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Un recente libro di memorie scritto da Marion Dönhoff[1], la mitica «contessa rossa», fondatrice e per molti anni direttrice del settimanale tedesco Die Zeit, ripropone all’attenzione degli storici uno dei problemi non ancora interamente risolti della storia del secolo appena passato: quello cioè riguardante la resistenza a Hitler in Germania durante il nazismo. Il libro non soltanto racconta le vicende che prepararono l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, ma offre pregevoli ritratti di uomini coraggiosi e di alto spessore morale che in quei tempi difficili, e a rischio della propria vita, osarono sfidare Hitler e il suo regime semplicemente con la forza del loro spirito. Sono i membri del «circolo di Kreisau», quasi tutti di origine aristocratica, che ebbero una parte non secondaria nella preparazione dell’attentato a Hitler del 20 luglio. Questo libro aggiunge la testimonianza di una delle protagoniste di quelle vicende alla già abbondante, ma in qualche punto lacunosa, letteratura su tale tema. In questo articolo tratteremo le vicende della resistenza a Hitler e al nazismo in Germania, facendo riferimento al recente libro della Dönhoff, ma anche ad altri importanti studi sulla materia.
Hitler e i tedeschi
Fino a qualche tempo fa la storiografia sul nazismo era pressoché unanime nel sostenere che durante i 12 anni di dittatura nazista in Germania non c’era stata alcuna forma di opposizione al regime hitleriano, nessuna forma di protesta organizzata contro l’instaurazione di un regime che, col passare del tempo, palesava sempre più il suo folle progetto di dominio, nel segno di un pangermanismo razzista e neopagano.
Anche se il consenso al regime hitleriano non fu così unanime come spesso si crede, va detto però che almeno nei suoi primi cinque o sei anni di vita esso ebbe l’appoggio di larghe fasce della società civile e del mondo militare. Hitler, per i successi che aveva ottenuto in politica interna ed estera in quei primi anni di governo, era idolatrato dal popolo tedesco, considerato come il «salvatore» della nazione, ed era rispettato e temuto dall’esercito: egli infatti aveva lavato «l’onta di Versailles» e liberato la Renania dall’umiliante occupazione straniera; aveva ricostituito e riarmato l’esercito, nonostante i limiti posti dal trattato del 1918, facendone uno dei più moderni e meglio equipaggiati d’Europa. In economia il nuovo regime aveva raggiunto l’insperato obiettivo della piena occupazione: vero miracolo economico per una Germania che da anni aveva conosciuto soltanto la disoccupazione e le dure e pesanti ristrettezze di vita imposte dalla crisi economica. Hitler aveva ridato fiducia ai tedeschi e aveva fatto rinascere il loro orgoglio nazionale. Uno dei suoi primi obiettivi politici fu di riunificare tutti i popoli di lingua e cultura tedesca in un solo Reich: nel 1938 occupò — senza neppure sparare un colpo, come egli stesso affermò — l’Austria e subito dopo, con la colpevole connivenza delle grandi potenze europee, non soltanto il territorio dei Sudeti, ma persino l’intera Cecoslovacchia. Vienna e Praga da capitali di importanti Stati europei furono declassate a città periferiche, a semplici capoluoghi del nuovo impero teutonico. La Germania così non soltanto ritornava, come ai tempi di Sedan (1870), ad essere una nazione rispettata in Europa e nel mondo, ma anche temuta. E questo, sia per il tedesco medio sia per la classe militare, che aveva perduto molto del suo antico prestigio, non era cosa da poco. Ciò non significa però che in Germania non vi fossero già in quei primi anni di regime piccoli nuclei di resistenza, costituiti per lo più da esponenti di quei partiti politici, come il Zentrum, che Hitler, una volta conquistato saldamente il potere, aveva fatto dichiarare fuori legge.
Con l’intensificarsi della persecuzione religiosa furono poi le Chiese, sia quella luterana sia quella cattolica, a guidare, almeno dal punto di vista morale, l’opposizione al nazismo, considerato da esse il maggior nemico del cristianesimo. Questo dissenso, motivato da alti valori morali e religiosi, sebbene non fosse pubblico e organizzato, nondimeno fu molto attivo e quindi temuto e osteggiato in tutti i modi dal regime. In ambito cattolico ricordiamo per esempio il gruppo della «Rosa Bianca» di Monaco: organizzazione di studenti che scelsero la carta stampata — distribuivano volantini antinazisti davanti alle Università — per difendere la fede minacciata e i diritti umani calpestati da un regime che consideravano idolatrico ed efferato; molti di essi pagarono con la vita il proprio giovanile coraggio.
In generale l’opposizione al nazismo non fu un dissenso organizzato o popolare, come avvenne in Italia col fascismo; esso, al contrario, si espresse attraverso iniziative isolate portate avanti da piccoli gruppi indipendenti. Soltanto qualche volta gli attivisti di queste piccole cellule di dissidenza entrarono in contatto tra loro. Va ricordato inoltre che la loro matrice culturale e sociale di provenienza era la più varia: c’erano ex sindacalisti, vecchi attivisti socialisti o di altri partiti della sinistra, cristiani impegnati ed ex popolari; tra essi c’erano poi militari scontenti per quanto era accaduto nell’esercito, aristocratici e intellettuali preoccupati del degrado morale della nazione e del suo futuro. Ma quali furono i centri più importanti e attivi nell’organizzare la resistenza al regime hitleriano? Secondo la Dönhoff essi fondamentalmente furono due: uno «militare» (molto potente e attivo, ma dominato dai pregiudizi propri di questa casta) e uno «civile».
La dissidenza militare nei confronti del nazismo
Come è noto, quasi tutti i tentativi di colpo di Stato e gli attentati contro Hitler furono meticolosamente pianificati e organizzati da piccoli gruppi di militari dissidenti. Questi piani furono numerosi (alcuni storici ne contano più di 60), ma sempre condannati all’insuccesso, ora per l’indecisione e la debolezza dei congiurati, ora perché all’ultimo momento Hitler stesso, come era sua abitudine, modificava il programma delle sue uscite o visite. Era come se uno «spirito malefico», è stato detto, vigilasse sulla sua vita. Una delle accuse, mosse ai congiurati dopo la guerra, fu di aver fatto troppo poco e di aver agito in ritardo, quando cioè tutto era ormai perduto per la Germania. In realtà le prime congiure contro Hitler iniziarono prima dell’invasione della Cecoslovacchia. Già nel 1938, infatti, i congiurati avevano preparato piani per arrestare il dittatore e portarlo davanti ai giudici per rispondere dei suoi delitti, e soprattutto molto fu tentato per scongiurare la guerra. Il primo nucleo operativo di congiurati si riunì intorno ai generali L. Beck, F. Olbricht, H. von Tresckow. Essi fin dal 1938 ritenevano che per salvare la Germania e conservare la pace in Europa fosse necessario eliminare fisicamente Hitler o impedirgli in ogni caso di agire. In seguito, punto di riferimento dei militari congiurati furono il colonnello C. von Stauffenberg e il generale H. Oster dell’Abwehr (cioè il controspionaggio), uomo di fiducia dell’ammiraglio W. Canaris, capo della stessa Abwehr e figura di riferimento dei gruppi di Resistenza al nazismo. Nel corso della guerra il consenso degli ufficiali alla resistenza si ampliò a macchia d’olio, creando una rete del dissenso molto estesa e ben ramificata nei vari gangli dell’amministrazione militare e civile.
Ma quali furono le motivazioni specifiche che spinsero numerosi alti ufficiali «prussiani» a congiurare contro il proprio capo? Esse furono di ordine professionale o funzionale, ma anche di natura morale, spirituale e religiosa. Anzitutto una larga parte degli ufficiali aveva mal tollerato il modo — scorretto, autoritario e contrario alla tradizione militare del disciplinato esercito prussiano — con cui Hitler si era «impadronito» delle massime cariche dell’esercito, che egli considerava, non senza fondamento, ostile alle sue mire espansionistiche e alle sue idee sul modo di condurre la guerra. Egli voleva che i capi della Wehrmacht obbedissero ciecamente ai suoi ordini; che i suoi generali non ostacolassero, adducendo motivazioni di natura tecnica o dettate da prudenza o da scrupoli morali, i suoi piani di unificazione della «Grande Germania» e di espansione a est dello spazio vitale del Reich, anche a costo di una nuova guerra mondiale, come di fatto poi avvenne. Hitler si impossessò del comando supremo delle forze armate attraverso diversi passaggi accuratamente studiati e messi in opera dai suoi fedelissimi.
I primi focolai di dissenso attivo si costituirono clandestinamente all’interno dell’esercito nel periodo in cui Hitler preparava i piani di invasione della Cecoslovacchia. Nell’autunno del 1938 il generale Beck, capo di stato maggiore, rassegnò le dimissioni dalla sua carica, a motivo dell’ostinato rifiuto del Führer di prendere in considerazione il suo punto di vista sulla questione dei Sudeti. In questo modo — scrive la Dönhoff — «scomparve dalla direzione delle forze armate l’ultima persona capace di giudizio»[2]. Dopo questo fatto, Beck divenne il motore della resistenza a Hitler e il capo «militare» dei congiurati. Il loro punto di riferimento «civile» era invece il borgomastro di Lipsia C. Goerdeler, anche nella prospettiva di preparare un autorevole successore a Hitler. Questo fu il periodo in cui si prepararono, in ambiente militare, i primi seri tentativi di colpo di Stato, tendenti anche all’eliminazione fisica di Hitler, tutti falliti per diversi motivi.
L’attività cospirativa dei militari riprese poi nel 1943, quando a molti risultava ormai chiaro che i piani di guerra ideati da Hitler erano assolutamente sconclusionati e folli, e i metodi di lotta previsti feroci e disonorevoli per l’esercito tedesco. A questo punto l’obiettivo del colpo di Stato e dell’eliminazione fisica del dittatore appariva a molti ufficiali innanzitutto come un dovere morale imposto dalle circostanze, necessario per tutelare l’onore della nazione davanti al mondo civile e alla storia. Nel marzo 1943 il gruppo di militari riuniti nella sezione «Gruppo d’Armate Centro» organizzarono, a pochi giorni di distanza, due attentati a Hitler, che fallirono per motivi estranei alla volontà degli attentatori. Nonostante questi tentativi andati a vuoto, i militari dissidenti non desistettero dall’idea di organizzare un colpo di Stato; al contrario, col passare del tempo in essi cresceva sempre più la determinazione sulla necessità di porlo in essere e al più presto. A questo proposito, nell’estate del 1944 von Tresckow, dello stato maggiore del «Gruppo d’Armate Centro», disse: «L’attentato va fatto coûte que coûte […]. Non conta più lo scopo pratico, ma mostrare al mondo e alla storia che il movimento tedesco ha osato fare, con sprezzo della vita, un ultimo e decisivo gesto»[3]. Il colpo di Stato andava assumendo un significato sempre più simbolico nella mente di coloro che lo organizzavano, tendente cioè al riscatto morale e spirituale della nazione; a questo punto il gruppo dei dissidenti militari incontra quello dell’«opposizione civile» e, in particolare, il cosiddetto «circolo di Kreisau», costituito da intellettuali di estrazione aristocratica, impegnati nell’elaborare progetti di rinnovamento in senso cristiano e socialista di una nuova Germania, quella cioè senza Hitler.
La resistenza al nazismo, gli Alleati e il Vaticano
I militari dissidenti si attivarono non soltanto nell’organizzare colpi di Stato o preparare attentati contro Hitler — che però come si è detto, per una qualche ragione, puntualmente fallivano —, ma pure nel cercare appoggi alla loro azione cospirativa anche fuori della Germania. A partire dall’estate 1938 infatti essi inviarono all’estero numerosi emissari in «missione speciale»: così nel giro di pochi mesi svilupparono una sorta di diplomazia clandestina, che aveva come scopo di trovare nelle grandi democrazie europee solidi punti di appoggio alla loro delicata e pericolosa azione interna contro il regime. A questo scopo essi inviarono emissari in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e perfino in Vaticano.
Scopo principale delle missioni del 1938 era di denunciare alle cancellerie europee il piano di aggressione alla Cecoslovacchia già preparato da Hitler e, quindi, ottenere da esse pubbliche dichiarazioni di minaccia, che avrebbero avuto come risultato, secondo i dissidenti, il blocco dei preparativi di guerra. Già ai primi di marzo e poi anche in aprile Goerdeler (uno dei maggiori capi della resistenza civile) si era recato a Parigi per incontrare un alto funzionario del Ministero degli Esteri, A. Léger, dal quale però ottenne soltanto assicurazioni generiche e non impegnative. In realtà, i funzionari francesi temevano di cadere in una trappola ordita dai tedeschi: infatti sembrava loro strano che ufficiali «prussiani» informassero una potenza straniera sui piani operativi di guerra preparati dal loro capo. Anche a Londra Goerdeler fu accolto con freddezza e ascoltato con diffidenza; qui addirittura R. Vansittart, primo consigliere del ministro degli Esteri inglese, lo accusò di essere un traditore della sua patria. Questo fatto getta una luce significativa sull’Europa di allora, prigioniera dei suoi pregiudizi nazionalistici. Altri emissari furono poi inviati da Oster e da Beck nei mesi successivi con la stessa richiesta, senza però ottenere risultati concreti.
Più fortunata fu la missione del dott. Theo Kordt, consigliere presso l’ambasciata tedesca a Londra, al quale il messaggio fu inviato attraverso una sua cugina, che lo aveva imparato a memoria. Il 5 settembre Kordt fu ricevuto dal ministro degli Esteri lord Halifax; l’interlocutore iniziò la sua conversazione dicendo: «Se nel 1914 l’allora ministro degli esteri sir E. Gray avesse preso una posizione decisa, e avesse messo in evidenza che la Gran Bretagna si sarebbe schierata con la Francia, probabilmente si sarebbe evitata la guerra»[4]. E ora la situazione era la stessa. Halifax promise di informarne il Primo Ministro, dando al suo interlocutore l’impressione di aver centrato nel segno. In realtà il primo ministro A. N. Chamberlain e il suo Governo avevano già deciso di consegnare il territorio dei Sudeti a Hitler, come di fatto fu poi concordato alla Conferenza di Monaco. In questo modo, acquietando gli appetiti del dittatore tedesco, gli inglesi pensavano di evitare una nuova guerra europea. Nel frattempo Hitler, approfittando della condiscendenza delle potenze europee, aveva occupato non soltanto il territorio dei Sudeti, ma l’intera Cecoslovacchia, entrando da vincitore a Praga.
Ancor prima dell’invasione della Polonia da parte delle armate della Wehrmacht, i militari dissidenti si impegnarono ancora una volta nel tentativo di dimostrare a Hitler, contrariamente alla tesi sostenuta dal suo ministro degli Esteri J. von Ribbentrop, che le democrazie europee avrebbero reagito vigorosamente all’invasione tedesca della Polonia. Per sostenere la loro tesi, i militari inviarono in Gran Bretagna durante l’estate 1939 il tenente colonnello conte U. von Schwerin per saggiare su questo tema lo stato d’animo e le intenzioni degli inglesi e preparare poi una relazione dettagliata sulla questione da presentare al Führer. In aggiunta, il conte doveva segretamente prendere contatti con ambienti governativi e convincerli a trattare Hitler con durezza; il messaggio da consegnare diceva: «Fate incrociare davanti a Danzica una squadra, fate vedere al capo dell’aviazione tedesca una flotta aerea nuova di zecca, stringete un patto militare con l’Unione Sovietica. Solo il pericolo di una guerra su due fronti può trattenete Hitler da altre avventure»[5]. In realtà le cose andarono diversamente: infatti Hitler stesso in quella medesima estate stipulò un patto di amicizia con l’Unione Sovietica. In ogni caso von Schwerin non ottenne nulla: gli inglesi non vollero ascoltarlo. Anche la relazione da presentare a Hitler fu preparata, ma non arrivò mai sul tavolo del dittatore.
Anni dopo, a partire dall’estate del 1942, furono alcuni esponenti del «circolo di Kreisau» a recarsi all’estero per cercare di convincere le cancellerie europee sulle reali intenzioni dei gruppi dissidenti tedeschi o a inviare loro dettagliate relazioni informative, di cui spesso si fecero latori uomini di Chiesa. Uno dei più attivi in questo senso fu A. von Trott, che aveva studiato a Oxford e aveva numerosi contatti con la classe politica inglese. Egli nel giugno del 1942, attraverso un alto esponente della Chiesa olandese, fece pervenire al ministro degli Esteri inglese, A. Eden, un memorandum, nel quale si chiedeva che non tutto il popolo tedesco fosse ritenuto responsabile di quanto stava accadendo e che si distinguesse tra tedeschi e nazisti. Eden rispose di ritenere inutili tali interpretazioni volte a distinguere responsabilità, che egli al contrario reputava collettive. Questa fu anche la risposta che alcuni «emissari» dell’opposizione inviati negli Stati Uniti si sentirono dare da alcuni autorevoli membri del Governo di Washington: per questi signori, i tedeschi erano tutti nazisti e conniventi con Hitler, e in Germania non esisteva alcuna forma di opposizione, neppure clandestina, al regime. Tale posizione assunta dagli Alleati in quegli anni fece da sfondo «ideologico» alle decisioni prese alla Conferenza interalleata di Casablanca del gennaio 1943, la quale pretese dalla nazione tedesca, e non soltanto dal suo dittatore, una resa totale e incondizionata. Questa decisione fu un duro colpo per tutti quelli che clandestinamente e a costo della loro vita lavoravano per rovesciare il regime, per eliminare Hitler, per dare un nuovo corso alle terribili vicende della guerra; d’ora in avanti la loro lotta contro il nazismo era destinata ad assumere soltanto un valore di denuncia morale, un fatto di coscienza e niente di più.
Come mai l’atteggiamento assunto dalla Gran Bretagna, in particolare nei confronti dei dissidenti tedeschi, fu fin dall’inizio di rigida chiusura e di assoluta indisponibilità a collaborare? I suoi uomini di governo infatti si ostinarono fino alla fine a non voler vedere o prendere in considerazione ciò che veniva loro posto insistentemente sotto gli occhi da uomini spesso disinteressati e di alto profilo morale. La ragione va cercata nella strategia dell’appeasement seguita in quegli anni dal Governo di Londra. Fu proprio questo lo scoglio contro cui si infransero tutti gli sforzi dei dissidenti. Il Governo inglese voleva in tutti i modi evitare una nuova guerra europea e fu per questo che prima acconsentì all’annessione dell’Austria da parte del Reich tedesco e poi permise obtorto collo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe di Hitler. Un nuovo conflitto infatti avrebbe logorato il Paese, già duramente provato dalla passata esperienza della prima guerra mondiale, messo in ginocchio l’economia nazionale e soprattutto reso inevitabile il tracollo dell’impero. Scrive a questo proposito e con ragione J. Fest: «Chamberlain non era un pacifista sentimentale, e nelle sue riflessioni c’era più realismo, anche maggior calcolo di quanto in seguito gli sia stato riconosciuto»[6]. Egli era convinto che una politica di cauta condiscendenza, fatta di piccoli passi, avrebbe alla fine avuto un effetto disarmante su Hitler e che, una volta unificati i territori di lingua e cultura germanica, il dittatore tedesco si sarebbe fermato. Il premier inglese si sbagliava però nel considerare il suo collega tedesco come un politico capace di realismo e di buon senso. Egli non sapeva, e forse a quel tempo non poteva ancora saperlo, che dietro la facciata dell’uomo di Stato si nascondeva in realtà un folle, un criminale dominato da deliri di onnipotenza.
Come si è detto prima, gli emissari dei dissidenti tedeschi arrivarono persino in Vaticano. Ciò avvenne a cavallo tra il 1939 e il 1940. Il solito generale Oster, su richiesta del suo superiore ammiraglio Canaris, inviò in Vaticano l’avvocato bavarese J. Müller, cattolico praticante e uomo di notevoli capacità intellettuali. Il suo compito era di accertare, prendendo contatto con l’ambasciatore inglese presso la Santa Sede e se possibile attraverso l’intermediazione del Papa, se gli avversari della Germania sarebbero stati disposti a patteggiare condizioni di pace con un Governo tedesco che avesse rovesciato Hitler.
Pio XII, contrariamente a quanto si sarebbe creduto — dopo lunga riflessione e chiedendo che la Segreteria di Stato fosse tenuta estranea alla trattativa —, si disse disponibile a mettere in contatto le due parti e a spendere parole di incoraggiamento per la buona riuscita dell’incontro. A tale scopo egli ricevette segretamente due volte l’inviato inglese Osborne. «Per il Papa — scrive R. Moro — si trattava di un piano rischiosissimo: essere coinvolti in una congiura per eliminare un tiranno significava non solo esporre se stessi e i suoi collaboratori ai rischi che corrono i cospiratori, ma mettere a repentaglio molto della vita cattolica in Germania, Austria, Polonia, forse Italia»[7]. Ma perché Pio XII, di solito così prudente e riservato nelle questioni politiche, accettò un incarico così rischioso per sé e per la Chiesa? Così facendo, egli sperava di impedire che la guerra si estendesse su tutto il fronte occidentale, pensando che, se si voleva la pace in Europa, bisognasse in qualche modo rovesciare il nazismo. Egli però fu contrario al tirannicidio: gli fu data assicurazione che, in caso di colpo di Stato, Hitler sarebbe stato semplicemente incarcerato e poi processato per i suoi delitti. In quelle udienze il Pontefice comunicò all’inviato inglese la notizia che nel giro di poco tempo sarebbe iniziata un’offensiva tedesca a partire dall’Olanda, «violenta — disse il Papa —, aspra e assolutamente priva di scrupoli»[8]. Quanto detto prova con sufficiente chiarezza come il Papa detestasse il nazismo e per questo facesse tutto ciò che era in suo potere per contrastare Hitler, le sue idee e i suoi folli progetti di guerra.
Lo spirito di Kreisau
Il polo della dissidenza civile al nazismo era costituito a Berlino dagli aderenti al cosiddetto «circolo di Kreisau», che si riunivano intorno ad alcune figure di aristocratici di alto spessore morale, spirituale e religioso, quali erano appunto il conte H. von Moltke e il conte P. Yorck von Wartenburg. Se von Moltke fu il «motore» del circolo di Kreisau, P. Yorck, è stato detto, ne fu invece il «cuore». Del circolo facevano parte diversi intellettuali (alcuni di idee conservatrici, altri di idee cristiano-sociali), teologi riformati (come D. Bonhoeffer e E. Gerstenmaier) e alcuni gesuiti (i padri A. Delp, A. Rösch e L. König). La maggior parte degli aderenti erano «civili», spesso legati da legami di parentela o da amicizia ad alti funzionari del Reich. Negli ultimi anni esso però fu frequentato anche da diversi ufficiali dissidenti, tra cui L. Beck e C. von Stauffenberg. La maggior parte dei componenti del circolo ritenne loro compito — in quegli anni in cui tutte le libertà erano state negate e abolite — lavorare, anche se clandestinamente, per il rinnovamento morale, politico ed economico della nazione tedesca e preparare la Germania al dopo Hitler. A tale scopo essi elaborarono numerosi progetti che avevano come principale obiettivo la rinascita della democrazia nel Paese.
Va ricordato che questo gruppo di oppositori non organizzò attentati e neppure colpi di Stato, anche se alcuni di essi si attivarono per cercare all’estero appoggi all’attività cospirativa dei militari: essi ritenevano che fosse esclusivamente compito di questi ultimi portare a termine le operazioni. In realtà, tra i membri del «circolo di Kreisau», non c’era pieno accordo sul ricorso al «tirannicidio» come mezzo per rovesciare un regime liberticida. Sia von Moltke sia Yorck ritenevano contrario alle loro idee religiose il progetto di eliminare fisicamente Hitler per salvare la Germania e soltanto negli ultimi tempi — dopo essere venuti a conoscenza dei massacri perpetrati dai gruppi speciali nei territori di occupazione e delle camere a gas per l’uccisione in massa degli ebrei — cambiarono posizione su questo punto: meglio sacrificare una persona sola, essi pensavano, che lasciare che essa ordini l’uccisione di una moltitudine di persone. Tali problemi di carattere morale esistevano anche tra alcuni componenti della dissidenza militare. Ad esempio, H. von Haeften — uno dei maggiori artefici dell’attentato a Hitler del 20 luglio — continuò sino alla fine a sentirsi angosciato dall’idea dell’attentato. Scrive Fest: «L’ostacolo costituito dal giuramento, i princìpi etici e soprattutto gli scrupoli religiosi lo avevano rinchiuso in una prigione mentale dalla quale non riuscì mai a liberarsi»[9]. Va ricordato ancora che militari integerrimi come Beck o come Steltzer (che pure si alimentarono allo «spirito di Kreisau») approdarono alla Resistenza spinti dalla loro fede cristiana: in tal modo, cioè congiurando contro il dittatore, essi credevano di salvare non soltanto il proprio Paese dalla rovina e dalla vergogna, ma anche la loro anima.
C. von Stauffenberg, il quale fu tra coloro che misero in atto l’attentato del 20 luglio, era forse il più convinto della giustezza di quanto si stava organizzando per rovesciare il nazismo; egli era cattolico praticante e amico di numerosi prelati tedeschi, tra i quali il vescovo di Berlino K. von Preysing, e di alcuni influenti gesuiti. Egli considerava il giuramento militare fatto a Hitler mille volte infranto dallo stesso dittatore a motivo delle atrocità da lui ordinate ai suoi ufficiali. Non ebbe più dubbi sulla «necessità di agire al più presto» da quando, per ragioni di ufficio, venne a conoscenza di un ordine di E. Kaltenbrunner che disponeva «per 40 o 42 mila ebrei ungheresi il “trattamento speciale” di Auschwitz»[10]. Da questo, nonché dagli stessi argomenti etico-religiosi richiamati dagli altri membri del circolo, traeva la certezza morale della legittimità del tirannicidio. Così chiese di essere incaricato egli stesso dell’esecuzione dell’attentato. C. von Stauffenberg, inoltre, considerava Hitler come l’incarnazione dello spirito del maligno nella storia umana; perciò la sua eliminazione avrebbe riaffermato, come in un duello apocalittico, la vittoria del bene sul male.
In quale momento i componenti del «circolo di Kreisau» entrarono in contatto con il gruppo dei militari dissidenti? Fermo restando che tra i due gruppi esistevano già prima contatti, anzi c’erano ufficiali che facevano parte sia dell’uno sia dell’altro gruppo, fu però l’arresto di due importanti esponenti dell’«opposizione civile» ai primi del luglio del 1944 — il dirigente socialista J. Leber e A. Reichwein, traditi da una spia comunista — a indurre i membri del circolo a collaborare con i militari prima che fosse troppo tardi per tutti. Si temeva infatti che la Gestapo alla fine sarebbe riuscita a estorcere agli arrestati, mediante la tortura, i nomi dei loro collaboratori e quindi a mettere le mani sui gruppi di dissidenti militari e civili, e questo avrebbe mandato a monte tutti i piani di congiura già predisposti. Era tempo quindi di agire, e bisognava farlo al più presto. Come è ormai noto, l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 fu preparato e deciso da alcuni alti ufficiali dell’Oberkommando der Wehrmacht (OKW) e la sua direzione ed esecuzione furono affidate al colonnello von Stauffenberg.
L’attentato, anche se minuziosamente preparato e condotto con coraggio e determinazione dai congiurati, fallì: troppe cose andarono diversamente dal previsto. La carica esplosiva portata da von Stauffenberg all’interno del bunker dove si teneva l’incontro tra Hitler e i suoi ufficiali, nella «tana del lupo» di Rastenburg, e messa a pochi metri dal luogo dove era seduto il dittatore esplose ferendo gravemente alcuni presenti, ma Hitler ne uscì indenne. Intanto la programmata operazione «Valchiria», che doveva collegare tra loro i «centri» che aderivano alla congiura, iniziò a funzionare con eccessivo ritardo e sbagliando alcuni importanti obiettivi, tanto che gli ordini inviati dagli ufficiali congiurati furono preceduti da quelli del Führer e dei suoi generali, che nel frattempo erano riusciti a riprendere in mano la situazione e a impedire con determinazione il colpo di Stato. Quella notte stessa i capi dei congiurati, riuniti nell’Oberkommando der Wehrmacht a Berlino, dove era giunto anche il colonnello von Stauffenberg in aereo, per coordinare il colpo di Stato, furono arrestati e immediatamente fucilati come traditori.Nella tarda serata del 20 luglio Hitler stesso si era rivolto con un discorso radiofonico al popolo tedesco, dicendo che «una piccolissima cricca di ufficiali ambiziosi e irresponsabili» aveva tentato di eliminarlo insieme al suo stato maggiore, ma che «la provvidenza» anche questa volta lo aveva salvato. Egli prometteva, inoltre, che questa volta avrebbe agito contro i responsabili della congiura «come noi nazionalsocialisti siamo abituati a fare». Dei processi contro i congiurati fu incaricato il Volksgerichtshof, e Hitler stesso indicò al suo presidente il modo come eseguire le sentenze: «Voglio che siano impiccati — disse — come bestiame da macello». Le prime sentenze furono eseguite l’8 agosto e i condannati furono impiccati, come il dittatore aveva chiesto, a ganci da macello a Plötzensee.
Esemplari furono le testimonianze rese in aula da alcuni «dissidenti» durante il processo che veniva filmato, come pure le esecuzioni. Fra tutte ricordiamo quella del borgomastro di Lipsia, Goerdeler, il quale difese con forza e coraggio il lavoro condotto per anni dalla Resistenza sia civile sia militare; egli in quella occasione fece nomi illustri, raccontò vicende ecc. Per lui, scrive il suo biografo G. Ritter, il 20 luglio non fu semplicemente un colpo di Stato intrapreso da alcuni isolati ufficiali, ma si trattò «della sollevazione di un popolo intero, rappresentato dalle menti migliori e più nobili di tutti i ceti, di tutti i partiti dalla destra alla sinistra e di entrambe le Chiese cristiane»[11].
Conclusione
In realtà la versione dei fatti data da Hitler la sera del 20 luglio fu accettata per buona non soltanto dalla stampa tedesca, ma anche da quella internazionale, compresa quella alleata. Nei loro comunicati le cancellerie europee ripeterono quello che il dittatore tedesco aveva certificato per la storia: la congiura era stata preparata da una «piccolissima cricca di ufficiali ambiziosi». Tale leggenda fu anche ripetuta subito dopo la guerra: gli Alleati in effetti avevano interesse, per motivi squisitamente politici, ad avvalorare la tesi (sostenuta innanzitutto da Hitler) che durante il nazismo non c’era stata in Germania nessuna forma di resistenza e di opposizione al regime, per cui tutti i tedeschi indistintamente andavano considerati nazisti e quindi trattati allo stesso modo. La storiografia sul nazismo, scritta dai vincitori, anche negli anni successivi non si allontanò da questa interpretazione, che sembrava ormai codificata. Le cose cominciarono a cambiate a partire dalla metà degli anni Sessanta; ma soltanto negli ultimi decenni importanti lavori storici ben documentati hanno ribaltato il giudizio storico sulla resistenza al nazismo in Germania e sugli avvenimenti del 20 luglio. Il libro-testimonianza della Dönhoff è un prezioso contributo in questa direzione.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Ma come dobbiamo valutare oggi, anche alla luce delle nuove ricerche storiche, i fatti che abbiamo evocato? Non sono pochi infatti coloro che ancora oggi sostengono che il colpo di Stato del 20 luglio fu un gesto nobile, dal punto di vista morale, ma praticamente inutile dal punto di vista pratico e politico. Forse a questa obiezione, soltanto in parte fondata, si può ribattere: e se il colpo di Stato fosse riuscito, che cosa sarebbe accaduto? Probabilmente poco dal punto di vista strettamente politico — infatti i giochi erano stati già decisi tra gli Alleati alla Conferenza di Yalta nel mese di febbraio 1944, e la divisione della Germania già decisa —, ma molto dal punto di vista umano. È sufficiente esaminare le seguenti statistiche, pubblicate purtroppo soltanto di recente: dal 1° settembre 1939, giorno dell’inizio della guerra, fino al 20 luglio 1944, il numero dei morti in Germania fu di circa tre milioni. Nei dieci mesi che seguirono l’attentato a Hitler fino al termine della guerra (maggio 1945) il numero dei morti salì fino a circa 5 milioni. Vale a dire che in quei mesi morirono circa 17.000 tedeschi al giorno, mentre precedentemente ne morivano 1.588. Si può legittimamente pensare che, se il colpo di Stato fosse riuscito, si sarebbe evitata almeno questa «inutile carneficina» e — probabilmente con la completa «apertura del fronte occidentale» — le cose sarebbero andate diversamente anche sul versante politico. E questo, a nostro avviso, non sarebbe stato poco.
Ricordiamo ancora che la maggior parte delle città tedesche furono selvaggiamente bombardate negli ultimi mesi di guerra, come, ad esempio, Berlino, Ulm, Magonza, Stoccarda e la città smilitarizzata di Dresda, dove morirono sotto le bombe e il fuoco nemico circa 200.000 persone che vi si erano rifugiate per sfuggire all’avanzata dell’esercito russo. L’eliminazione di Hitler e dei suoi gerarchi avrebbe certamente evitato questa immane tragedia a una nazione già prostrata sia moralmente sia economicamente.
Ma gli Alleati avrebbero gradito una soluzione di questo tipo? Qui si apre un altro capitolo oscuro della guerra, che getta una grave ombra sulle responsabilità degli anglo-americani per quanto accadde negli ultimi mesi di guerra. In proposito la Dönhoff ritiene, non senza ragione, che a Churchill non interessasse tanto eliminare Hitler quanto «distruggere una volta per sempre la forza della Germania»[12]. Questo però fu realizzato anche attraverso l’uccisione di molti civili inermi, colpevoli soltanto di essere tedeschi. Anche questi sono crimini che dovevano essere conosciuti e denunciati, come si fa per quelli atrocissimi commessi nei lunghi anni di guerra dai nazisti. Come possiamo dimenticare infatti le molte centinaia di migliaia di persone (la maggior parte delle quali anziani e bambini) uccise dai bombardamenti anglo-americani e dalle loro spaventose «tempeste di fuoco» ordinate soltanto a scopo punitivo, quando la guerra era ormai definitivamente perduta per la Germania?
Vogliamo però concludere riportando le illuminate parole di uno dei maggiori studiosi di questa materia: J. Fest. Secondo questo autore, la «resistenza tedesca non va misurata con il metro dell’inutilità dei suoi sforzi e delle sue speranze inesaudite […]. Essa non ha influenzato il corso della storia, è vero, però ha modificato fondamentalmente il giudizio complessivo su quegli anni […]. Le dichiarazioni di Goerdeler e di altri indicano l’importanza per il buon nome della Germania e per il suo rientro nel novero dei paesi civili, del fatto che il regime nazionalsocialista non solo fu distrutto dall’esterno ma fu anche incrinato dall’interno»[13]. Perciò quel tentativo di rovesciare un regime tirannico e irrispettoso delle più elementari norme di umanità, se sfortunatamente è stato un insuccesso sul piano politico, è stato però un successo sul piano morale. E quest’ultimo conta più di quello, per l’onore dell’umanità.
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[1] Cfr M. DÖNHOFF, Per l’onore. Aristocratici tedeschi contro Hitler (a cura di R. DE MATTEI), Roma, Il Minotauro, 2002. Interessante è l’introduzione del curatore al volume.
[2] Ivi, 21.
[3] J. FEST, Obiettivo Hitler. La resistenza al nazismo e l’attentato del 20 luglio 1944, Milano, Garzanti, 1996, 192.
[4] M. DÖNHOFF, Per l’onore…, cit., 22.
[5] Ivi, 23.
[6] J. FEST, Obiettivo Hitler…, cit., 74
[7] R. MORO, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna, il Mulino, 2002, 110.
[8] Ivi. Su questo tema si veda G. MICCOLI, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano, Rizzoli, 2000; G. ANGELOZZI GARIBOLDI, Pio XII, Hitler e Mussolini. Il Vaticano fra le dittature, Milano, Mursia, 1988.
[9] J. FEST, Obiettivo Hitler…, cit., 219.
[10] Ivi.
[11] G. RITTER, I cospiratori del 20 luglio 1944. Carl Goerdeler e l’opposizione antinazista, Torino, Einaudi, 1960, 87.
[12] M. DÖNHOFF, Per l’onore…, cit., 25
[13] J. FEST, Obiettivo Hitler…, cit., 309.