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La testimonianza enigmatica di Shakespeare
Nel 1999 Shakespeare emerse da un sondaggio della BBC come l’uomo del millennio. Sorge spontanea una domanda: quanti di quei votanti lo conoscevano quale egli era veramente? In qualche modo Shakespeare resta un enigma per tutti, compatrioti e non, dai suoi tempi fino ai nostri.
Fra i tanti elementi di mistero affiora anche quello della sua probabile identità cattolica, rimasta nascosta per via della persecuzione anticattolica perpetrata dalla regina Elisabetta, che proseguì quella iniziata dal re suo padre[1].
Già in uno dei Sonetti Shakespeare riconosce questo triste fatto: I may not evermore acknowledge thee («Non potrò mai più riconoscerti», Son. 36). Egli si trovava costretto a nascondere la propria identità dietro una maschera da attore, esprimendosi, a denti stretti, con la famosa battuta di Amleto: «Spezzati, cuore mio, perché devo tenere la lingua a freno!» (1.2). Da un certo punto di vista, infatti, il personaggio di Amleto non è che una delle numerose maschere del drammaturgo. Per questo egli lo lascia assolutamente libero di esprimersi, tranne che per una cosa, «che non si può mostrare» (1.2): quella cosa, cioè, che egli chiama «il cuore del suo mistero» e che non è disposto a rivelare ai suoi falsi amici e spie del re, Rosencrantz e Guildenstern (3.2). Sembra che Shakespeare abbia tenuto segreto il nucleo del suo mistero fino ai suoi ultimi giorni di vita. Ecco perché Richard Davies, un pastore anglicano che dimorava nei pressi di Stratford a fine Seicento, lo accusò di «essere morto papista».
Per la pubblica testimonianza che resero come martiri della fede, sia Thomas More (giustiziato nel 1535) sia Edmund Campion (giustiziato nel 1581) furono canonizzati dalla Chiesa cattolica. Alla morte di Shakespeare, invece, nel 1616, praticamente nessuno, neppure i gesuiti inglesi, lo celebrò come cattolico. Quanto alla testimonianza di Davies, essa rimase a lungo sepolta nella biblioteca del Corpus Christi College, a Oxford.
Per trovare un altro riferimento al cattolicesimo shakespeariano dobbiamo attendere fino al tempo del beato card. Newman, il quale, nel suo Idea of a University (1873), affermò: «Esiste certamente in tutti noi un motivo di gratitudine per il fatto che il più illustre degli scrittori inglesi abbia così poco di protestante da permettere ai cattolici di reclamarlo senza esagerazione come uno di loro». Newman aveva in mente un cattolico specifico, vale a dire uno dei suoi colleghi convertiti di Oxford, Richard Simpson, le cui note sull’argomento furono poi riordinate da un sacerdote oratoriano, Henry S. Bowden, e pubblicate con il titolo The Religion of Shakespeare nel 1899.
Ancora più incisive furono le parole di G. K. Chesterton, nel suo libro su Chaucer (1932): «Il fatto che Shakespeare fosse cattolico è qualcosa che ogni cattolico avverte come vero attraverso ogni sorta di buon senso convergente». Non a caso, il riferimento alla «convergenza» rivela l’influsso di un’altra opera di Newman, la Grammatica dell’assenso (1870), che insisteva sul fatto che la convergenza di numerose probabilità indipendenti equivale a una certezza. Questo procedimento è applicato anche dal personaggio di Ippolita, nel Sogno di una notte di mezza estate, quando ella ammette che il «racconto della notte» narrato dagli innamorati di Atene, per quanto «strano e fantasioso», pare «andare a formare qualcosa di grande consistenza» (5.1).
Il «disegno nel tappeto» di Shakespeare
Le implicazioni di questo «racconto della notte» emergono chiaramente in tutti i drammi shakespeariani per tutti coloro che abbiano cura di applicare una precisa strategia: non è sufficiente, infatti, considerare ogni singolo dramma, come invece si accontenta di fare la maggior parte dei curatori delle sue opere, ma è necessario considerarli tutti insieme. Fu questo il punto di vista di T. S. Eliot, il quale, nel suo saggio su Dante (1950), affermò: «Shakespeare non si comprende dopo una sola lettura, e certamente non dalla lettura di una singola opera. Esiste un preciso rapporto tra i diversi drammi shakespeariani considerati in ordine. E ci vuole un lavoro di diversi anni prima di osare proporre anche una sola delle interpretazioni individuali del disegno nel tappeto shakespeariano».
Studiando i drammi shakespeariani, è possibile discernere un «disegno nel tappeto»[2], che cercheremo qui di proporre come ipotesi, rintracciando alcuni elementi cattolici nelle sue opere.
In che cosa dunque consiste tale disegno? Alla domanda si può tranquillamente rispondere che esso non si trova nel First Folio, l’edizione principe dei drammi shakespeariani pubblicata nel 1623, sette anni dopo la sua morte e senza la sua autorizzazione (sebbene la preziosa edizione includa molti drammi allora inediti, per i quali bisogna senz’altro essere grati ai due curatori). Uno dei difetti del First Folio è la distinzione dei drammi, e il loro conseguente raggruppamento, in commedie, drammi storici e tragedie, il tutto preceduto e seguito rispettivamente da due tragicommedie, La Tempesta e Cymbeline.
Sarebbe meglio partire dalle commedie elisabettiane, compresi i drammi di Falstaff (in cui l’omonimo personaggio trasforma il dramma storico in commedia), procedere con le tragedie giacobite (dopo le due cosiddette «tragedie» di Riccardo III e Riccardo II, oltre al Giulio Cesare e ad Amleto), per culminare nelle quattro tragicommedie conclusive, dette anche romances: Pericle, Cymbeline, Il racconto d’inverno e La tempesta.
Ebbene, questo ordine, cronologicamente più fedele, corrisponde a quello che nel Medioevo era chiamato «il salterio di Nostra Signora», che abbracciava i misteri gaudiosi, quelli dolorosi e quelli gloriosi. In questa prospettiva, il drammaturgo sembrerebbe quasi appartenere alla clandestina «Società del Rosario», fondata in Inghilterra dal superiore dei gesuiti, p. Henry Garnet, come mezzo di coesione per i ricusanti elisabettiani[3], soprattutto in mancanza di sacerdoti facilmente reperibili.
Il continente cattolico nelle commedie elisabettiane
Cominciamo dalle commedie che Shakespeare scrisse sotto Elisabetta. È quanto meno interessante notare come, diversamente dai colleghi drammaturghi, egli tenga lo sguardo fisso sull’Europa cattolica, e specialmente sull’Italia. Eppure, leggendo tra le righe di tali commedie, per non dire delle tragedie giovanili Tito Andronico e Romeo e Giulietta, e soprattutto dell’Amleto, è impossibile non notare come il suo pensiero sia rimasto fisso sull’Inghilterra.
Di questo si accorse anche G. B. Shaw, quando, in un saggio sulla sanità dell’arte (1908), scrisse che nel Sogno di una notte di mezza estate Shakespeare popola la sua Atene di «plebei e inseguimenti tutti elisabettiani». Non solo Atene, ma anche Verona, Venezia, l’Illiria e, soprattutto, il castello di Elsinore sono da identificare non tanto con l’antica Grecia, l’Italia rinascimentale o la Danimarca medievale, quanto con l’Inghilterra elisabettiana.
Nella seconda scena dell’Amleto, per esempio, si ripete per ben quattro volte che il principe Amleto viene dall’università di Wittenberg, che però fu fondata solo nel 1502 e, non a caso, era l’università di Lutero. Invece, nella tragedia Riccardo II, più o meno contemporanea di Romeo e Giulietta (1595), ci si imbatte nel famoso discorso di John of Gaunt, che dal letto di morte celebra «questa Inghilterra» e ne ripete il nome per una ventina di volte. Il discorso divenne un classico da far imparare a memoria nelle scuole come notoria espressione di patriottismo tudoriano, dimenticando che quelle lodi terminano con un triplice lamento sull’Inghilterra di Riccardo e sul malgoverno di costui. L’ambiguità non fa che aumentare quando si viene a sapere che fu proprio Elisabetta a riconoscere il riferimento implicito a se stessa in quella tragedia e a parlarne con il suo antiquario, William Lambarde: «Riccardo sono io, non lo sapete?».
Passiamo ora a tre drammi in cui un frate francescano fa da intermediario tra due innamorati. Il più famoso è frate Lorenzo di Romeo e Giulietta. Diversamente dalla fonte protestante del dramma (un poemetto del puritano Arthur Brooke), il frate gode del rispetto e della stima di tutti gli altri personaggi. Padre spirituale di entrambi gli innamorati, egli ammonisce Romeo contro il pericolo della «rude volontà», al tempo stesso lodando implicitamente la «grazia» di Giulietta. Le parole di Romeo in proposito — «La donna che amo ora rende grazia per grazia e amore per amore» (2.3) — sembrano riecheggiare l’espressione giovannea riguardo al Verbo fattosi carne (cfr Gv 1,16). È frate Lorenzo a offrire a Giulietta la pozione che le darà la morte apparente, ma poi gli eventi precipitano tragicamente perché il suo messaggio non raggiunge Romeo.
Il secondo è frate Francesco, il quale escogita uno stratagemma più fortunato per la protagonista di Molto rumore per nulla, Hero, quando ella viene respinta all’altare mentre sta per sposare Claudio. Il frate convince la poveretta, che è svenuta, a fingersi morta per svergognare lo sposo, e le dice: «Venite, mia signora, morite per vivere!» (4.1). Essendo questa una commedia, il piano riesce e i due innamorati si riconciliano.
Il terzo, in Misura per misura, è il duca di Vienna, Vincenzo, che finge di assentarsi dalla città e si traveste invece da francescano, assumendo il nome di Lodovico. Uno dei suoi compiti come frate è quello di aiutare una terza coppia di innamorati, Claudio e Giulietta. La sua proposta al giovane è che egli accetti l’ingiusta sentenza del giudice puritano Angelo: «Sii deciso per la morte!» (3.1).
Così, considerando i tre drammi in cui compaiono i frati, abbiamo un sillogismo di personaggi: da Romeo e Giulietta, attraverso Claudio e Hero, a Claudio e Giulietta. I tre drammi condividono anche la prospettiva per cui la morte appare come via della vita. Proprio questo suggeriva un componimento poetico del santo martire gesuita Robert Southwell dal titolo I die alive («Muoio vivo»): «Io vivo, ma di una vita che sempre muore. Muoio, ma di una morte che non finirà mai». Né è l’unico riferimento shakespeariano all’opera di Southwell: John Klause, nel suo Shakespeare, the Earl, and the Jesuit (2008; il conte in questione è Southampton, il mecenate di Shakespeare, e il gesuita è Southwell), ha anzi dimostrato senza possibilità di dubbio che il debito del drammaturgo verso il poeta percorre tutti i suoi drammi elisabettiani e culmina nell’ Amleto.
Eroine mariane «piene di grazia»
Parlando delle eroine shakespeariane, possiamo notare come Giulietta non sia la sola a essere caratterizzata in termini di «grazia», ma come ciò sia tipico di quasi tutte, a cominciare da Luciana nella giovanile Commedia degli errori per finire con Miranda nella Tempesta. E non si tratta meramente di grazia femminile o di grazia regale, ma anche di grazia divina, che a tratti ricorda il saluto rivolto dall’arcangelo Gabriele alla Vergine Maria nella traduzione cattolica inglese del Nuovo Testamento (pubblicata nel 1582), in contrasto con quella protestante: Hail, full of grace! («Ave, piena di grazia!»). Questo è particolarmente evidente nell’Otello, quando Cassio accoglie così Desdemona, che approda sana e salva a Cipro: «Ave a te, signora, e ti avvolga la grazia del cielo, davanti, dietro e tutto intorno» (2.1). Desdemona è paragonata alla Vergine anche quando intercede per Cassio e si fa sua «avvocata».
Quanto a Marina, la protagonista del Pericle, così chiamata perché nata in mezzo al mare, non solo il nome richiama uno dei titoli di Maria come Maris stella, ma, quando il padre la ritrova dopo la lunga separazione, è come se ella gli infondesse nuova vita; allora il padre si rivolge a lei con queste parole: «Tu che generi colui che ti ha generato» (5.1). Si tratta di una traduzione quasi letterale dell’antico inno latino Alma Redemptoris Mater: Tu quae genuisti […] tuum sanctum genitorem, così come compare anche nell’Inno alla Vergine dantesco.
Quanto all’ultima eroina, Miranda, il suo nome è una combinazione di due delle litanie lauretane, Virgo veneranda e Mater admirabilis; soprattutto quando il suo innamorato, Ferdinando, le dice: «Admired Miranda!» (3.1).
Passiamo ora a considerare tre drammi che contraddicono la divisione tradizionale del canone shakespeariano in commedie, drammi storici, tragedie. Il primo è il Riccardo II, normalmente classificato tra i drammi storici. Nella prima parte Riccardo è il re ostinato e ingiusto, che esilia ingiustamente il nobile cugino, Henry Bolingbroke; nella seconda, Bolingbroke usurpa il trono e diventa Enrico IV, mentre Riccardo viene deposto e imprigionato. Se ci si chiede da che parte stia il drammaturgo, la risposta è che egli si trova dalla parte dell’oppresso.
Nell’ultimo scambio di battute tra i due monarchi, compare un interessante gioco di parole con l’espressione «mondo nuovo»: mentre Lord Fitzwater esprime la propria determinazione a prosperare «in questo mondo nuovo», intendendo il mondo mondano dell’usurpatore (4.1), il re deposto, avviandosi verso la reclusione nella Torre, incontra la moglie in lacrime e le dice di rifugiarsi in un convento: «Le nostre sacre vite devono guadagnare la corona di un mondo nuovo» (5.1). Era questa la via di numerose donne cattoliche ricusanti, fin dal tempo di Thomas More.
Tornando alle commedie, Come vi piace è — equivocamente — ambientata nella foresta di Arden. La maggior parte dei lettori pensa all’ambientazione della fonte, la Rosalynde di Thomas Lodge, che contiene chiari riferimenti alla foresta delle Ardenne, tra le Fiandre e la Francia settentrionale, ma è chiaro che il drammaturgo pensa anche alla sua foresta di Arden, nel Warwickshire, a nord-est di Stratford. La zona non era soltanto un’enclave cattolica per la classe gentilizia, ma anche la patria ancestrale di entrambi i genitori di Shakespeare, John Shakespeare and Mary Arden.
Sui cattolici della zona, e sui parenti di Shakespeare in particolare, fu gettato il fango della falsa congiura di John Somerville, nel 1583; un ufficiale regio particolarmente attivo nella repressione fu il puritano Sir Thomas Lucy di Charlecote. La foresta di Arden, dunque. Ma, nel dramma, Shakespeare mantiene comunque la connessione con le Ardenne, nei cui pressi il sacerdote cattolico William Allen aveva istituito un Seminario inglese, dove molti giovani, fuggiti dall’Inghilterra, ricevevano un’istruzione cattolica.
È una situazione simile a quella di Come vi piace, specie nelle scene iniziali, in cui si dice di un vecchio duca in esilio (che viene lasciato senza nome, ed è dunque convenzionalmente noto come «Duke Senior») che ora abita «nella foresta di Arden insieme a molti allegri gentiluomini, dove vivono come l’antico Robin Hood d’Inghilterra», mentre «molti giovani corrono da lui ogni giorno e passano il tempo senza preoccupazioni, come facevano nell’età dell’oro» (1.1). Oltretutto, la foresta del dramma è abitata da diversi anziani religiosi (che ricordano l’anziano sacerdote di Temple Grafton, una frazione di Stratford, che aveva forse celebrato il matrimonio cattolico di William Shakespeare e di Anne Hathaway nel 1582). Uno di quei religiosi riesce a convertire il duca usurpatore, Frederick, recatosi nella foresta per arrestare il fratello (5.4).
La tragedia di «Re Lear»
Ora, sia il Riccardo II, in cui il re viene deposto, sia Come vi piace, in cui il duca viene esiliato dal fratello usurpatore, anticipano temi del Re Lear, con le sue due trame parallele di esilio e disconoscimento, riguardanti sia Lear e le due figlie ingrate, sia Gloucester e il suo figlio ingrato[4]. Lear viene cacciato dalle case di entrambe le figlie, Goneril e Regan, solo nell’infuriare della tempesta (3.1), mentre Gloucester è buttato fuori dal proprio castello dal crudele duca di Cornovaglia, dopo essere stato accecato sul palco in una delle scene più crudeli di tutto il canone shakespeariano (3.7).
Eppure, è attraverso le loro sofferenze alla scuola delle avversità, assistiti dai rispettivi figli fedeli Cordelia ed Edgar, che entrambi i padri rientrano in se stessi, sebbene muoiano — per dirla con le parole di Edgar, quando assiste alla morte del padre — «tra due estremi di passione, gioia e dolore» (5.3). Tutto questo porta a un finale assolutamente unico nel teatro shakespeariano, e certamente anche nel teatro di tutto il mondo: l’accostamento del lieto fine del ricongiungimento di Lear con Cordelia, al termine del quarto atto, e la triste fine di entrambi al termine del quinto.
Non pochi studiosi (soprattutto Jan Kott nel suo Shakespeare Our Contemporary, 1964) hanno considerato Re Lear come il primo esempio di teatro dell’assurdo. Tutt’altro: il Lear non è affatto assurdo, ma è pregno di un profondo messaggio cristiano. Considerando i numerosi richiami biblici sparsi lungo tutta la tragedia, e che presentano sia Cordelia sia Edgar nei termini dell’«uomo dei dolori» descritto da Is 53 e dal Sal 69, è possibile identificare entrambi come figure cristiche, nonostante le differenze di età e di sesso.
Nel quarto atto abbiamo vari casi di riconoscimento reciproco (definito da Aristotele come anagnorisis): prima si incontrano i due anziani, il primo reso pazzo dalle figlie, il secondo reso cieco dall’infedeltà di un figlio, mentre l’altro figlio, il buon Edgar, esclama: «O scena che perfora il costato!» (4.6), richiamando la scena del Vangelo di Giovanni in cui il soldato trafigge il costato di Cristo (Gv 19,34).
Soprattutto, nella morte di Cordelia nel quinto atto, quando il vecchio entra barcollando sul palco tenendo tra le braccia il corpo della figlia, abbiamo un rimando non meno evidente alla statuaria della Pietà, in cui la Madre dolorosa tiene tra le braccia il corpo del Figlio. Questo, mentre il duca d’Albany esclama: «O guardate, guardate!» (5.3), riecheggiando il lamento di Geremia: «Considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore» (Lam 1,12). Il paragone, lungi dall’essere assurdo, rivela la verità dell’affermazione di Pascal: «Gesù Cristo è in agonia fino alla fine del mondo», esattamente come, per il drammaturgo, Gesù era in agonia nei suoi compagni di fede cattolici, sofferenti oltre ogni limite e sopportazione.
Nel Re Lear è facile notare non soltanto i numerosi richiami biblici (soprattutto nel personaggio di Edgar, e in misura minore anche nel conte di Kent), ma anche altri rimandi alla persecuzione elisabettiana. Quando, ingannato da Edmund, Gloucester è convinto che Edgar stia tramando contro di lui, giura di far «proclamare» il suo nome e di far chiudere «tutti i porti» contro di lui. Edgar stesso rileva che «nessun porto è libero, nessun luogo in cui sorveglianza e vigilanza tanto insolita non perseguano la mia cattura». Egli decide dunque di travestirsi da mendicante pazzo, per meglio affrontare «i venti e le persecuzioni del cielo» (2.3). Qui viene utilizzata, per l’unica volta in tutti i drammi, la parola «persecuzione».
Tutto ciò è un palese anacronismo per l’antica Britannia di Lear, ma corrisponde esattamente alla situazione dei sacerdoti inglesi, soprattutto a quella dei gesuiti, nell’Inghilterra elisabettiana. Lo stesso si può dire per Kent, il quale, bandito dalla Britannia insieme a Cordelia, torna alla reggia come semplice servitore e, insieme al povero giullare, tiene compagnia a Lear nella terribile tempesta. Quando Cordelia lo ringrazia e lo invita a rivestire i propri panni di nobile, egli insiste nel mantenere il travestimento fino alla fine (4.7), esattamente come — si potrebbe ipotizzare — il drammaturgo preferì mantenere il proprio travestimento da teatrante fino alla fine della carriera.
Il problema di «Amleto»
Che dire, infine, del dramma shakespeariano più famoso in assoluto, la tragedia — o, piuttosto, il dramma problematico — di Amleto[5]? Si deve notare come l’università di Wittenberg, fondata nel 1502 e famosa per aver annoverato Lutero tra i suoi studenti e poi tra i docenti, sia fuori luogo nel contesto della Danimarca medievale. Non meno fuori luogo sono molti nomi dei personaggi, come Claudio, Polonio, Laerte e Ofelia, Orazio, Cornelio, Marcello, Bernardo, Francisco. Evidentemente il drammaturgo aveva in mente non tanto la Danimarca medievale quanto l’Inghilterra elisabettiana.
Notiamo in modo altrettanto chiaro la difficile transizione dal regno del padre di Amleto a quello di Claudio e Gertrude. Secondo quanto afferma il fantasma del padre, il regno precedente era cattolico, caratterizzato dalla presenza del purgatorio e dall’importanza degli ultimi sacramenti (viatico, assoluzione, unzione degli infermi), ai quali si può aggiungere — seppure essa non sia menzionata altrettanto esplicitamente (negli stralci di antiche ballate cantati da Ofelia nella sua pazzia) — la tradizione dei pellegrinaggi.
Ma tutto questo è stato abbandonato con il nuovo regime, sotto l’egida di Polonio, gran ciambellano, personaggio che ricorda in diversi punti l’artefice dell’assetto politico e religioso di Elisabetta, sir William Cecil, Lord Burghley. In questo contesto il principe Amleto, proveniente dalla Wittenberg di Lutero, si ritrova nella posizione di un ricusante cattolico, in quanto resta fedele alla memoria del padre defunto e rifiuta il Governo suo contemporaneo, quello di Claudio e Gertrude.
In tale contesto è possibile individuare un significato più profondo nel famoso soliloquio «Essere o non essere». La «questione», il «problema» di cui si parla, deve aver avuto un significato specifico per tutti i ricusanti cattolici sparsi tra il pubblico: il loro dilemma era infatti se perseverare nella ricusanza e continuare a subire le insopportabili leggi penali anticattoliche che si inasprivano ad ogni seduta parlamentare e ad ogni proclamazione regia (promosse soprattutto da Lord Burghley e dalla sua consorte puritana, Mildred Cooke), oppure ricorrere a un’azione drastica, una ribellione, probabilmente sacrificando la vita.
La prima delle due opzioni era quella promossa dai sacerdoti, soprattutto dai gesuiti, mentre la seconda fu adottata da un parente di Shakespeare, come lui originario del Warwickshire, Robert Catesby, il quale, non contento di aver preso parte alla ribellione di Essex (1601, proprio mentre Shakespeare scriveva l’ Amleto), in seguito organizzò personalmente (ma forse incoraggiato dall’astuto figlio di Burghley, sir Robert Cecil) la famosa «Congiura delle polveri» (che deve la sua notorietà anche al fatto di non essere mai stata attuata).
Ciò che caratterizza il celebre discorso di Amleto non è soltanto la continua risonanza del libro di Giobbe, ma anche l’utilizzo di parole come «coscienza», «decisione», «impresa», che si trovavano spesso sulle labbra dei gesuiti più politicamente impegnati, come Robert Persons.
Le tracce illustrate fin qui sono soltanto un resoconto sommario di una ispirazione cattolica presente nei drammi shakespeariani. L’ipotesi che abbiamo illustrato può essere ulteriormente approfondita per gustare meglio l’opera geniale del loro Autore[6].
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[1]. William Shakespeare (1564-1616) visse e lavorò in uno dei periodi più turbolenti della storia inglese, in cui un regime dittatoriale aveva imposto dall’alto all’intera nazione una religione di Stato elaborata a tavolino. Per la maggioranza della popolazione, rimasta cattolica, furono tempi bui. Grazie a studiosi privi di pregiudizi, il cattolicesimo shakespeariano è emerso sempre più chiaramente, soprattutto confrontando le sue opere, infarcite di riferimenti «scorretti», con la sua vita. Cattolica fu la famiglia di origine (e diversi dei suoi parenti finirono al patibolo come traditori politico-religiosi), cattolici furono gli amici (dai padrini di battesimo dei figli ai grandi nobili londinesi a lui vicini), cattolici furono gli ambienti che frequentò (conosceva personalmente diversi artefici della «Congiura delle Polveri»). Nato e cresciuto in campagna, a Stratford, nel Warwickshire, William lasciò il paese diretto a Londra per ragioni mai chiarite; divenne prima attore e dopo drammaturgo; poi, al culmine del successo, quando il Governo inasprì le leggi anticattoliche, tornò a vivere a Stratford. In seguito, però, da uomo ormai ricco, acquistò un misterioso palazzo londinese, dove non abitò mai; si scoprì solo successivamente che si trattava di un centro cattolico clandestino.
[2]. Cfr P. Milward, The Pattern in Shakespeare’s Carpet, BookWay, 2012.
[3]. La «ricusanza» (dal latino recuso), il delitto di cui si macchiava chiunque rifiutasse di presentarsi alle funzioni anglicane, era punibile con multe salatissime, con il carcere e persino con la morte. Il termine «ricusante» si riferisce normalmente ai cattolici elisabettiani e giacobiti.
[4]. Questa la trama: Lear, re dell’antica Britannia, per un errore di discernimento esalta le figlie cattive, Goneril e Regan, e bandisce quella buona, Cordelia. Anche l’anziano duca di Gloucester commette un tragico errore nell’interpretare l’indole dei suoi due figli, proscrivendo quello buono e legittimo, Edgar, e premiando quello illegittimo, malvagio e corrotto, Edmund. Tradito dalle figlie ingrate, Lear impazzisce dal dolore, mentre Edgar si finge matto e mendicante per sfuggire alla cattura. I malvagi, Goneril, Regan ed Edmund, si coalizzano contro i rispettivi padri, ed è solo l’intervento dei figli buoni e ingiustamente disprezzati, Cordelia ed Edgar, a riportare una prospettiva di equilibrio e di armonia. Troppo tardi, però: Cordelia viene assassinata in carcere, mentre sia Gloucester sia Lear muoiono di crepacuore. Il giovane Edgar sopravvive al «peso di questo triste tempo».
[5]. Questa la trama: grazie alle rivelazioni del fantasma paterno, il principe Amleto viene a sapere che suo padre il re, recentemente scomparso, non è morto accidentalmente, ma è stato assassinato dal fratello, Claudio, che ha poi sposato la regina (di cui aveva probabilmente già fatto la propria amante) e si è impossessato del trono. Simulando pazzia per prendere tempo, il giovane medita su come assicurarsi che la rivelazione sia veritiera e, in caso affermativo, come meglio ottenere vendetta. Intanto, per errore, uccide Polonio, il fidato consigliere di Claudio, causando così indirettamente la pazzia e la morte della fanciulla che amava, Ofelia, figlia di Polonio. Lo zio tenta allora di farlo uccidere inviandolo in Inghilterra, ma il suo piano fallisce e il principe fa ritorno in Danimarca. L’ultima scena è quella del duello tra lui e Laerte, il fratello di Ofelia, durante il quale assistiamo alla morte, più o meno deliberatamente inflitta, di tutti i personaggi principali. Già ferito da una spada avvelenata, Amleto riesce finalmente a uccidere il tiranno. Il dramma si chiude con un’invasione da parte del principe norvegese Fortinbras, che si aggiudica il trono e fa celebrare solennemente il funerale di Amleto. L’amico Orazio sopravvive, suo malgrado, per narrare la storia di Amleto e riabilitarne la memoria.
[6]. Segnaliamo alcuni recenti studi sull’«ipotesi cattolica»: C. Asquith, Shadowplay. The Hidden Beliefs and Coded Politics of William Shakespeare, New York, Public Affairs, 2005; D. Beauregard, Catholic Theology in Shakespeare’s Plays, Newark (NJ), University of Delaware Press, 2008; H. Hammerschmidt-Hummel, The Life and Times of William Shakespeare, 1564-1616, London, Chaucer, 2007; Ph. Jensen, Religion and Revelry in Shakespeare’s Festive World, Cambridge, University Press, 2009; J. Klause, Shakespeare, the Earl, and the Jesuit, Madison (NJ), Fairleigh Dickinson Press, 2008; P. Milward, Shakespeare’s Meta-drama – Hamlet and Macbeth, ivi, 2003; Id., Shakespeare’s Meta-drama – Othello and King Lear, ivi, 2003; Shakespeare Today, ivi, 2012; Id., Was Shakespeare a Catholic?, ivi, 2013; Id., Shakespeare the Papist, Ann Azbor (MI), The Sapientia Press of Ave Maria University, 2005; Id., The Pattern in Shakespeare’s Carpet, Himeji, Japan, 2012; J. Pearce, The Quest for Shakespeare. The Bard of Avon and the Church of Rome, San Francisco, Ignatius Press, 2008; E. Sala, L’ enigma di Shakespeare: cortigiano o dissidente?, Milano, Ares, 2011; J. Waterfield, The Heart of His Mystery. Shakespeare and the Catholic Faith in England under Elizabeth and James, New York, Universe, 2009.