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Se si facesse un’inchiesta tra i cristiani praticanti per individuare le loro principali intenzioni di preghiera, cioè per chi essi preghino normalmente, si scoprirebbe che queste intenzioni sono soprattutto: per la pace nel mondo, per la Chiesa, per la salute, per la famiglia, per gli amici, per gli ammalati. Anche se si moltiplicassero le interviste, difficilmente si troverebbe qualcuno che spontaneamente preghi per i governanti. Anzi, molti troverebbero in questa preghiera qualcosa di strano e di sospetto, talmente è radicata l’abitudine a considerare l’attività politica come qualcosa di esclusivamente profano. Oggi si è critici con gli uomini di governo, e non è spontaneo pregare per loro, perché siano aiutati nella grave responsabilità che pesa sulle loro spalle.
Nella Liturgia delle Ore
Eppure, chi usa la Liturgia delle Ore, preghiera ufficiale della Chiesa Romana per i principali momenti della giornata, sa che nelle «intercessioni» dei Vespri ci sono spesso intenzioni per i governanti:
«Re delle genti, illumina i popoli e coloro che li guidano, perché operino concordemente al bene comune nello spirito del Vangelo» (martedì della 1a settimana del tempo ordinario)1.
«Illumina con la tua sapienza le assemblee legislative, perché facciano leggi giuste e sagge» (martedì della 2a settimana del tempo ordinario).
«O Dio, che hai in mano i cuori e le intelligenze di tutti gli uomini, illumina i governanti perché ispirino le intenzioni e le opere alla sapienza del Vangelo» (martedì della 3a settimana del tempo ordinario)2.
«Illumina e guida con il tuo Spirito i legislatori e i governanti, perché promuovano costantemente la giustizia e la pace» (martedì della 4a settimana del tempo ordinario)3.
«Fa’ che gli uomini politici non si chiudano nella ricerca egoistica del benessere e del prestigio nazionale, ma abbiano a cuore il progresso e l’ascesa di tutti i popoli» (martedì 4a settimana del tempo ordinario).
«Re della pace, dona il tuo Spirito ai legislatori e ai governanti, perché promuovano il bene dei poveri e dei diseredati» (sabato della 4a settimana del tempo ordinario).
«Dona il tuo Spirito a coloro che hanno responsabilità di governo, fa’ che collaborino a costruire una società nuova nella fraternità e nella giustizia» (27 dicembre).
«Noi ti preghiamo per i legislatori e i governanti: fa’ che promuovano la giustizia e la fraternità di tutti gli uomini» (venerdì fra l’ottava di Pasqua, venerdì della 3a e della 5a settimana di Pasqua)4.
«Tu che hai ricevuto dal Padre ogni potere in cielo e in terra, per rendere testimonianza alla verità, guida con la tua sapienza coloro che ci governano» (venerdì della 2a e della 4a settimana di Pasqua).
«Illumina i legislatori, i magistrati e i governanti, fa’ che collaborino al bene di tutta la comunità» (martedì della 7a settimana di Pasqua).
Come si vede, la presenza di questo tipo di intenzioni è consistente. Notiamo anzitutto che queste preghiere, semplici e profonde nello stesso tempo, non sono elevate soltanto per i governanti cristiani o dei Paesi cristiani, ma per tutti, indistintamente. La Chiesa chiede a Dio di «illuminare», mediante lo Spirito Santo, «le intelligenze e i cuori» di coloro che sono al potere, perché ricerchino il «bene comune», emanino «leggi giuste e sagge», «conformi alla sapienza del Vangelo», e «promuovano costantemente la giustizia e la pace», specialmente «la fraternità», «il progresso e l’ascesa di tutti i popoli», con particolare attenzione al bene «dei poveri e dei diseredati».
In queste intenzioni si fa riferimento all’attività legislativa, perché dalle leggi giuste e sagge dipende il buon funzionamento della vita civile. Viene anche richiamata l’attività propriamente di governo, che dev’essere guidata dalla «sapienza» e avere sempre davanti agli occhi «la giustizia e la pace», non in una gretta visione nazionalistica, ma in un’apertura universale. Il tutto «nello spirito del Vangelo». È interessante e sorprendente questo richiamo al Vangelo come ispiratore della vita politica. Sorprende perché molti governanti — diciamo pure la stragrande maggioranza, se guardiamo all’insieme dei Paesi del mondo — non si richiamano neppure lontanamente al Vangelo; inoltre non sembra che il Vangelo, con il suo radicalismo e la sua dimensione escatologica, protesa cioè verso il Regno di Dio, possa essere di molta utilità per un uomo di governo, che ha a che fare con realtà molto più terra terra. Ma torneremo su questo punto.
Qualcuno invece potrebbe obiettare: perché questa preghiera per i governanti? Non è contraria allo spirito del Vangelo, che dice di non confondere Dio e Cesare? Non è forse un retaggio dell’epoca costantiniana, quando Chiesa e Stato hanno cominciato ad andare a braccetto? Perché pregare per i governanti di uno Stato che, almeno nei Paesi democratici, si dichiara «laico», cioè non-confessionale, e ha di mira soltanto il benessere terreno? Inoltre, non è forse lo Stato che, nei primi secoli e ancora in tempi a noi più vicini, ha perseguitato i cristiani? Che senso ha, dunque, pregare per i politici?
Eppure la preghiera per coloro che sono al governo non è un fatto recente, come qualcuno potrebbe pensare, un’innovazione della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II, che si è caratterizzato per una straordinaria apertura verso il mondo. Essa è molto più antica, risale alla stessa tradizione biblica e apostolica.
La preghiera per i governanti nella storia
Nella tradizione biblico-giudaica. In un Salmo, risalente al tempo della monarchia davidica (X-VII sec. a. C.), leggiamo questa preghiera per il re: «Dio, da’ al re il tuo giudizio, / al figlio del re la tua giustizia: regga con giustizia il tuo popolo / e i tuoi poveri con rettitudine» (Sal 72, 1-2). In tutto questo Salmo, le parole «pace» e «giustizia», «povero» e «misero» ritornano con insistenza: il re ideale è quello che difende i deboli e i poveri — facile preda dei forti e dei prepotenti — e opera per la giustizia e la pace.
Anche il Salmo20, che termina con la celebre e fortunata invocazione «Salva il re, o Signore!» (v. 10), si augura che Dio ascolti e protegga il re, ma non chiede per lui le virtù del buon governante, bensì la vittoria su tutti i nemici. Il Salmo 20 costituisce, dunque, un esempio dell’accentuazione nazionalistica nella quale la preghiera per il re può cadere. Ciò si verifica quando la causa di un particolare popolo viene identificata con la causa di Dio. Tutto ciò è comprensibile nella mentalità dell’antico Israele, che riconosceva alla monarchia, soprattutto a partire dal re Davide, l’avallo di una promessa divina (cfr Sal 89,4-5). In una società teocratica, è normale la preghiera per il re.
Anche nella concezione greco-romana dello Stato, la preghiera e i sacrifici propiziatori erano parte integrante della vita civile, in una completa subordinazione della religione al potere politico. Per questo i Romani, dopo la conquista della Palestina, vedevano di buon grado il fatto che i Giudei offrissero ogni giorno un sacrificio per l’imperatore, come segno di lealismo verso l’impero5. Non era però questa una novità. Già nel 515 a. C., Dario, re dei Persiani, concedendo agli esiliati giudei il ritorno alla loro terra e autorizzando la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, chiedeva che si facessero offerte e preghiere «per la vita del re e dei suoi figli» (Esd 6,10)6.
All’interno del giudaismo però non mancavano correnti intransigenti, che riconoscevano la sovranità assoluta di Dio anche in campo politico, senza nessuna mediazione, e nutrivano sentimenti di ostilità verso le autorità romane. Tale atteggiamento è entrato pure nella più comune preghiera giudaica, detta Ascolta, la quale nella XII benedizione, in una redazione risalente alla fine del I secolo d. C., così dice: «[…] e possa tu presto distruggere nei nostri giorni l’impudente governo [Roma]»7.
Nella tradizione apostolica. Quello però che a noi più interessa è constatare che già la Chiesa delle origini pregava per coloro che governano. Il cristianesimo, con la professione nella suprema autorità universale del Kyrios, il Signore Gesù, proclamato «Re dei re e Signore dei signori» (Ap 17,14), «colui che comanda i re della terra» (ivi, 1,5), aveva superato l’identificazione tra la sfera religiosa e quella politica, senza con questo cadere nel rifiuto del potere politico in quanto tale, pur riconoscendone a volte il lato oscuro8. Sarà allora interessante esaminare con quale spirito viene fatta questa preghiera, che, raccomandata dal Nuovo Testamento, in tal modo è avallata dall’autorità apostolica.
Il testo più esplicito si trova nel corpus delle lettere paoline e precisamente nella Prima Lettera a Timoteo: «[1] Ti raccomando dunque, prima di tutto [o Timoteo], che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, [2] per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamotrascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. [3] Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, [4] il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,1-4). Notiamo anzitutto lo spirito universalistico che anima questo invito pressante alla preghiera comunitaria, della quale Timoteo è responsabile9: essa dev’essere rivolta a beneficio non soltanto di un gruppo o di un popolo particolare, ma di «tutti gli uomini», perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (v. 4). Troviamo qui una delle più chiare affermazioni sull’universale volontà salvifica divina, che non esclude nessuno, di nessuna «nazione, razza, popolo e lingua» (cfr Ap 7,9), grazie alla mediazione sacrificale di Cristo «che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6).
In questo contesto universalistico vengono nominati «i re e tutti quelli che stanno al potere» (v. 2). Si tratta di governanti in genere e di persone investite di una qualche autorità10. Lo scopo di questa preghiera per i governanti è ottenere di trascorrere «una vita calma (èremon) e tranquilla (hèsychion) con tutta pietà (eusebeia) e dignità (semnotèti)» (ivi)11. In effetti, la pacifica convivenza tra i cittadini dipende soprattutto da chi è al governo. Quando questi non svolge bene il suo compito, si verificano rivolte, insurrezioni, disordini, guerre. L’esistenza serena permette a tutti una vita dignitosa, nel senso che la persona umana è posta in condizione di esprimere liberamente la sua pietas, cioè la sua fede religiosa, nel rispetto di tutti gli altri valori, familiari e sociali. In questa prospettiva si capisce che non è la persona a servizio dello Stato, ma è lo Stato a servizio della persona12.
La vita serena non è, però, il fine ultimo dell’esistenza umana, ma è solamente un mezzo per poter arrivare alla «conoscenza della verità» e, quindi, alla salvezza. I termini qui usati sono filosofici, ma il contesto è chiaramente religioso: questa «conoscenza della verità» coincide con l’accettazione della rivelazione di Dio compiutasi in Gesù Cristo. La «verità» dunque è il «vangelo», la «buona notizia» su Gesù di Nazaret; è, anzi, «la persona storica stessa del Nazareno, soggiaciuto alla morte, ma vittorioso su di essa, per sempre»13. La salvezza che Dio vuole per tutti non è perciò semplicemente un benessere terreno, ma qualcosa che va oltre la morte, cioè il partecipare alla vita stessa di Dio. In sintesi, il pensiero espresso da questo testo paolino potrebbe essere così formulato: con la loro preghiera universale i credenti svolgono un vero ufficio sacerdotale nei confronti dell’umanità intera; in particolare, la preghiera per i governanti è riallacciata alla volontà salvifica universale di Dio, la cui attuazione potrebbe essere ostacolata proprio da chi detiene il potere, se lo esercita in modo da non assicurare la pace e la serena convivenza.
Questo invito a pregare per i governanti è avvalorato dal passo della Lettera ai Romaninel quale Paolo pone alcuni princìpi che saranno la base di tutta la dottrina cristiana circa il potere politico. Poiché questo passo non viene letto nelle assemblee liturgiche che seguono l’attuale Lezionario Romano14, esso è praticamente sconosciuto ai non specialisti; perciò vale la pena riportarlo per intero: «[1] Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. [2] Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. [3] I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, [4] poiché essa è al servizio (diakonos) di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio (diakonos) di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. [5] Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. [6] Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari (leitourgoi) di Dio. [7] Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto» (Rm 13,1-7).
Questo fermo richiamo alla sottomissione alle autorità civili, specificato come dovere «di coscienza» (v. 5), in quanto «non c’è autorità se non da Dio» (v. 1); questo avallo del potere della «spada», cioè della pena di morte, come «giusta condanna di chi opera il male» (v. 4); questo linguaggio quasi liturgico applicato ai funzionari dello Stato, tutto ciò è sembrato ad alcuni commentatori così estraneo a quello che, secondo loro, è il genuino pensiero paolino, che hanno giudicato tutto il brano una interpolazione15.
In realtà, sappiamo che Paolo non apparteneva ai circoli apocalittici del giudaismo, fortemente ostili a ogni tipo di autorità che non fosse quella divina; fariseo di formazione, egli condivideva la posizione di quei gruppi che «cercavano di stabilire buone relazioni con le autorità civili e imperiali»16. Il brano resta comunque oggi di difficile accettazione, soprattutto per l’avallo che sembra offrire alla pena di morte, per cui si tende a ignorarlo.
La Lettera di Clemente Romano. Sulla linea paolina si pone anche la celebre Lettera di Clemente Romano ai Corinzi, il più antico documento proveniente dalla Chiesa di Roma (sec. I). Essa, a conclusione di una lunga supplica universale, contiene un’esplicita preghiera per le autorità civili. Si tratta di un passo estremamente solenne, che merita di essere citato per intero a causa della sua antichità e della sua ricchezza. Lo stile della preghiera è tipicamente giudaico, della corrente farisaica:
[60, 4] «Concedi [Signore] concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la concedesti ai nostri padri, quando ti invocavano devotamente, con fede e verità; rendici obbedienti all’onnipotente e santissimo Nome tuo, nonché a coloro che ci governano e ci guidano sulla terra.
[61, 1] «Tu, Sovrano, desti loro il potere del regno per mezzo della tua magnifica e indicibile potenza, così che noi, conoscendo la gloria e l’onore che tu hai dato loro, siamo loro sottomessi, senza opporci alla tua volontà:
da’ loro, Signore, salute, pace, concordia, stabilità,
perché amministrino senza ostacoli l’ufficio di governo che tu hai dato loro.
[61, 2] «Tu, infatti, Sovrano, celeste re dei secoli, dai ai figli degli uomini gloria e onore, e potere sulle cose che sono sulla terra:
dirigi tu, Signore, il loro volere secondo ciò che è buono e gradito al tuo cospetto, così che amministrando piamente, con pace e mansuetudine, il potere che tu hai dato loro, ti trovino propizio.
[61, 3] «Te, il solo capace di fare con noi questi beni e ancora dei maggiori, noi confessiamo per mezzo di Gesù Cristo, sommo sacerdote e patrono delle nostre anime, per mezzo del quale a te la gloria e la magnificenza, ora e per la generazione delle generazioni e per i secoli dei secoli. Amen»17.
La preghiera si apre su un orizzonte universalistico, che abbraccia «tutti gli abitanti della terra» nella richiesta della «concordia e della pace», beni essenziali per la convivenza civile, ma costantemente minacciati dagli interessi particolari, per cui vanno invocati come dono di Dio. Questa invocazione si appoggia sul ricordo di quanto Dio ha fatto «ai nostri padri», quando essi lo invocavano «devotamente, con fede e verità»18. Qui i «padri» sono un’allusione alla storia santa di Israele. Il richiamo alle proprie radici non preclude l’apertura universale della preghiera. La memoria del dono di Dio nel passato fonda la richiesta fiduciosa per il presente. Poiché tuttavia il dono di Dio non cade dal cielo, ma passa attraverso il cambiamento del cuore dell’uomo e, quindi, attraverso la sua libertà rettamente orientata, ecco che si chiede a Dio la cosa più difficile: «Rendici obbedienti!». L’uomo, fin dalle origini, è sempre stato tentato di «disobbedienza» verso Dio, illudendosi di trovare così la propria autonomia e la propria libertà. Già l’apostolo Paolo caratterizzava il primo peccato dell’uomo come una «disobbedienza» (Rm 5,19) e presentava Gesù Cristo come l’uomo «fattosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Allora l’invocazione «rendici obbedienti» significa: «Rendi anche noi figli, come il Figlio tuo!».
L’autore associa poi l’obbedienza a Dio con quella «a coloro che ci governano e ci guidano sulla terra». Questa associazione può apparire sorprendente, ma non fa che esprimere un’idea ben conosciuta nel giudaismo: il cielo appartiene a Dio, la terra invece è stata affidata agli uomini19. Dio detiene il potere in modo originario e assoluto, ma non lo esercita direttamente sulla terra, bensì attraverso suoi delegati, il cui potere perciò non è assoluto, ma subordinato. Il primo delegato di Dio sulla terra è però l’uomo stesso. Per questo l’autore, sulla scia del Salmo820, utilizza due volte il binomio «gloria e onore», prerogative date da Dio non solo ai detentori del potere (61, 1), ma anche «ai figli degli uomini», cioè a tutti (61, 2). Questo significa che gli uomini di governo non sono diversi dagli altri, ma manifestano una dignità che appartiene a tutti.
Con questo siamo già entrati nel cuore della preghiera per le autorità civili, che inizia propriamente con 61, 1 e si compone di due strofe parallele: entrambe partono da un’invocazione (Tu, Sovrano…; Tu infatti, Sovrano…), a cui segue una prima frase all’indicativo, nella quale viene richiamato il dono di Dio (...desti loro il potere…; dai ai figli degli uomini gloria e onore…); questo richiamo fonda la richiesta successiva, che costituisce la seconda frase all’imperativo (Da’ loro, Signore…; dirigi tu, Signore…). I doni invocati nella prima parte sono: salute, pace, concordia e stabilità, tutti doni altamente utili, se non indispensabili, per un efficace governo. La seconda invocazione (Dirigi tu, Signore…) entra ancor più nel profondo: non vengono richiesti soltanto beni esteriori, ma anche quelli interiori, che toccano la volontà e dunque la libertà, dove soltanto Dio può entrare. Qui, in definitiva, si chiede a Dio di «dirigere» il volere dei governanti «secondo ciò che è buono e gradito» al suo cospetto, di concedere, in altre parole, il dono della sapienza, che è la virtù propria dei re e dei governanti, e che solamente Dio può dare, perché Egli ne è l’autore21. Essa permette un esercizio del potere caratterizzato dalla «pace», dalla «mitezza» e dalla «clemenza»22.
Questa preghiera è sorprendente sotto vari aspetti. Con quelle solenni invocazioni (Da’ loro, Signore… Dirigi tu, Signore….) sembra quasi una preghiera liturgica, come quelle di ordinazione23. Il testo, non solo è ben costruito dal punto di vista del formulario orazionale, ma è anche ricco di dottrina, che può essere esplicitata nei punti seguenti: 1) Dio è il solo «Sovrano» del mondo e della storia; 2) Egli però ha dato agli uomini una partecipazione a questo suo potere — con la gloria e l’onore che ne conseguono — mediante l’ufficio di governo; 3) i detentori di questo potere delegato da Dio devono esercitarlo in modo da cercare il bene e la pace, perché dovranno renderne conto a lui; 4) i sudditi devono collaborare con chi governa, senza porre ostacoli, ma obbedendo con religiosa sottomissione, cioè guardando all’origine di questo potere, che è nella volontà di Dio; 5) da qui la preghiera per coloro che governano, perché essi, riconoscendo la sovranità di Dio, ricevano, oltre ai beni esteriori, anche il bene interiore della sapienza, grazie alla quale potranno amministrare il loro potere in pace, con moderazione e clemenza; 6) frutto di tutto ciò sarà la concordia e la pace per tutti gli abitanti della terra.
L’ispirazione evangelica di questa preghiera è evidente. Non è infatti la preghiera di chi sottomette la religione al bene assoluto dello Stato, ma di chi prega per le autorità con il rispetto del credente, che «giudica tutto», anche lo Stato, alla luce della volontà di Dio, «e non è giudicato da nessuno» (1 Cor 2,15). Questa preghiera è stata variamente interpretata e, certo, va letta nel suo contesto storico, che però non è facile da ricostruire. È stata scritta tra il 69 e il 96 d. C. e, fatto significativo, proviene da Roma, centro dell’Impero e residenza dell’imperatore. Per alcuni si tratta di un testo chiaramente apologetico: la Chiesa di Roma voleva presentarsi non come una sètta pericolosa per l’Impero e l’ordine pubblico, ma come una religione pacifica e leale verso le autorità costituite. Si tratterebbe dunque di una captatio benevolentiae rivolta indirettamente alle autorità romane24. In effetti, anche quando allude alle atroci persecuzioni subite dai cristiani di Roma sotto Nerone, Clemente si guarda bene dal coinvolgere le autorità romane, ma attribuisce la persecuzione a una «invidia», senza precisare a chi debba essere imputata (Ai Corinzi, 5-6). La preghiera di Clemente non chiede a Dio la conversione delle autorità alla fede cristiana, ma le virtù necessarie all’esercizio del loro potere, riconoscendone con ciò in modo implicito la legittimità. I cristiani, se rifiutavano a costo della vita di rendere un culto idolatrico all’imperatore, tuttavia pregavano per lui, segno che ne riconoscevano l’autorità, pur ritenendolo un comune mortale25, bisognoso anch’egli di un aiuto dall’alto, cioè di una sapienza più grande, dato il posto di altissima responsabilità che occupava.
Altre attestazioni patristiche. Dopo Clemente, verso il 110 d. C., Policarpo, vescovo di Smirne (Asia Minore), in una lettera ai cristiani di Filippi, in Grecia, li esorta a pregare per i governanti con queste parole: «Pregate per tutti i santi [i credenti]. Pregate anche per i re, per le autorità e per i dirigenti, anche per coloro che vi perseguitano e vi odiano, e per i nemici della croce di Cristo, così che il vostro frutto sia manifesto in tutti e il vostro frutto sia perfetto» (12, 3). L’apposizione «per coloro che vi perseguitano e vi odiano» sembra riguardare anche le autorità, perché una persecuzione non è possibile senza un qualche avallo di chi detiene il potere. È lo stesso insegnamento che troviamo in Mt 5,44 e in Lc 6,27, dove in chi odia e perseguita è possibile vedere anche le autorità civili. La preghiera per gli imperatori non è dunque affatto condizionata da un loro atteggiamento eventualmente favorevole verso i cristiani. È interessante notare che questo atteggiamento di preghiera a favore di tutti, compresi gli imperatori, è presentato come tradizionale tra i cristiani. Se ne potrebbero moltiplicare le attestazioni citando, ad esempio Giustino, Atenagora, Tertulliano, Ippolito, Origene, Cipriano26.
Nei testi liturgici. La supplica per i governanti — che nel mondo antico erano di fatto gli imperatori e i re — è entrata anche nelle anafore o preghiere eucaristiche. Questo fatto non deve sorprendere, come se si trattasse di un innesto tardivo e fuori luogo; in effetti, le intercessioni presenti nella preghiera eucaristica non sono altro che il naturale prolungamento della domanda fondamentale «perché siamo trasformati in un solo corpo»27.
Ambrogio di Milano († 397), elencando i vari momenti della preghiera eucaristica, dice: «[Per mezzo del sacerdote] si eleva lode a Dio, gli si rivolge il discorso orazionale, lo si supplica in favore del popolo, dei re (pro regibus) e di tutti gli altri»28. Queste suppliche rappresentano «il vero oggi della preghiera eucaristica, ossia il momento in cui il formulario sommo della preghiera eucaristica della Chiesa si incarna, si incultura, assume la nostra fisionomia, una fisionomia che è tutta umana e tutta divina»29.
Il Canone ambrosiano della messa ha conservato la preghiera per l’imperatore al Te igitur30, mentre essa è assente dal Canone Romano, sebbene sia probabile che fosse in qualche parte presente, come attesta il papa Felice III (483-492) in una sua lettera31. Con il dominio dei Franchi, essa diventa la preghiera per il re, come si legge nell’Ordo missae del Sacramentario Gelasiano32.
In Oriente, la preghiera per l’imperatore e per tutta la corte è presente in quasi tutte le anafore, come ad esempio in quella di San Giacomo, che proviene dall’antica Chiesa di Gerusalemme33.
Uno dei momenti più significativi nel quale compare la preghiera per i governanti è quello delle «Orazioni solenni» della liturgia del Venerdì Santo34, la cui formulazione può essere fatta risalire al papa Leone Magno (440-461) ed è riportata nei Sacramentari Gelasiano e Gregoriano35. Queste formule sono passate nel Missale Romanum di Pio V (1570)36 e vi sono rimaste fino alla riforma della Settimana Santa voluta da Pio XII nel 1955.
Il Missale Romanum di Paolo VI ha una formulazione ancora più decisamente universalistica, che così suona nella traduzione ufficiale italiana: «Preghiamo per coloro che sono chiamati a governare la comunità civile, perché il Signore Dio nostro illumini la loro mente e il loro cuore a cercare il bene comune nella vera libertà e nella vera pace». «Dio onnipotente ed eterno, nelle tue mani sono le speranze degli uomini e i diritti di ogni popolo: assisti con la tua sapienza coloro che ci governano, perché, con il tuo aiuto, promuovano su tutta la terra una pace duratura (pacis securitas), il progresso sociale (gentium prosperitas) e la libertà religiosa (religionis libertas)»37. Questa formulazione, con le espressioni «bene comune», «vera libertà», «pace duratura», «progresso sociale», «libertà religiosa», riflette indubbiamente il clima postconciliare.
Negli antichi sacramentari troviamo anche formulari di messe per gli imperatori e i re38, che sono rimasti sostanzialmente anche nel Missale Romanum di Pio V. Nel nuovo Messale Romano nelle «messe e orazioni per le varie necessità» c’è tutta una sezione dedicata alla società civile, dove compare una «colletta» «per il Presidente della Repubblica»39.
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Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Conclusione
Questa ricerca, senz’altro incompleta, è sufficiente a mostrare come la preghiera per chi governa non è un fatto sporadico, ma è una costante nella prassi della Chiesa. Certo, nelle diverse epoche ci sono state anche significative variazioni nella sua formulazione, ma un fondo comune rimane, ed è l’ispirazione evangelica e apostolica. Infatti, nel contesto cristiano, pregare per le autorità non significa sottomettere la religione alle istanze dello Stato, riducendola quasi a instrumentum regni; ciò sarebbe uno stravolgimento della religione stessa40. Per i cristiani lo Stato non è un valore assoluto, perché al di sopra delle sue leggi — che a volte scendono a compromessi — c’è la legge di Dio, la legge morale, che non ammette compromessi. Quando dunque i cristiani pregano per le autorità dello Stato, lo fanno con quella libertà che viene loro dal Vangelo: non approvano incondizionatamente tutto ciò che quelle autorità stabiliscono, e pregano perché la loro azione sia sempre guidata dalla giustizia e dal bene morale.
Ma, ci eravamo chiesti, è possibile invocare il Vangelo come ispiratore per l’azione degli uomini di governo? La risposta può essere senz’altro affermativa. Proprio un detto di Gesù mette in antitesi la concezione di governo basata sul «dominio» con quella fondata sul «servizio», che Egli vuole per i suoi discepoli: «Voi sapete — dice — che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuole essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,42-44). Questo testo, benché rivolto primariamente ai capi della comunità cristiana, ha senz’altro contribuito a ispirare l’ideale del potere politico inteso come un «servizio» reso alla collettività. Inoltre il Vangelo, con la sua visione universalistica, ha certamente favorito l’idea del «bene comune» da ricercare come fine proprio dell’azione politica, non solo all’interno dei singoli Stati, ma anche a livello dell’umanità intera. Infine la ricerca della pace è un valore tipicamente cristiano, presentato nel Vangelo stesso come un bene messianico (cfr Gv 14,27), legato cioè alla venuta del Messia, del Cristo, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, l’unico capace, grazie al dono dello Spirito Santo, di riconciliarci con Dio e con gli altri uomini. Ciò si verifica nel momento in cui riconosciamo noi come figli nel Figlio e gli altri come fratelli nell’unico Padre.
I cristiani dunque da sempre hanno pregato per coloro che hanno una responsabilità di governo, e lo hanno fatto non per servilismo o per amore del quieto vivere, ma perché sanno che questa autorità dev’essere esercitata come servizio e non come dominio; che attraverso di essa dev’essere cercato il bene comune e non quello particolaristico; e che, negli inevitabili conflitti tra gli uomini, questa autorità dev’essere indirizzata non a scatenare la violenza, ma a trovare la via della pace.
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1 «Nello spirito del Vangelo» non c’è nell’originale latino, che porta iuxta legem tuam (Liturgia horarum iuxta Ritum Romanum, editio typica, vol. III, Città del Vaticano, 1971, 600); si tratta però di una bella esplicitazione. Un’intenzione molto simile si legge nei Vespri del mercoledì dopo le Ceneri, e della IIa e IVa settimana di Quaresima: «Guida i popoli e i loro governanti sulla via della tua volontà, perché promuovano lealmente il bene comune» (Liturgia delle ore, vol. II, 48. 163. 283).
2 Nell’originale latino c’è sapientia tua (Liturgia horarum, vol. III, 846), esplicitato molto bene con «sapienza del Vangelo».
3 Cfr mercoledì dell’ottava di Pasqua, mercoledì della 3a settimana e giovedì della 5a settimana di Pasqua.
4 L’originale latino è molto più significativo: «Oramus te pro iis qui nos in potestate regunt, ut exerceant munera secundum iustitiam et misericordiam, adeo ut concordia prevaleat et pax inter populos universos» (Liturgia horarum, vol. II, 482). Tr. nostra: «Ti preghiamo per coloro che ci governano, perché esercitino il loro ufficio secondo giustizia e misericordia, così che la concordia e la pace prevalgano tra tutti i popoli».
5 Come riporta Giuseppe Flavio (Guerra giudaica 2, 197) nel Tempio di Gerusalemme «si offrivano sacrifici due volte al giorno in onore di Cesare e del popolo romano» (citato da C. Spicq, Saint Paul. Les Épîtres Pastorales, t. I, Paris, Gabalda, 19694, 360). Quando nel 66 d. C. i Giudei sospesero questo sacrificio, il gesto «ebbe la portata di una dichiarazione di guerra contro Roma» (S. Légasse, «La prière pour les chefs d’État. Antécédents judaïques et témoins chrétiens du premier siècle», in Novum Testamentum 29 [1987] 241).
6 Per altre attestazioni sulla preghiera giudaica per i re del tempo ellenistico, cfr S. Légasse, «La prière pour les chefs d’État…», cit., 236-241.
7 Citato da E. Lohse, L’ambiente del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 19933, 125.
8 Secondo un’interpretazione abbastanza comune, nel libro dell’Apocalisse, simboleggiato nelle due «bestie» al servizio di Satana sarebbe l’Impero romano; tuttavia, il messaggio finale non è un incitamento alla rivolta, ma un invito alla preghiera e a confidare nell’intervento divino escatologico (cfr G. RAVASI, «Chiesa e Stato nell’Apocalisse», in Communio, 2000, n. 185, 9-20).
9 Cfr C. Spicq, Saint Paul. Les Épîtres Pastorales, cit., 356.
10 Cfr C. Marcheselli-Casale, Le lettere pastorali. Le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, Bologna, EDB, 1995, 152 s.
11 Non è da pensare che qui il discorso si restringa grettamente alla comunità cristiana, come se all’autore interessasse soltanto il bene di questa (così S. LÉgasse, «La prière pour les chefs d’État…», cit., 245).
12 Interpretazioni di questo passo nel senso di un cristianesimo accomodante, disposto a venire a compromessi con le autorità civili «pur di vivere in santa pace», sono del tutto fuori posto (cfr C. Marcheselli-Casale, Le lettere pastorali.., cit., 156, nota 67).
13Ivi, 161.
14 Infatti non lo si trova nel Lezionario Romano, né festivo né feriale. Là dove c’è la lectio continua della Lettera ai Romani (28a-31a settimana del Tempo ordinario), questo passo è stato omesso (cfr Ordo Lectionum Missae, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1969, 200).
15 Cfr A. Pitta, Lettera ai Romani. Nuova versione, introduzione e commento, Milano, Paoline, 2001, 442. Il principio della sottomissione alle autorità costituite è ribadito nella Lettera a Tito (3,1-2) e nella Prima Lettera di Pietro (2,13-17).
16Ivi, 445.
17 Testo in Sources Chrétiennes, vol. 167, a cura di A. Jaubert, Paris, Cerf, 1971, 198-200 (tr. nostra).
18 Cfr Sal 20,10 [19,10b LXX]: «[…] e ascoltaci nel giorno in cui ti invocheremo».
19 Cfr Sal 115,16: «I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell’uomo».
20 Cfr Sal 8,5-7 [LXX]: «Che cosa è l’uomo, perché di lui ti ricordi / o un figlio d’uomo, perché lo visiti? Lo hai fatto di poco inferiore agli angeli / di gloria e di onore lo hai coronato / e lo hai costituito sopra le opere delle tue mani, / tutto hai sottomesso sotto i suoi piedi».
21 Cfr Sap 9,9: «Con te è la sapienza che conosce le tue opere […]; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti».
22 Sui termini usati, cfr S. LÉgasse, «La prière pour les chefs d’État…», cit., 251.
23 Cfr la più antica preghiera di ordinazione episcopale che noi conosciamo, contenuta nella Tradizione apostolica di Ippolito Romano e che risale al III secolo (cfr E. Cattaneo, I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Milano, Paoline, 1997, 658 s).
24 Cfr E. Peretto, «Clemente Romano ai Corinzi. Sfida alla violenza», in Vetera Christianorum 26 (1989) 89-114.
25 Cfr Sap 7,1: «Anch’io sono un uomo mortale come tutti, discendente dal primo essere plasmato di creta».
26 GIUSTINO, Apologia, I 17, 3; ATENAGORA, Supplica, 37; TERTULLIANO, Apologeticum, 30, 4; 39, 2; IPPOLITO, In Danielem, 3, 22-24; ORIGENE, Contro Celso, 8, 73-74; Acta proconsularia Cypriani, 1; EUSEBIO, Storia ecclesiastica 7,1; 10, 8, 10. Su questi testi e altri ancora, cfr P. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies latines anciennes. Témoignages patristiques et textes liturgiques, Münster – Westfalen, Aschendorff, 1977, 3-113.
27 Sul senso di questa «domanda fondamentale», cfr C. Giraudo, «In unum corpus». Trattato mistagogico sull’Eucaristia, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001, 318-324.
28 Ambrogio, De sacramentis 4, 14 [SCh 25bis, 109]. Questo passo è oggetto anche di un’interpretazione diversa: cfr P. De Clerck, La «prière universelle», cit., 101-103.
29 C. Giraudo, «In unum corpus…», cit., 329.
30 «…et famulo tuo ill. imperatore nostro cum coniuge sua et prole» (A. Hänggi – I. Pahl, Prex eucharistica, Fribourg [Suisse], Éd. Universitaires, 1968, 449). Tuttavia, almeno a partire da Pio IX questa menzione è stata omessa, come appare dalla editio typica del Missale Ambrosianum del 1902, 175.
31 «…con menti pure facciamo, ben accetti a Dio, sacrifici di espiazione, che offriamo per tutto il popolo cristiano e per la salvezza del gloriosissimo imperatore» (in A. Hänggi – I. Pahl, Prex eucharistica, cit., 429).
32 «Ricordati (memento), o Dio, del nostro re, con tutto il popolo» (cfr L.C. Mohlberg – P. Siffrin, Liber Sacramentorum [Sacramentarium Gelasianum], Roma, Herder, 1960, 184). Manca invece nell’Ordo missae del Sacramentario Gregoriano (cfr J. Deshusses, Le Sacramentaire Grégorien, vol. I, Fribourg [Suisse], Éd. Universitaires, 19792, 87 [5]). Il codice di Saint-Gall del IX secolo ha questa variante dell’Hanc igitur: «Accetta, Signore, con benevolenza questa offerta che ti presentiamo per i nostri re e prìncipi, per lo stato del regno dei Franchi e per tutto il popolo cristiano» (ivi, 687).
33 «Ricordati, Signore, del nostro imperatore piissimo e amante di Cristo, della sua regina pia e amante di Cristo, di tutta la corte e del suo esercito, e dell’aiuto dal cielo e delle loro vittoria: prendi l’armatura e lo scudo e sorgi in suo aiuto, sottometti a lui ogni nazione ostile e barbara che vuole la guerra, regola i suoi piani, affinché conduciamo una vita quieta e tranquilla in ogni pietà e dignità (1 Tm 2,2)» (A. Hänggi – I. Pahl, Prex eucharistica, cit. 252 [tr. di C. Giraudo, «In unum corpus», cit., 301]).
34 Cfr P. De Clerck, La «prière universelle», cit., 125-144.
35 Cfr L.C. Mohlberg – P. Siffrin, Liber Sacramentorum [Sacramentarium Gelasianum], cit., 65 s [n. 406 s]; J. Deshusses, Le Sacramentaire Grégorien, cit., 177 s [n. 344 s].
36 Cfr M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Missale Romanum. Editio princeps (1570). Edizione anastatica, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1998, 247 [n. 1231 s].
37 Conferenza Episcopale Italiana, Messale Romano riformato, ivi, 19832, 151. Notiamo che qui la preghiera per i governanti, essendo estesa a tutti, sta al nono posto (su 10), mentre nei messali precedenti era al quarto posto, dopo la preghiera per i vescovi e i ministri della Chiesa, perché era solo per i re cristiani.
38 Cfr L. C. Mohlberg – P. Siffrin, Sacramentarium Veronense, Roma, Herder, 1956, 77 [n. 604]; Id., Liber Sacramentorum [Sacramentarium Gelasianum], cit., 217 s [nn. 1505-1509]; J. Deshusses, Le Sacramentaire Grégorien, cit., 424-428 [nn. 1266-1279]. Quest’ultimo comprende anche una missa cotidiana pro rege, nonché due prefazi per la missa pro rege [n. 1719 s] e una benedictio super regem [n. 1789]. In una di queste orazioni, compare l’idea che l’impero romano è stato una preparazione alla predicazione del Vangelo (Deus, qui praedicando aeterni regni evangelio romanum imperium praeparasti…): Sacramentarium Gelasianum, cit., n. 1509; Le Sacramentaire Grégorien, cit., n. 1269.
39 Ci sono anche formulari «per la patria o per la comunità civile», «per le autorità civili», «per gli organismi soprannazionali», «per il progresso dei popoli», «per la pace e la giustizia», «per la riconciliazione», «in tempo di guerra o di disordini» (Messale Romano riformato, cit., 804-810).
40 È quello che afferma sant’Agostino, quando dice che «è proprio della città terrena prestare culto a Dio o agli dèi per ottenere con il loro aiuto di regnare nelle vittorie e nella pace terrena», mentre «nella religione bisogna cercare la vita eterna» (La città di Dio, 15, 7, 1.33).