, «La poesia del giovane Wojtyła», in Vita pastorale 93 (2005) n. 12, 82-85.
[9] J. Ratzinger, «Presentazione», in K. Wojtyła, Trittico Romano, cit., 8.
[10] Ivi, 9.
[11] G. Raboni, «Le venti poesie…», cit.