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L’arte e la violenza
Nel 1945 Picasso raccontò che un ufficiale nazista, scorgendo una riproduzione di Guernica nel suo studio parigino, gli aveva domandato, inorridito: «Ma questo l’ha fatto lei?». L’artista gli aveva replicato senza esitare: «No. L’avete fatto voi»[1]. A creare l’arte era stato il pittore; a causare la violenza avevano provveduto i nazisti.
La questione riguarda il modo di parlare della violenza, ossia di una realtà che, anche se non la subiamo e non la causiamo direttamente, tuttavia invade la nostra quotidianità attraverso i telegiornali e le notizie. Il giornalismo ha per caratteristica di raccontarla nel modo più oggettivo possibile, descrivendo la realtà come appare. Ci sono però altre maniere, altrettanto necessarie, che sono più poetiche e filosofiche, ossia quelle proprie dell’arte e della riflessione. Mentre nei servizi fotografici la violenza ci viene sbattuta in faccia, spesso con brutalità, invece l’arte degna di questo nome riesce a rappresentarla senza ferirci e senza farci violenza[2]. Denuncia la violenza e l’ingiustizia in maniera diretta e profetica, ma aggiunge una nota di speranza. La grande domanda che guiderà la nostra riflessione si potrebbe formulare così: «In che modo l’arte rivela e trasforma la violenza?».
Il tema non è circoscrivibile, e qui non si tratta di pronunciare l’ultima parola sulla questione, e nemmeno di darne conto in maniera esaustiva, bensì di assaporare – «sentire e gustare», dice sant’Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali (ES 2) – a fondo alcune opere d’arte, quelle che in qualche modo trattano della violenza e, soprattutto, che additano l’unica via di uscita dalla violenza, il cammino della vulnerabilità[3].
Divideremo la nostra riflessione in due parti. In primo luogo, è opportuno rilevare alcune caratteristiche epistemologiche, come la duplice dimensione profetica dell’arte, rivelatrice e trasformatrice, che riscontriamo nel recente Discorso agli artisti di papa Francesco. In secondo luogo, vedremo come l’arte rivela e trasforma la violenza in alcune installazioni di donne artiste che hanno conosciuto la violenza di prima mano[4].
L’arte come strumento di guerra. Provocare senza violentare
Quale ruolo incarna l’arte rispetto alla violenza? Prima di rilevare come l’arte trasforma la violenza in alcune opere contemporanee, conviene metterne in risalto alcune caratteristiche epistemologiche, come la sua dimensione rivelatrice e trasformatrice e la sua relazione intrinseca con la verità e con il bene.
Iniziamo questa riflessione con una frase del poeta francese René Char, che esprime e condensa tutto ciò che segue come solo i veri poeti sono capaci di fare: «Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la bellezza. Tutto lo spazio è per la bellezza»[5]. Senza spiegare la poesia, perché le poesie non si spiegano, ce ne avvarremo per illustrare la nostra intenzione.
Si tratta delle «nostre tenebre». Il poeta non le specifica, ma parte dal semplice dato che qualunque vita umana ha il suo lato oscuro, qualsiasi nome gli diamo. Nelle «nostre tenebre» sono comprese sia quelle individuali sia quelle collettive dell’umanità, che possiamo chiamare la violenza in tutte le sue forme, la guerra, l’ingiustizia, l’indifferenza, l’individualismo, l’odio, la malattia, la depressione, la tristezza, il peccato, la morte o l’inferno.
Davanti a questa oscura realtà, il poeta, come fosse il primo argomento di una proposizione logica, afferma apertamente ciò che tutti intuiamo: «Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la bellezza». Potremmo pensare analogamente: «Nella violenza non c’è spazio per l’arte». Ci viene spontaneo considerare la violenza e l’arte in contrapposizione tra loro, come se l’una non avesse nulla a che vedere con l’altra. Insomma, le tenebre da un lato e la bellezza dall’altro si escludono a vicenda. Probabilmente molti organizzano la propria vita sulla scorta di questa proposizione logica: scelgono di vivere sulla superficie bella e piacevole, relegando le dimensioni oscure nel dominio del tabù, vivendo come se non esistessero.
E tuttavia questo è soltanto il primo argomento, che ancora non contiene quella scintilla in cui riconosciamo l’arte autentica: scintilla che aggiunge «qualcosa» che ci risuona dentro, perché si connette con ciò che è vero ed esistenziale (= la sua connessione con la «verità») e al tempo stesso ci illumina, ci scuote dal dormiveglia e ci entusiasma verso un oltre, ci mette in movimento (= la sua connessione con il «bene»). Così il poeta, fondandosi sul proprio realismo e sulla personale esperienza di vita, aggiunge il secondo argomento, che ribalta il primo in maniera paradossale: «Tutto lo spazio è per la bellezza».
Non è che i due poli si escludano. E nemmeno si suggerisce che la bellezza risieda in un luogo minuscolo e nascosto. Essa deve invece invadere, occupare e impregnare tutto lo spazio delle nostre tenebre. Si potrebbe anche pensare e affermare che nella violenza non c’è posto per l’arte. Tuttavia ogni epoca ha avuto artisti ostinati, sovversivi e rivoluzionari, che non solo con la loro arte provocatoria hanno denunciato le violenze e le ingiustizie (= dimensione «rivelatrice»), ma hanno anche aperto una porta alla pienezza, annunciando la speranza e gridando a gran voce nel deserto (= dimensione «trasformatrice»): «Tutto lo spazio è per la bellezza».
L’arte rivela e trasforma la violenza
Il 23 giugno 2023 papa Francesco ha pronunciato un Discorso agli artisti, del quale vorremmo mettere in risalto le due dimensioni profetiche dell’arte.
In primo luogo, evidenziamo la dimensione dell’arte che potremmo chiamare «rivelatrice», perché mostra la «verità» della realtà in tutta la sua profondità, perfino nella sua oscurità: «L’artista prende sul serio la profondità inesauribile dell’esistenza, della vita e del mondo, anche nelle sue contraddizioni e nei suoi lati tragici»[6]. Gli artisti ci ricordano che «noi non siamo solo luce». Spesso «provano a sondare anche gli inferi della condizione umana, gli abissi, le parti oscure». L’arte mostra quanto c’è di universale nei «tratti di storia percorsi insieme, che appartengono al patrimonio di tutti, credenti o non credenti». Così, come «coscienza critica della società, togliendo il velo all’ovvietà», essa non è un anestetico, bensì mantiene desti e vigili. In questo modo funge da criterio di discernimento per smascherare la «bellezza artificiale e superficiale oggi diffusa e spesso complice dei meccanismi economici che generano disuguaglianze».
In secondo luogo, evidenziamo quella che chiamiamo la dimensione «trasformatrice» dell’arte, perché, nel contesto di quella realtà rivelata, essa apre una finestra sulla pienezza, mostra la speranza e ci spinge a fare il «bene». «L’arte e la fede non possono lasciare le cose come stanno: le cambiano, le trasformano, le convertono, le muovono». In effetti, «c’è bisogno di gettare la luce della speranza nelle tenebre dell’umano, dell’individualismo e dell’indifferenza». In questo senso, «l’artista ricorda a tutti che la dimensione nella quale ci muoviamo, anche quando non ne siamo consapevoli, è quella dello Spirito». Gli artisti ci aiutano a percepire la luce, la bellezza che salva: «Non basta soltanto guardare, bisogna anche sognare [e] portare la novità».
In questo modo gli artisti sono un po’ come i profeti: «Sapete guardare le cose sia in profondità sia in lontananza, come sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte e scandagliare la realtà al di là delle apparenze». Essi sanno mostrare la bellezza come «qualcosa che ha pienezza», ci indicano che «la vita è orientata alla pienezza». Spesso, con la «virtù meravigliosa» dell’ironia e del senso dell’umorismo, si criticano e «si prendono in giro la presunzione di autosufficienza, la prevaricazione, l’ingiustizia, la disumanità», celate a volte dietro il velo del potere o del sacro. Gli artisti, inoltre, sono «sentinelle del vero senso religioso».
In questo senso, il Papa ha chiesto agli artisti di «farsi interpreti del grido silenzioso» dei poveri. Soltanto così l’arte può essere «come una vela che si riempie dello Spirito e fa andare avanti». In altre parole, non possiamo parlare della bellezza creata dall’essere umano senza far riferimento alla sua intima connessione con la verità e con il bene. Ossia, l’«estetica» degna di questo nome comprende sempre una dimensione «etica», come ci ricorda il poeta tedesco Rainer Maria Rilke nella sua impressionante riflessione su colui che contempla il frammento di una statua greca, che continua a guardarci e a interpellarci con feroce ardore, pur essendo priva di occhi: «Là non c’è punto che non veda te, la tua vita. Tu devi mutarla»[7].
Lo sguardo dell’arte non lascia scappatoie, perché ci segue ovunque andiamo, con il suo occhio penetrante, come se fosse quello di Dio. Anche se la statua è sfigurata, continua a guardarci con il suo sguardo di fuoco, perché conserva ancora l’umanità di un tempo e di sempre, capace di mostrare la bellezza, la verità e la dignità di ogni vita umana. Non è un mero oggetto, non è un inerte blocco di pietra, ma una stella che brilla nella notte delle nostre tenebre.
Del resto, che cosa ha fatto Picasso con Guernica? Il suo unico obiettivo era mostrare le atrocità della guerra? L’unico risultato è stato forse quello di rappresentare il male, oppure la sua arte offre qualcosa di più, come un manifesto che fa sperare nella pace? Dal canto suo, egli era convinto che «la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico»[8].
Nel suo bianco e nero, sfumato da qualche tono di grigio, come se fosse la fotografia di un quotidiano, l’immensa opera appesa al Museo Reina Sofia impressiona e ci ammutolisce. In essa vengono rappresentati l’orrore e la desolazione dell’attacco aereo che rase al suolo quella cittadina basca il 26 aprile 1937. La violenza resta intrappolata nelle grida inudibili di tante bocche aperte, di tante mani alzate, di tante braccia tese, di tanti colli allungati.
L’opera fu commissionata dal governo della Seconda Repubblica spagnola per l’Esposizione internazionale di Parigi, in piena Guerra civile spagnola. Si è detto che è stata l’«ultima grande pittura storica», l’ultima tela concepita a tema politico per sensibilizzare il pubblico: compito che da allora è stato relegato alla fotografia di guerra[9]. Tuttavia essa fa più che riflettere la nuda realtà e, oltre a questo, la trasforma e la universalizza.
Una delle trasformazioni che l’arte compie rispetto alla verità è quella di condurre il particolare all’altezza dell’universale senza che smetta di essere particolare, senza né offendere né dimenticare il particolare. Qualsiasi essere umano, qualsiasi visitatore del museo, in quanto semplice essere umano, può relazionarsi a ciò che viene espresso, anche se non ne coglie tutti i dettagli. In effetti, abbondano le interpretazioni e le spiegazioni, e forse non verrà mai detta l’ultima parola su questa tela che conserva tutta la sua attualità. In essa vediamo Kiev, Bakhmut, Kharkiv e il Donbass, sebbene non cessi di onorare il Paese basco di cui porta il nome. Icona del XX secolo, continua a deplorare e denunciare profeticamente qualsiasi ingiustizia e qualsiasi violenza. Ci rivela che «non siamo solo luce», come ha ricordato il Papa nel suo discorso. Ci rivela la nostra verità, anche gli oscuri abissi della nostra condizione umana, le nostre tenebre, che meritano di essere invase dalla bellezza.
La relazione dell’arte con la verità e con la bellezza
Spesso, quando si parla di arte, quando si usano immagini nel corso di una riflessione, la nostra prima reazione è di leggerezza, come se contemplare immagini fosse facile, piacevole e poco serio[10]. Così facendo, però, si perde di vista il fatto che siamo davanti a uno straordinario patrimonio di creazioni umane che sbocciano dal tessuto complesso e intricato della vita degli uomini e al tempo stesso esprimono qualche aspetto della realtà. In altre parole, l’arte degna di questo nome nasce dalla vita e a essa conduce.
Qui si tratta di tradurre in parole le domande e le lotte degli artisti con la violenza: come la rappresentano, perché la rappresentano, come la trasformano, in che cosa la trasformano, e se davvero possiamo parlare di una «trasformazione». Queste domande e queste lotte non sono esplicite, sebbene si possano ricavare dalle opere. Queste poi vanno contemplate a più riprese, tanto dense sono, piene di vita, come sorgenti che non smettono mai di regalarci acqua vitale. Fluiscono dalla vita e a essa ci riportano, coinvolgendoci nel percorso.
Le opere d’arte non sono fatte per abbellire il nostro deserto, ma per renderci persone migliori. Non entriamo in un museo soltanto per passare del tempo e per goderci la «bellezza»; né soltanto per istruirci e farci conoscere la «verità», ma per farci uscire migliorati come persone, più disposti a fare il «bene». Qui conviene ricordare l’intima connessione tra bellezza, verità e bontà come l’ha esposta il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar più di sessant’anni fa: «In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla e di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce, infatti, una possibilità, persino molto più eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica»[11].
In altre parole, se c’è un’intrinseca connessione tra bellezza, verità e bontà, la bellezza che cerca espressione nell’arte non è ingannevole, come spesso si pensa. L’arte autentica non mente, non crea un mondo superficiale, un fumetto distante dalla realtà. In ogni caso, questa non è l’arte che merita tale nome e di cui parliamo qui. La bellezza che cerca di esprimersi nell’arte, come vedremo, predilige la verità, la non-violenza, l’innocenza, la semplicità, la vulnerabilità e il bene.
Vediamo allora qual è il ruolo dell’arte nella riflessione teologica: essa non dev’essere soltanto secondaria e illustrativa, mostrare cioè con immagini, forme e colori ciò che in precedenza è stato pensato per mezzo di idee e concetti, ma può far parte di un’autentica riflessione, approfondire aspetti e dimensioni che tenderebbero a offuscarsi in un’esposizione incentrata sulle dimensioni mentale e razionale[12].
L’ arte come cicatrice che apporta novità. Risvegliare senza ferire
In questa seconda parte dell’articolo scopriremo in alcune concrete opere d’arte la duplice dimensione profetica segnalata sopra, ossia come esse rivelano e trasformano la violenza. Consideriamo qui alcune installazioni di cinque donne artiste che lavorano in contesti non occidentali dove la violenza è onnipresente. Peraltro le loro opere sono molto apprezzate anche in Occidente.
Può anche darsi che la sensibilità femminile aiuti a tenere presenti le dimensioni profetiche dell’arte. Tutte le opere che presentiamo fanno uso dell’ironia e offrono il loro messaggio dopo aver esercitato anzitutto la seduzione di una bellezza attraente e semplice, che solo in seconda istanza svela una violenza taciuta e nascosta. Tutte scelgono la via della semplicità e della vulnerabilità per trasmetterci il loro messaggio[13]. Ogni volta ci varremo di un’affermazione del recente discorso del Papa come di un’epigrafe.
L’ arte come coscienza critica della società: «Suspended Together»
L’installazione del 2011 Suspended Together («Sospese insieme») dell’artista saudita Manal Al-Dowayan consiste in circa 200 colombe bianche di porcellana. Alcune sono per terra e altre volano, sospese in aria. L’installazione, attraente e bella, dà un’impressione di libertà, leggerezza e movimento, ma mette in luce sottilmente una situazione violenta di oppressione e disuguaglianza.
Quando ci avviciniamo, notiamo che ogni colomba porta impresso nelle ali un documento ufficiale. Si tratta del permesso che ogni donna saudita deve avere per viaggiare, l’esplicita autorizzazione sottoscritta da un tutor uomo. Nell’opera sono stati raccolti i permessi di donne tra i sei mesi e i sessant’anni, tra le quali figurano alcune note donne scienziate, ingegneri, artiste, educatrici, giornaliste e dirigenti che hanno lasciato la loro impronta nella società saudita, ma che tutte dipendono e, per così dire, «pendono» dal capriccio potenzialmente arbitrario di un maschio. Queste donne sono come marionette nelle mani degli uomini. Sono sospese – nei due sensi di appese e bloccate –, e pertanto non sono libere.
Insomma, il volo di queste colombe esprime ironicamente la libertà e il movimento negati – o almeno limitati – a un gruppo di persone per il semplice fatto che sono nate donne. Sono colombe che non volano liberamente se non hanno sulle ali l’esplicita autorizzazione di un maschio. Non sono totalmente bianche e verginalmente pure, perché macchiate da un sistema patriarcale violento che tarpa loro le ali. Sono colombe che possono volare solo sotto l’auspicio e il controllo di persone che hanno autorità per il semplice fatto di essere nate maschi. Sembrano volare con leggerezza, ma sulle loro ali grava un peso.
Sebbene si tratti di una situazione molto particolare e concreta, l’arte autentica è capace di estrapolare la sua verità in una dimensione universale. La colomba infatti è un archetipo universale: rappresenta pace e libertà, ma anche innocenza e vulnerabilità. È inoffensiva.
Quest’opera non solo denuncia la disuguaglianza di un sistema violento (= la dimensione «rivelatrice» dell’arte), ma addita anche un mondo migliore (= la dimensione «trasformatrice» dell’arte). Sia per il teologo Romano Guardini sia per papa Francesco nel suo recente discorso, quella di portare una nota di speranza, di apportare qualche novità che indica la pienezza è la dimensione escatologica essenziale dell’arte autentica[14]. Questa installazione esprime l’auspicio che quelle colombe un giorno possano volare, libere dalle autorizzazioni.
L’opera colpisce, perché ci presenta un paradosso, acuendo la tensione tra la schiavitù e l’autonomia, tra la legge e la libertà. Ci cattura, perché avvicina in maniera assolutamente semplice e purificata i due poli del paradosso: la libertà (resa presente come speranza in ogni colomba) e la schiavitù (presente nei permessi stampati sulle ali).
Un altro aspetto è l’accento posto sul together («insieme»). Ogni donna saudita, di qualsiasi età e condizione sociale, per il semplice fatto di essere nata donna, e non per alcuna mancanza propria, dipende da un guardiano uomo. Perfino nella prigionia nessuna colomba è sola. Quest’opera denuncia una situazione lacerante e violenta senza ferire e senza violentare. Lo fa alla maniera di una colomba: in modo dolce, delicato, perfino tenero, con una grande dose di innocenza e di umorismo che, anziché scegliere la via più facile e comune del lamento e del cinismo, opta per l’ironia. Come ogni buona arte, questa installazione è innocente senza essere ingenua. È inoffensiva senza essere irrilevante. È mite come una colomba, e astuta come un serpente. È docile come una colomba, ma resta acuta e profetica, mette il dito nella piaga, nel cuore del problema, denunciandolo con acume e agilità. Quest’opera sceglie il tubare di alcune colombe per ruggire come un leone.
L’ arte di guardare e sognare: «Palimpsesto»
A prima vista, questa bellissima ed effimera installazione del 2017 di Doris Salcedo non tratta della violenza (sebbene lo faccia, e in maniera sublime, come vedremo)[15]. Entriamo in uno spazio semplice, ampio, vuoto, dignitoso e solenne. La pavimentazione è composta interamente da grandi lastre grigie che assomigliano un po’ a delle lapidi. Non c’è altro, tranne un impressionante silenzio rispettoso. Su ciascuna delle lastre, in maniera misteriosa e furtiva, appaiono delle gocce d’acqua che, a poco a poco, formano un nome scritto con l’acqua, come fatto di lacrime. Dopo un breve tempo in cui brillano al sole, quei nomi svaniscono inesorabilmente, per fare apparire altri nomi, da cui il titolo dell’installazione.
La violenza ci si rivela soltanto quando ci rendiamo conto che ogni nome corrisponde a una persona annegata nel Mediterraneo, mentre tentava invano di raggiungere le sponde di un mondo migliore. È la violenza di un mondo pieno di ingiustizie e disparità su scala planetaria. Con somma delicatezza e rispetto, l’artista colombiana, per sua affermazione macerata nella violenza, ci permette di esercitare un cordoglio collettivo, scegliendo la vita, la speranza e la bellezza piuttosto che la disperazione e il cinismo, che sarebbero la via più facile.
Quanto di più personale abbiamo, l’abbiamo ricevuto: il nostro nome. Non siamo numeri: siamo unici. Come se fosse un salmo, entriamo in quello spazio funerario che cerca di affrancare quei nomi dall’immenso mare dell’oblio, celebrandoli per brevi istanti con tutto lo splendore e l’evanescenza di gocce che riflettono la luce del sole. Così è la vita di ciascuno: una bellezza effimera. Che cosa resta di noi quando i nostri nomi evaporano?
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Nel nostro mondo, le tragedie si sovrappongono come in un palinsesto: ciascuna viene relegata nella dimenticanza quando ne appare un’altra. Non siamo soliti coltivare una memoria a lungo termine, e quest’opera cerca di ovviare a tale atteggiamento, dicendoci chiaramente che ciò che chiamiamo il «passato» «non finisce mai di passare, forma il presente». In questo modo denuncia la verità che «non siamo solo luce» e la violenza della nostra indifferenza per tante vittime che condividono la nostra stessa umanità: là, nel Mediterraneo, sta affogando la nostra umanità violentata dalla «globalizzazione dell’indifferenza» (papa Francesco). Quest’opera si oppone a lasciar cadere nell’oblio tutti quei morti.
L’installazione offre, come «coscienza critica», una uscita dalla violenza, trattandone e trasformandola. Di fatto, l’artista presenta una ragione per cui l’arte deve mostrare la violenza senza violentare, davanti alla violenza che, ferendo, impone la propria cicatrice: «L’arte – afferma Salcedo – è tutto il contrario, perché opera nel silenzio, nell’invisibile. Dev’esserci un vuoto affinché si produca una comunicazione tra lo spettatore e la memoria della vita distrutta che l’opera si assume. Ma se questa memoria è esplicita, incontriamo semplicemente l’orrore e non la vita che è stata distrutta. Ciò che cerco di fare è creare un silenzio il più radicale possibile. E rendere l’opera quanto più invisibile affinché si riempia delle memorie. Il mio lavoro è puramente tecnico. L’atto creativo è dello spettatore ed è meraviglioso che questi voglia renderlo possibile»[16].
Allo stesso modo, per Guardini, l’opera d’arte «apre uno spazio [raum] in cui l’uomo può entrare, in cui può respirare, muoversi e trattare le cose e gli uomini, resisi aperti [offen]»[17]. L’arte apre uno spazio di incontro che permette una meditazione sulla vita come bellezza evanescente, sulla condizione fragile ma sommamente dignitosa di ogni persona umana. L’arte è una meditazione purificata che fa da ponte tra il particolare e l’universale senza che il primo venga perso di vista.
Alla domanda sul perché, per dare voce a chi non ha voce, sia diventata artista e non attivista, Salcedo risponde che, diversamente dalla violenza, che sceglie la menzogna e l’inganno, l’arte si mantiene arditamente dalla parte del reale: «L’artista non sceglie, c’è una realtà che s’impone. A scegliere, piuttosto, è chi vuole fare una guerra o chi inventa un’immagine fantasiosa del nemico per attaccarlo. Sono loro a lavorare con l’immaginazione. Noi, gli artisti, ci basiamo sulla realtà».
L’ arte di gettare la luce della speranza nell’oscurità: «A flor de piel»
Gettato in un angolo del Museo della Memoria della Colombia, un mantello rosso a malapena attira la nostra attenzione. In questa installazione del 2012-14, sempre di Doris Salcedo, non ci parla di violenza, per quanto in effetti potrebbe sembrare un’enorme macchia di sangue. Quando ci avviciniamo, cogliamo che in effetti, con una pazienza certosina, l’artista ha cucito dei fragilissimi petali di rosa fino a ottenere quel mantello.
La violenza si rivela soltanto quando veniamo a sapere che si tratta del suo omaggio alle donne mutilate e violate: in concreto, a María Cristina Cobos, una infermiera accusata falsamente, torturata, mutilata e assassinata nel 2003 da alcuni paramilitari[18]. È stata accantonata e abbandonata come questo mantello, che corre il rischio di passare inosservato, sebbene a prima vista sembri insignificante, non degno del nostro interesse. Ma al tempo stesso questo è un omaggio a tante donne che, per il solo fatto di essere donne, sono state facile bersaglio nel conflitto armato colombiano. L’artista vuole parlare della violenza senza aggiungere violenza, denunciando l’abuso per annunciare un mondo migliore con un ramo fiorito, parlando della morte con amore senza apparire melensa.
Nella sua breve vita, l’infermiera brutalmente assassinata ha cucito ferite con fili di sutura; l’artista cuce la pelle fragile di alcuni petali come suo tributo a una vittima concreta. È un’offerta che ha l’intenso colore delle tre ferite, come dice il poeta: «quella della vita, quella della morte, quella dell’amore» (Miguel Hernández). E di nuovo, «non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la bellezza. Tutto lo spazio è per la bellezza» (René Char).
Ancora una volta l’artista riscatta una vittima dimenticata, elevandola all’altezza dell’universale senza detrimento della sua particolarità. E ancora una volta il titolo poetico, «A fior di pelle», è davvero appropriato.
L’ arte di guardare come un bambino: «Misbah»
Con la sorprendente installazione del 2006-2008 Misbah («Lanterna») l’artista palestinese Hona Hatoum offre un’esperienza onirica che solo in seconda istanza rivela il suo sfondo violento. A prima vista, si è attratti dalla semplice, dolce bellezza di una stanza in penombra in cui ruota una lanterna che pende dal soffitto. È l’unico punto luce, che proietta le sue immagini mobili sulle pareti, sul tetto e sul pavimento. Ci ricorda le lampade usate nelle stanze dei bambini, ci rimanda all’infanzia e al sogno, alla contentezza di dormire e sognare come un bambino. Il leggero movimento e la luce tenue invitano a entrare.
Ma una volta che, sedotti dalla sua bellezza semplice, entriamo nell’installazione, di colpo riconosciamo tra le stelle proiettate anche sagome di soldati armati che avanzano inesorabilmente. Inorriditi, scorgiamo che quella che finora pareva una scena pacifica si è repentinamente trasformata in un incubo infernale di immagini belliche che non riusciamo a cancellare dalla retina. Ciò che prima pareva inoffensivo e decorativo è in effetti una profonda meditazione sull’occulta onnipresenza della violenza, di cui a malapena ci accorgiamo. All’improvviso, le stelle diventano esplosive e si trasformano in scoppi di bombe.
Di nuovo, siamo davanti alla «virtù meravigliosa» dell’ironia, così essenziale nell’arte profetica, secondo papa Francesco, perché essa caratterizzava anche i profeti biblici. L’installazione purificata acuisce il contrasto tra la quotidianità familiare e la minaccia inquietante del pericolo imminente. In questa camera la minaccia della guerra non entra con immagini fotografiche realistiche che potrebbero ferire la sensibilità, ma con sagome stilizzate, comunque archetipiche e ben riconoscibili. In realtà, sono soltanto profili e macchie di luce su una parete, cioè una proiezione, niente, e tuttavia uno «strumento di guerra» violentissimo.
Le caratteristiche di quest’opera sono la purificata «semplicità» dell’installazione che ha molto della distillazione; la candida «giustapposizione» tra poli opposti, come l’innocenza dell’infanzia e la minaccia della violenza sempre presente, che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8). Perfino il dolce movimento, che evocava pace e gioia, è diventato inquietante e minaccioso. L’artista apre uno spazio in cui dobbiamo entrare, avvolti e catturati da queste immagini sconvolgenti. Le sagome luminose paradossalmente rivelano le nostre tenebre.
L’ arte come ironia: «Hijab Series»
Nell’installazione del 2008-12 Hijab Series, l’artista yemenita Boushra Almutawakel impiega con maestria l’ironia per smascherare la violenza implicata e simboleggiata in un indumento imposto da una società patriarcale. Usa i mezzi facilmente comprensibili della giustapposizione, del contrasto e della comparazione. In Mother, Daughter, Doll («Madre, figlia, bambola») le donne scompaiono completamente, lasciando solo il vuoto della loro assenza quasi palpabile. Come se non fossero altro che bambole scartabili.
Queste opere acquistano enorme rilevanza davanti alle recenti affermazioni di un funzionario talebano che chiedeva alle donne di coprirsi un occhio quando escono di casa, perché lo sguardo a due occhi di una donna può essere troppo seducente e causare la corruzione morale di una società bene ordinata[19].
L’ arte come interprete del grido silenzioso dei poveri: «Sudarios»
L’ultima installazione che presentiamo, del 2011, è quella di Erika Diettes. A Madrid, nella chiesa di San Giuseppe, per qualche tempo sono stati esposti questi ritratti di donne colombiane[20]. L’agonia resta visibilmente impressa in quelle fragili tele di seta – da cui il titolo dell’installazione – che, giudiziosamente, per trasmettere il loro messaggio ancora una volta optano per la purificazione e la semplicità.
In primo luogo, si fanno «interpreti del loro grido silenzioso», come l’ha definito papa Francesco nel suo discorso agli artisti, denunciando la violenta situazione del conflitto armato ad Antioquia (Colombia), perché tutte queste donne raccontano la scomparsa di una persona cara. Queste pietà moderne non hanno un corpo da piangere o da abbracciare. Restano del tutto sole e ammutolite dal dolore.
I loro ritratti sono là, come fantasmi sospesi che ci tolgono il sonno: dignitose, nude e trasparenti, non hanno più niente da nascondere. Si sono fatte del tutto vulnerabili. Il loro grido è rimasto strozzato in gola. Denunciano senza alzare la voce, senza condannare, senza usare violenza, ma lanciando con voce rauca il loro grido al cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34); «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue?» (Ap 6,10). Anche questa è parola di Dio da ascoltare nel tempio. Sono sempre là, anche se non le vediamo, anche se preferiamo non vederle e non sentirne il pianto. Ciò nonostante, l’arte non ci anestetizza in un mondo compiacente, ma ci mantiene vigilanti per operare il bene.
In secondo luogo, essa annuncia la speranza, la pienezza di un mondo nuovo. «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido […]: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa» (Es 3,7-8). Una sola donna tiene gli occhi aperti. Non accusa, interpella: sollecita il nostro sguardo e la nostra azione.
Il giorno in cui abbiamo visitato l’esposizione, un sacerdote stava confessando una fedele sotto quelle pietà senza corpo e senza voce. Ci sorprendono questa coincidenza e questa giustapposizione: sopra, le grida silenziose e silenziate di quelle donne concrete e di tante altre vittime, nascoste e dimenticate; sotto, il semplice incontro sacramentale, in cui si celebra la Parola fattasi carne vulnerabile e vulnerata, veicolo e portatrice di una riconciliazione, dono divino per eccellenza che può essere dato solo quando viene ricevuto con vulnerabilità. Infatti c’è incontro vero soltanto tra due esseri vulnerabili: «Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo […], affidando a noi la parola della riconciliazione» (2 Cor 5,19-20).
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L. Torment, «La conversación que tuvieron Pablo Picasso y un oficial nazi acerca del “Guernica”», 21 giugno 2016 (muhimu.es/cultura-entretenimiento/guernica-picasso-nazis). ↑
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A nostro avviso, questo è un criterio valido per scartare la pretesa e pretenziosa «arte» inetta che si limita a offendere e ad aggredire, come l’installazione provocatoria Cajita de fósforos (2005) del collettivo argentino Mujeres Públicas. Cfr J. A. Rodríguez Beltrán, «Religión, arte y libertad de expresión», in Vida Nueva, n. 2928, 2015, 23-31. ↑
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Per «vulnerabilità» – termine che deriva dal latino vulnus (ferita) – intendiamo la capacità divina di essere feriti senza perdere la propria dignità: una capacità, cioè, che arricchisce l’essere umano, perché va al di là della debolezza e della fragilità. Cfr B. Daelemans, La vulnerabilidad en el arte. Un recorrido espiritual, Madrid, PPC, 2021. ↑
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Questo articolo sintetizza l’ampia riflessione di Carlos Díaz Hernández, «De la violencia al vulnerable. Un recorrido espiritual desde el arte», in un corso tenuto all’Universidad Complutense di Madrid nel luglio 2023. ↑
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R. Char, Feuillets d´Hypnos (1946), in Fureur et Mystère, Paris, Gallimard, 1967. ↑
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Francesco, Discorso agli artisti partecipanti all’incontro promosso in occasione del 50° anniversario dell’inaugurazione della Collezione d’arte moderna dei Musei vaticani, 23 giugno 2023. ↑
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R. M. Rilke, «Torso arcaico di Apollo», in Id., Nuove poesie. Requiem, Torino, Einaudi, 1992, 194. ↑
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P. Picasso, Les Lettres Les Lettres françaises (marzo 1945), citato in A. Concas, Picasso, Milano, Mondadori, 2022, 54. ↑
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Cfr R. Hughes, The Shock of the New: The Hundred-Year History of Modern Art, New York, McGraw – Hill, 1990, 70. ↑
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Sul tema dell’arte come supporto di trasformazione esistenziale e spirituale, cfr B. Daelemans, «Tres claves ignacianas para orar con el arte», in Manresa 92 (2020) 337-357; Id., «Ejercicios con arte: un nuevo modo de hacerlos», in Manresa 94 (2022) 377-390. ↑
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H. U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, vol. I: La percezione della forma, Milano, Jaca Book, 1975, 11 s. ↑
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Per una esposizione dettagliata di questi aspetti, cfr B. Daelemans, «“Sentir y gustar” [Ej 2]. Sensibilidad estética», in R. Meana Peón (ed.) El sujeto: Reflexiones para una antropología ignaciana, Bilbao – Santander – Madrid, Mensajero – Sal Terrae – Universidad Pontificia Comillas, 2019, 553-574. ↑
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Diametralmente opposte ad altre proposte di attiviste che, impazienti e accecate dall’ansia di trasmettere il loro messaggio, invece moltiplicano la violenza, come abbiamo notato sopra a proposito di La cajita de fósforos (2005). ↑
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Cfr Francesco, Discorso agli artisti…, cit., in cui cita R. Guardini, L’opera d’arte, Brescia, Morcelliana, 1998, 25. ↑
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Per una riflessione più ampia, cfr B. Daelemans, La vulnerabilidad…, cit., 54-57. ↑
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J. Díaz-Guardiola, «Doris Salcedo: “Los humanos son seres incapaces de recordar”», in ABC Cultural, n. 1298 (www.abc.es/cultura/cultural/abci-doris-salcedo-humanos-seres-incapaces-recordar-201710100147_noticia.html). ↑
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R. Guardini, L’opera d’arte, cit., 35. ↑
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Cfr «A flor de piel (Doris Salcedo)», in museodememoria.gov.co/arte-y-cultura/a-flor-de-piel/; e «María Cristina, enfermera torturada y desaparecida en 2003», 11 giugno 2010 (verdadabierta.com/maria-crsitina-enfermera-torturada-y-desaparecida-en-2003). ↑
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Cfr S. Wahdat, «Un funcionario talibán», 26 giugno 2023 (twitter.com/salemwahdat/status/1673090371524460557). ↑
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Cfr una meditazione più ampia in B. Daelemans, La vulnerabilidad…, cit., 58-61. ↑