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Sulla figura e l’opera di Giorgio La Pira (Pozzallo [RG], 9 gennaio 1904 – Firenze, 5 novembre 1977) molte furono, nel centenario della nascita, le iniziative e le pubblicazioni, tutte mirate a rilanciarne l’eredità, soprattutto approfondendo l’«utopia» concreta del Regnum Dei che lo animava e per la quale un tempo fu canzonato: è la sorte dei profeti, che tuttavia alla fine la spuntano. Emblematico il processo canonico diocesano per la beatificazione, conclusosi felicemente il 4 aprile 2005, riconoscendo il valore di questo suo programma: «La finalità della mia vita è nettamente segnata: essere nel mondo il missionario del Signore»[1].
In breve, La Pira voleva onorare da cristiano il servizio nella polis, un esempio di cui sentiamo, oggi più che mai, il bisogno[2]. Egli infatti operò in tale ambito, perché sperava, nonostante tutto — spes contra spem, amava ripetere — nel futuro dell’umanità, come afferma in questo passo: «Una cosa si rende chiara per chi voglia operare nel mondo della luce e con il lievito del Vangelo: la costruzione temporale deve essere come l’abbozzo della costruzione eterna, la città terrena come il cantiere ove si pongono le impalcature e le prime pietre della città celeste. C’è una “terra promessa” al termine della navigazione faticosa della storia dell’uomo. Sull’orizzonte brilla, luminosa e confortatrice, una stella»[3].
Il sindaco dei lavoratori
La Pira giunse a Firenze nel 1926, come assistente del prof. E. Betti, cui subentrerà nella cattedra di Diritto romano, e ben presto vi si inserì da protagonista. Emblematici sono i «luoghi» lapiriani nella Città del Fiore: il convento di San Marco; la messa domenicale in San Procolo, «con la sua famiglia, i poveri, per condividere il Pane del cielo e quello terreno»[4]; Palazzo Vecchio, con inciso sul portale «Città di Cristo Re»; i monumenti e la storia antica, col profetico luogo dell’incontro tra cristiani d’Oriente e d’Occidente nel Concilio del 1439-42. Ovvio quindi, dopo la tragedia bellica e il crollo del fascismo, proporlo come sindaco nelle elezioni amministrative del 1951: infatti la sua vittoria fu plebiscitaria, con quasi 20.000 preferenze.
Alla prima riunione del Consiglio comunale enunciò i seguenti obiettivi: «Il primo si fonda sulla pagina più bella e umana del Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili […]. Il secondo concerne la vita industriale, agricola, commerciale, finanziaria della città. Noi porremo il massimo sforzo e il massimo interesse per potenziare tutte le attività cittadine. C’è poi un terzo obiettivo, che è forse il più importante. Firenze rappresenta nel mondo qualcosa di unico», e proprio questa specificità deve farne il centro dal quale si propaga «allo spirito dell’uomo quiete, poesia e bellezza!»[5]. Di fatto, grazie a fedeli collaboratori[6], si prodigò in ogni modo nel realizzare quel programma, aprendo cantieri di lavoro per disoccupati, realizzando «case minime» per gli sfrattati o senza dimora e distribuendo gratuitamente il latte ai bambini nelle scuole.
Ogni mattina, nel percorso tra il convento di San Marco e Palazzo Vecchio lo attorniavano quanti erano in difficoltà, per cui escogitò il sistema dei bigliettini: le tasche gli si riempivano di foglietti, nei quali ognuno scriveva le proprie richieste, che diventavano il promemoria nelle ore di ufficio. Il problema maggiore erano come sempre i finanziamenti, ma lui conosceva vari uomini politici[7], come Fanfani, allora ministro dell’Interno, dal quale nel 1953 ottenne, dopo vivaci battibecchi, le somme promesse dal Governo per arginare la disoccupazione. Ma proprio quell’anno scoppia la crisi della Pignone, che minaccia la chiusura e il licenziamento di tutti i dipendenti[8].
La Pira scrive a Pio XII raccontandogli il dramma dei 1.700 licenziati e delle 3.000 famiglie minacciate da questa catastrofe: «Beatissimo Padre, intervenite ancora una volta: ve lo chiedo in nome dell’amore sacro che Cristo vi ha donato per la società intera! L’Italia è la sede vostra: se i problemi italiani non sono risolti, e presto, le conseguenze dolorose saranno, purtroppo, ripercosse sopra la sede immacolata della Chiesa!». E prosegue, constatando l’abbandono della classe dirigente italiana, cieca nel valutare il disastro degli operai licenziati: «Ma come: avevamo conquistato Firenze, ne avevamo fatto una bandiera di civiltà cristiana e di speranza cristiana: ed eccola ora abbandonata, per un piatto di lenticchie, eccola ora facile preda della mordente e suadente critica comunista»[9]. Gli operai intanto avevano occupato la fabbrica, e La Pira ne sostiene la causa, denunciando la radicale inferiorità «giuridica, politica e umana» in cui si trovano quei lavoratori, «sintomo della strutturale incapacità dello Stato a difendere i deboli»; così scrive al Papa, avvertendo l’urgenza di formule sociali e politiche nuove.
Nell’attesa contatta i capigruppo del Senato e della Camera, il ministro dell’Interno Fanfani, il presidente del Consiglio De Gasperi e mentre la stampa — Tempo, Giornale d’Italia, Corriere della Sera, Resto del Carlino e altri — lo accusa per i suoi interventi a favore degli operai, etichettandolo «comunistello da sagrestia», lui scrive al Papa: «Io sono in trincea e vedo coi miei occhi, sperimento con le mie mani e nella mia azione, il fiume del malessere provocato dalla disoccupazione e dalla miseria, […] vedo la fragilità delle dighe, l’egoismo crescente, […] le carenze del nostro sistema economico: posso tacere?». E conclude: «Il sindaco di una città è come un padre: non può non difendere il pane dei suoi figli»[10]. A fine dicembre la crisi della Pignone trova una via di uscita: è rilevata da Enrico Mattei (gruppo ENI), mentre un giornalista della Nazione gli appiccicava l’etichetta di «pesce rosso nell’acquasantiera».
«Assediare le mura di Gerico»
Nel 1951 la guerra in Corea aggrava la tensione esistente tra Stati Uniti e Unione Sovietica, incrementando la produzione di armi, anche nucleari, in entrambi i Paesi. La Pira si trovava a Roma e, partecipando alla Messa delle Nazioni presso la Chiesa Nuova[11], gli viene l’ispirazione di operare per la pace. Così, quando per strada incontra Renato Bitossi, sindacalista fiorentino, gli chiede di trasmettere un messaggio a Togliatti, che si trova in visita a Mosca, per indurre Stalin a por fine al riarmo nucleare. «Eravamo in una situazione politica terribile: la guerra sembrava scoppiasse da un momento all’altro. In una situazione così disperata mi nacque, pregando, l’idea di osare: spes contra spem», scrive alle claustrali[12]. Il tentativo naufragò, ma diede l’avvio a una nuova iniziativa: favorire la pace tra le nazioni. Già nel 1952 La Pira organizza a Firenze il primo Convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana e, nel discorso inaugurale, parla di «concilio delle nazioni viventi nell’orbita del cristianesimo» richiamandosi al Concilio del 1439, quando a Firenze fu firmato l’atto di unità tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. Egli è convinto che la Provvidenza stia operando un processo di maturazione storica nel mondo e che sia necessario, per raggiungere questo traguardo, svolgere un compito preciso: «Assediare Gerico; circondare le mura munite e chiuse della città avversa. Così: le mura cadranno: Gerico sarà reintegrata nell’unico corpo dell’unica vera civiltà umana e cristiana». Questo significa prima di tutto far crollare idealmente «le mura che tengono prigioniera la Chiesa in tutti i paesi d’Oltrecortina, da Varsavia a Pechino»[13], perché in quei Paesi, insieme ai pastori e ai membri della Chiesa, è prigioniera la Parola di Dio e di conseguenza la libera espansione della civiltà cristiana.
Nel 1955 organizza il Convegno dei sindaci delle capitali del mondo, ritenendo la città «il luogo dove si realizza meglio la convivenza tra gli uomini» e che quindi, proprio da essa «bisognava levare il grido in favore della pace»[14]. All’incontro parteciparono ben 38 sindaci — da Parigi, Washington, Mosca, Pechino, Londra, Nuova Delhi, Giacarta, Riyadh ecc. —, ai quali La Pira dice che nella polis devono esserci, ben coordinati, molti posti: uno per pregare (la chiesa), uno per amare (la famiglia), uno per lavorare (l’officina), uno per pensare (la scuola), uno per guarire (l’ospedale). E ricorda che E. Mounier definiva la città dell’uomo «abbozzo e prefigurazione della città di Dio». Un fatto straordinario accende la speranza nel cuore di La Pira: il sindaco di Mosca, Mikhail Jasnov, si inchina per salutare il card. Elia Dalla Costa e partecipa alla messa in Santa Croce. Scrive al Papa: «I sovietici vennero: vennero tutti i Sindaci e la celebrazione della S. Messa ebbe un’imponenza, una grandezza, una misteriosa solennità di cui solo in cielo potremo misurare la portata. Non esagero Beatissimo Padre, avete visto, a prova, la lettera che mi ha mandato un giornalista svizzero? Ha scritto: mi sembrava di vedere attuata la promessa di Fatima! Sogniamo? Ci illudiamo? […]. Furbi o non furbi; machiavellismo o non machiavellismo; il fatto resta, misterioso come un “segno” di cui il Signore parla»[15]. Due settimane dopo riceveva dal sindaco di Mosca un invito a ricambiare la visita.
Nel 1959 La Pira, dopo essersi recato a Fatima, decide che si recherà a Mosca il 15 agosto, festa dell’Assunta. Scrive alle claustrali: «In questi giorni ho deciso (se il Signore lo vorrà) di realizzare il progetto del pellegrinaggio in terra russa, presso i celebri monasteri di Kiev e di Mosca, ambedue dedicati alla Vergine Assunta […]. La cosa mi pare tanto bella! La Madonna non può che esserne contenta! Così da Fatima (che è in sostanza il santuario occidentale dell’Assunta) a Kiev e a Mosca (che sono i santuari orientali dell’Assunta) mi parrà di vedere steso un ponte di grazia, di unità, di pace: il ponte mariano dell’Assunta che deve ridare pace e unità alla Chiesa (di Occidente e d’Oriente) e pace e unità alle nazioni (di Oriente e d’Occidente)»[16]. Accompagnato nel viaggio dal giornalista Vittorio Citterich, prima di raggiungere l’aeroporto fa il giro delle basiliche romane, pregando in San Paolo, San Giovanni, Santa Maria Maggiore e infine a San Clemente, per un omaggio agli apostoli slavi Cirillo e Metodio.
Arrivato in Russia il 14 agosto, viene accolto da Gubin, rappresentante del Soviet supremo, al quale dice che l’indomani vuole andare a messa nella chiesa di San Luigi e poi in visita al santuario russo ortodosso della SS. Trinità a Zagorsk, rimandando così l’incontro al Soviet supremo. Perché, come spiega al poeta ucraino Nikolai Platonovic Bajan, suo tramite con Krusciov: «Io seguo una mia logica politica: per capire un popolo si devono prima di tutto prendere in considerazione le sue radici mistiche, i suoi santi. Conoscendo san Clodoveo io conosco la Francia, conoscendo san Vladimiro e sant’Antonio di Kiev io conosco la Russia, conoscendo san Sergio di Radonetz io capisco Mosca. È logico che prima di tutto, per parlare di pace, debba andare a pregare e a riflettere sulle tombe dei vostri santi»[17]. Poi invia quattro telegrammi: a Giovanni XXIII, all’arcivescovo di Firenze card. Dalla Costa, al presidente Gronchi e a Fanfani[18].
Di fronte al Soviet supremo «l’ingenuo» La Pira parla apertamente di Dio e della sua presenza nella storia, afferma che il suo intento è quello di «fare un ponte di preghiera»[19] tra Occidente e Oriente, per edificare la pace. E spiazza tutti dicendo: «C’è chi ha le bombe atomiche, io ho soltanto le bombe della preghiera. E siccome ogni ponte ha due piloni, sono andato prima nel santuario occidentale di Fatima, […] poi mi sono recato l’altro ieri, giorno dell’Assunta, nel vostro tradizionale santuario della Santissima Trinità […]. Dunque signori del Soviet supremo, il nostro comune programma deve essere questo: dare ai popoli la pace, costruire case, fecondare i campi, aprire officine, scuole, ospedali, far fiorire le arti e i giardini, ricostruire e aprire dovunque le chiese e le cattedrali. Perché la pace deve essere costruita a più piani, a ogni livello della realtà umana, economico, sociale, politico, culturale, religioso. Soltanto così il nostro ponte tra Oriente e Occidente diverrà incrollabile»[20].
Egli ritiene che nell’epoca della bomba atomica sia folle gestire i rapporti tra gli Stati mediante la teoria del conflitto inevitabile, basandosi sull’assioma di Machiavelli: quello che abbiamo davanti è un nemico da distruggere con la guerra, da ingannare con la menzogna, da affamare con il ricatto economico. Con le bombe atomiche, che le grandi potenze hanno a disposizione, bisogna rovesciare l’assioma: evitare la guerra perché sarebbe la distruzione del genere umano e considerare l’interlocutore non un nemico, ma una persona con la quale si deve competere nella pace, attraverso contatti diretti, scambi leali e rispetto. La politica deve procedere abbattendo i muri che dividono e costruendo ponti che uniscono. Tornato da Mosca — dopo aver salutato il patriarca Alessio, dal quale riceve in dono un’antica icona dal significato emblematico: rappresenta i santi fratelli Andrea e Pietro e i santi della Russia Alessio e Sergio in atto di supplica alla Vergine Maria —, scrive a Giovanni XXIII le motivazioni che lo hanno spinto a partire[21]. Quel viaggio — in cui, fra l’altro, ottenne che fosse restaurata la cappella dov’è sepolto un monaco del Monte Athos, Massimo il Greco, allievo del Savonarola a Firenze e poi rinnovatore della teologia russa —, aprì un varco nelle mura di odio che separavano i due blocchi, ma fu anche l’occasione per iniziare un dialogo tra La Pira e Krusciov: continuarono a scriversi, e ogni 15 agosto un telegramma partiva dall’Italia, ricordando quello storico incontro[22].
Per costruire la pace
È il 1965 quando La Pira si getta a capofitto nell’impresa della pace in Vietnam[23]. Quella guerra scuoteva ormai tutti i Paesi del mondo e ovunque risuonavano appelli per far terminare quel massacro. Convocato a Firenze un Simposio internazionale per discutere la questione e cercare una soluzione, La Pira decide — insieme a qualche parlamentare inglese, russo e italiano — di mandare un appello ai Governi coinvolti, compreso quello di Hanoi, al quale scrive: «Il nostro fine è chiaro: iniziare i negoziati, aprire le prospettive di un accordo destinato a dare stabilità e pace a tutto il popolo del Vietnam! Questo Symposium avrà efficacia? Noi lo speriamo […]. Spes contra spem!»[24].
Constatato il riscontro nullo, sceglie — dopo aver ottenuto la disponibilità di Ho Chi Minh — di partire per Hanoi[25]. La Pira sapeva che, per giungere a una soluzione del problema vietnamita, era fondamentale capire se, per il Governo del Vietnam del Nord, il ritiro delle truppe americane fosse la condizione previa al negoziato, oppure no. Soltanto nel secondo caso potevano trovarsi i margini per una trattativa. Nel lungo colloquio con Ho Chi Minh (due ore) i temi principali furono le difficili prospettive della pace e le condizioni del Governo vietnamita per giungere a un compromesso[26]. Per la riuscita dell’operazione erano importanti sia la riservatezza — perché Ho Chi Minh non voleva risultare il primo a cedere —, sia il fatto, ben noto ai vietnamiti, che La Pira era amico di Fanfani, quell’anno presidente dell’Assemblea dell’ONU. Tutto fallì a causa di una fuga di notizie sui media statunitensi, e il conflitto si protrasse fino al 1973, quando le condizioni di pace alla Conferenza di Parigi ricalcarono quelle ottenute da La Pira otto anni prima[27].
Fra le molte altre iniziative di La Pira[28] brilla quella per riunire i figli di Abramo sotto la tenda della pace. Il dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani rientrava nella visione lapiriana della storia, profeticamente anticipando quanto afferma la Dichiarazione Nostra aetate del Vaticano II. I Colloqui Mediterranei, iniziati a Firenze nel 1958[29], diventarono così il laboratorio della sua visione geopolitica. Il Mediterraneo è lo spazio vitale di Abramo, padre delle tre religioni monoteistiche: «Qui si affacciano paesi cattolici di grande rilievo come la Francia, l’Italia e la Spagna […]; inoltre c’è il mistero doloroso ma pieno di speranza di Israele; infine ci si imbatte con l’altro mistero di Ismaele, cercatore anche lui dell’unica luce del verbo di Dio»[30]. Conseguenza: deve tornare a essere un luogo di pace e di fratellanza tra i popoli che vi si affacciano. Purtroppo nel 1967 le speranze di pace vengono travolte dalla guerra dei sei giorni, che vede Israele contrapposto a Siria, Egitto, Giordania e Iraq.
La Pira decide allora di ripetere il viaggio fatto nel 1958 in Terra Santa[31] e d’incontrare sia Abba Eban, ministro degli esteri israeliano, per convincerlo a trattare con gli arabi, sia il presidente egiziano Nasser[32], il quale, proprio su consiglio di La Pira, smantellerà alcune fortificazioni come segnale di distensione. Al ritorno si chiederà: «Quali risultati? Possiamo e dobbiamo dirlo: abbiamo trovato in tutti il desiderio sincero e vivo di pace; ciò che divide è soltanto il “muro della diffidenza”: bisogna abbattere questo muro, ecco tutto, e se questo muro cade, la pace è fatta! Ci vogliono atti che aprano le porte alla fiducia e alla speranza!»[33]. Da quel momento i suoi sforzi in favore della pace, ovunque nel mondo, si moltiplicano. Nel 1969 interviene alla sessione del Comitato per il disarmo del Consiglio mondiale della pace, affermando la necessità storica e politica, per la sicurezza e la pace in Europa, di riconoscere Berlino come «città ponte» tra le due Germanie. E aggiunge: al crollo di questo muro altri seguiranno, in Corea, a Gerusalemme e in Biafra.
Nei discorsi sul disarmo la Pira cita più volte Kennedy, il primo a sostenere la necessità, per la sopravvivenza del genere umano, di porre fine alla guerra. Convinto che il mondo si trovi ormai sul crinale apocalittico della storia, La Pira ricorda che non c’è altra via, per la salvezza dell’uomo, se non quella indicata dal profeta Isaia: «Il Signore giudicherà i popoli e farà da moderatore fra molte nazioni; esse trasformeranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2,4). Nel 1970 a Leningrado, per il Congresso mondiale delle città gemellate, invita tutte le città del mondo a prendere coscienza del proprio ruolo nello spingere i popoli verso la convergenza e una pacificazione finalmente definitiva. Nel 1971 è a Budapest, al Congresso del Consiglio mondiale della pace, e afferma, proprio dopo aver ricordato quanti conflitti affliggono l’umanità: «La guerra come strumento per la soluzione di questi conflitti, sta per essere sradicata […]. Al suo posto si collocano i grandi strumenti civili e umani — cristiani! — che la non violenza attiva mette sempre più a disposizione degli uomini, per la soluzione dei loro conflitti»[34].
Nel 1973, quando in Asia sta terminando la guerra del Vietnam, in Medio Oriente scoppia il quarto conflitto arabo-israeliano. Parlando della pace nel Mediterraneo, La Pira afferma: «La soluzione del problema palestinese non può essere che politica; il possibile dialogo politico arabo-israeliano non può ormai (se vuole essere davvero risolutivo) che essere triangolare: Israele, Palestina e gli altri Stati arabi». Perché nella Bibbia è scritto che arriverà un tempo in cui «vi sarà una strada dall’Egitto alla Siria e il siro si recherà in Egitto e l’egiziano andrà in Siria ed Egitto e Siria serviranno il Signore; e in quel tempo Israele, terzo con Egitto e Siria, sarà benedetto. Li benedirà il Signore dicendo benedetto l’Egitto, mio popolo, la Siria opera delle mie mani e Israele, mia eredità» (Is 19,23). E nel Corano si legge: «O gente del Libro! Venite a un accordo equo tra noi e voi: […] né ci sia tra noi padrone che non sia Dio» (3,64)[35].
Un sogno? Se lo chiedeva già La Pira. Certo, i conflitti oggi sono in parte cambiati: alle bombe atomiche — che tuttavia restano, e aumentano — subentrano gli attentati nelle città. Non sono cambiate però le richieste di pace, che si levano ovunque, ma continuano a rimanere inascoltate. Eppure, per dare una speranza all’umanità sofferente, il sentiero da percorrere rimane lo stesso. Quello indicato da Isaia e da un profeta moderno che aveva voluto credere nella pace al di là di ogni speranza. Spes contra spem[36] .
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[1] Cfr R. BIGI, Il sindaco santo. La vita, le opere, i segreti di Giorgio La Pira, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2004, 28. Tra i molti altri volumi editi nel centenario ricordiamo: R. DONI, Giorgio La Pira. Profeta di dialogo e di pace, Milano, Paoline, 2004; G. LA PIRA, Beatissimo padre. Lettere a Pio XII, a cura di A. RICCARDI, Milano, Mondadori, 2004; G. LA PIRA, Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi: 1965-1977, a cura di GIORGIO GIOVANNONI – GIANNI GIOVANNONI, Milano, Paoline, 2004; P. F. LISTRI, Ecco La Pira. Chi fu, cosa fece, quanto ne resta, Firenze, Le Lettere, 2004; A. L’ARCO, Giorgio La Pira. Profeta testimone del Risorto, Napoli, Arti grafiche Don Bosco, 2005; cfr anche P. VANZAN, «Giorgio La Pira nel centenario della nascita», in Civ. Catt. 2004 II 26-36; ID., «Giorgio La Pira: “ambasciatore di Cristo”», ivi, 1994 IV 552-566.
[2] Su questo bisogno cfr R. VINERBA, La testimonianza morale del cristiano in campo politico. L’esempio di Giorgio La Pira, apparso per iniziativa congiunta dell’Arcidiocesi e della Provincia di Perugia (2004).
[3] R. DONI, Giorgio La Pira. Profeta…, cit., 27.
[4] A questa messa — sempre animata da La Pira, che ribadiva l’urgenza di costruire la Chiesa e la civiltà dell’amore proprio intorno all’Eucaristia e con i poveri —, fin dal 1945 partecipava costantemente anche Fioretta Mazzei (cfr nota 6).
[5] R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 69.
[6] Pino Arpioni, Oliviero Olivieri e soprattutto Fioretta Mazzei. Eletta consigliere per la DC (rieletta per quasi 50 anni), fu la coordinatrice principale delle iniziative di La Pira. Morì a Firenze l’11 novembre 1998, offrendo le sofferenze per la sua città e per la causa della pace.
[7] La Pira era collegato ai «professorini» dell’Università Cattolica che, fin dal 1942, in casa Padovani a Milano, progettavano il futuro dell’Italia libera, e con gli stessi s’impegnò molto alla Costituente, facendo parte della singolare «comunità del porcellino», ospiti delle sorelle Portoghesi alla Chiesa Nuova nell’Urbe (1946-47).
[8] La Pignone, punto di forza della meccanica fiorentina, era parte del gruppo SNIA, che l’aveva rilevata dai vecchi proprietari nel 1946 e ora aveva deciso l’abbandono del settore, licenziando in tronco le maestranze: cfr R. DONI, Giorgio La Pira…, cit., 75-92.
[9] G. LA PIRA, Beatissimo padre…, cit., 73. La lettera, datata 28 ottobre, è la prima delle molte sul caso Pignone.
[10] Ivi, 87.
[11] Nel «conventino» adiacente erano vissuti, durante i lavori della Costituente, i «professorini» dell’Università Cattolica (Dossetti, Lazzati, La Pira ecc.), i quali, proprio confrontandosi sull’umanesimo integrale di J. Maritain e sul personalismo comunitario-solidarista di E. Mounier, varano importanti passaggi della Costituzione: cfr R. DONI, Giorgio La Pira…, cit., 62-70.
[12] R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 88. Giuseppe Lazzati, nella prefazione a G. LA PIRA, Lettere alle claustrali, Milano, Vita e Pensiero, 1978, scriveva: «Chi voglia afferrare il cuore nascosto di La Pira, che illuminava tutta la sua vita, dandole un senso di profonda unità, deve leggere queste lettere, […] quasi un diario dell’itinerario spirituale da lui percorso».
[13] R. DONI, Giorgio La Pira…, cit., 113.
[14] «Ciascuna città e civiltà è legata organicamente per intimo nesso alle altre: formano tutte insieme un unico grandioso organismo», poiché sono arroccate su valori eterni e portano con sé, lungo il corso dei secoli e delle generazioni, gli eventi di cui sono state testimoni e protagoniste. «Esse sono come libri vivi della storia e della civiltà umana, destinati alla formazione umana e spirituale delle generazioni future» (R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 98).
[15] G. LA PIRA, Beatissimo padre…, cit., 147.
[16] R. DONI, Giorgio La Pira…, cit., 138.
[17] Ivi, 149 s. Bajan, commilitone di Krusciov durante la Seconda guerra mondiale, era diventato deputato del Soviet supremo e aveva partecipato a molti incontri internazionali organizzati a Firenze da La Pira.
[18] Ivi, 150. Citterich ricorda che, sentito il nome Giovanni XXIII e l’indirizzo Città del Vaticano, l’impiegata affermò che era il primo telegramma che da Mosca partiva per il Papa di Roma da quando era stato inventato il telegrafo. Sempre Citterich, in Avvenire, 14 agosto 2005, scrive che La Pira volò a Mosca con una valigia piena di santini — li avrebbe distribuiti nella Piazza Rossa —, e grande fu il trambusto al controllo doganale sovietico.
[19] Era l’appello che rivolgeva, nelle lettere alle monache di clausura di tutto il mondo, ogni volta che partiva per un viaggio importante o quando doveva affrontare questioni particolarmente gravi: «Fare un ponte di preghiera».
[20] R. DONI, Giorgio La Pira…, cit., 155.
[21] «Operare la prima apertura nella “cortina”: “entrare in Gerico”: e tutto ciò con uno scopo solo: l’unità della Chiesa d’Occidente e di Oriente: unità che condiziona quella futura dei popoli e delle nazioni» (R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 103).
[22] Sui molti viaggi di La Pira a Mosca, tra cui spicca quello del 1963 per una tavola rotonda Est-Ovest sul disarmo nucleare e quello del 1973, quando vi si recò dopo essere stato a Leningrado per il convegno delle città gemellate, cfr M. GARZANTI – L. TONINI, Giorgio La Pira e la Russia, Firenze, Giunti, 2004. Altri titoli di questa collana: Giorgio La Pira e la vocazione di Israele (notevole il carteggio tra La Pira e M. Buber); Giorgio La Pira e la Francia. Da Maritain a de Gaulle, mentre L’attesa della povera gente e Giorgio La Pira e la cultura economica anglosassone si collegano bene con la ristampa di G. LA PIRA, La nostra vocazione sociale, Roma, AVE, 2004, dove lo «stare con i poveri» trova corrispondenza nella «architettura della polis» in seno alla Costituente.
[23] Il conflitto in Vietnam si era aggravato nel 1964 quando gli Stati Uniti, che fin ad allora avevano sostenuto dall’esterno Saigon nella lotta contro il Fronte di Liberazione Nazionale, dopo un presunto incidente nel Golfo del Tonchino, decisero l’intervento militare diretto.
[24] G. LA PIRA, Il sentiero di Isaia, Milano, Paoline, 2004, 25.
[25] Questa volta lo accompagnava Mario Primicerio, i cui appunti furono preziosi tanto ai biografi lapiriani quanto al processo canonico. Un viaggio molto difficile e lungo, poiché dovettero raggiungere Mosca, attraverso la Polonia, quindi Pechino e infine, su un piccolo bimotore, Hanoi.
[26] «Perché il negoziato di pace avvenga è necessario: a) la cessazione del fuoco in tutto il territorio del Vietnam, Nord e Sud; b) la dichiarazione secondo la quale gli accordi di Ginevra del 1954 vengono assunti come base del negoziato» (R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 106). Cfr anche R. DONI, Giorgio La Pira…, 174-184. Secondo gli accordi di Ginevra — che misero fine al conflitto tra il Fronte di Liberazione Nazionale e l’esercito coloniale francese — la divisione del Vietnam era provvisoria: doveva essere superata con un referendum nel quale il popolo vietnamita avrebbe scelto il proprio Governo in una nazione riunificata e neutrale rispetto ai blocchi sovietico e americano.
[27] R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 108. Donde la sua amarezza: «Perché non negoziare allora? Quante e quali perdite e distruzioni in questi otto anni! Perdite umane e distruzioni materiali, morali, economiche, spirituali, politiche! Non si poteva negoziare allora?».
[28] A Firenze promuove il Comitato internazionale per le ricerche spaziali; una tavola rotonda sul disarmo; varie iniziative per valorizzare l’importanza dei Paesi del Terzo Mondo, in particolare degli emergenti Stati dell’Africa. Per questo invita a Firenze il presidente del Senegal, Léopold Senghor, prestigioso leader dei movimenti di liberazione africani. Senza dimenticare il conferimento della cittadinanza onoraria di Firenze a U Thant, segretario dell’ONU, e all’architetto Le Corbusier.
[29] L’idea di questi colloqui nasce dall’incontro con il re del Marocco, Maometto V, che gli dice: «I problemi del Mediterraneo sono solidali e necessitano di una soluzione unica, solidale; chiami tutti i popoli mediterranei a Firenze», e lo invita a ricambiare la visita. La Pira andrà in Marocco e scriverà: «Un viaggio provvidenziale, durante il quale ho potuto tessere rapporti di autentica amicizia spirituale» (R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 110; cfr anche G. LA PIRA, Beatissimo padre…, 197-202).
[30] Questa idea è ispirata dalle affermazioni dell’islamologo francese L. Massignon, che aveva sostenuto «l’esistenza di un comune legame tra ebraismo, cristianesimo e islàm proprio nel comune patrimonio abramitico», ossia in Abramo pater omnium credentium (cfr G. LA PIRA, Beatissimo padre…, 29).
[31] G. LA PIRA, Il sentiero di Isaia…, cit., 123. Anche l’itinerario del viaggio è lo stesso: da Hebron, dove si trova la tomba del patriarca Abramo, verso Betlemme, dov’è nato il Redentore, e poi a Gerusalemme; quindi il Carmelo, monte del profeta Elia; Nazaret, dove la Vergine concepì Gesù; e infine l’Egitto, dove trovò rifugio la Sacra Famiglia.
[32] Il carteggio tra i due era iniziato nel 1956, al tempo della crisi di Suez, ma si approfondì dopo il primo viaggio di La Pira in Egitto nel 1958, quando Nasser gli scriveva: «Io vi ringrazio per i vostri nobili sentimenti che vi hanno spinto a visitare i luoghi santi per pregare Dio perché faccia regnare la pace nel mondo. Non posso che associare la mia voce alla vostra e a quella di milioni di esseri umani che lavorano per la pace. Possa Dio esaudire le vostre preghiere» (R. BIGI, Il sindaco santo…, cit., 111).
[33] G. LA PIRA, Il sentiero di Isaia…, cit., 127.
[34] Ivi, 246.
[35] Cfr Ivi, 286. Del resto questa utopia di La Pira era stata formulata già nel 1959, quando egli scriveva che la Verna di Francesco «è come una terrazza missionaria sulle nazioni, specie quelle dell’Islam e d’Israele», mentre Camaldoli «è come una terrazza missionaria sull’Oriente», perché un discepolo di san Romualdo, san Bruno, «andò nell’anno mille a Kiev, ove fu ospite del re san Vladimiro» (G. LA PIRA, Lettere alle claustrali, cit., 213 s).
[36] La Pira muore a Firenze il 5 novembre 1977, «in quel sabato senza vespri che non conosce tramonti», come egli stesso aveva definito, nel 1942, il giorno della sua morte (cfr R. DONI, Giorgio La Pira…, 204).