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L’aereo Ita Airways, con a bordo papa Francesco, il suo seguito e i giornalisti accreditati, è decollato domenica 24 luglio 2022 alle 9,16 dall’aeroporto di Fiumicino, alla volta dell’aeroporto di Edmonton, dove è atterrato alle 11,20 circa. Così è iniziato il viaggio di papa Francesco in Canada, il secondo Paese più esteso al mondo, grande circa 10 milioni di kmq, abitato però solo da 38 milioni di persone.
Un Paese mosaico
Il Canada è un composito mosaico di popoli, religioni e culture di diverse origini, gravitanti attorno a due grandi aree culturali e linguistiche legate alla storia della sua colonizzazione: quella anglofona e quella francofona. Già abitato da popolazioni indigene, il Canada fu colonizzato da francesi e inglesi all’inizio del XVII secolo. La Francia cedette gran parte dei suoi territori al Regno Unito nel 1763, dopo la sconfitta subita durante la Guerra franco-indiana nell’ambito della Guerra dei sette anni.
Nel 1867 nacque la Federazione canadese, con l’unione di tre colonie del Nord America britannico. Nel 1931 lo «Statuto di Westminster» sancì l’indipendenza del Canada all’interno del Commonwealth. Dal 1993 sono stati firmati diversi accordi e trattati, per rispondere alle richieste di autonomia delle tribù indiane: First Nations («Prime Nazioni», che rappresentano la comunità predominante di indigeni del Canada, nella parte meridionale del territorio della nazione); Métis (i meticci discendenti dall’unione fra indigeni ed europei situati nella parte più occidentale del Canada); e Inuit (che abitano la zona artica).
Un lungo processo di verità e riconciliazione
Con queste tribù è stato avviato un lungo processo di verità e riconciliazione sulla drammatica vicenda degli oltre 150.000 bambini autoctoni costretti a frequentare le scuole residenziali indigene, affidate dal governo, con scarsi finanziamenti, ad alcune comunità cristiane (Chiesa cattolica[1], anglicana, e Comunità protestanti), nell’ambito della politica di assimilazione forzata promossa per oltre un secolo dallo Stato canadese. Infatti, lo scopo di questi istituti, secondo le politiche del tempo, era quello di togliere i bambini dall’influenza culturale delle loro comunità indigene e assimilarli alla cultura occidentale. Ai bambini, puniti spesso severamente, era vietato parlare nella loro lingua di nascita e seguire i loro culti religiosi. Essi vivevano in queste scuole, prelevati il più delle volte con la forza dalle loro case, subendo abusi, nel sovraffollamento e in scarse condizioni igienico-sanitarie.
Nel 2008, dopo la firma di un accordo per il risarcimento delle vittime, l’allora Primo ministro Stephen Harper ha presentato le scuse formali del governo canadese ed è stata istituita una speciale Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione. Nel 2015, dopo sette anni di ricerche, la Commissione ha diffuso un rapporto da cui emergono nel dettaglio i maltrattamenti e le cattive condizioni a cui furono costretti questi bambini, che in oltre 3.000 trovarono la morte, a causa di malattie, fame, freddo e abusi, a partire dall’istituzione di tali scuole nel 1883. Il rapporto definisce il sistema scolastico residenziale come un vero e proprio «genocidio culturale». La vicenda è tornata nuovamente alla ribalta nell’estate del 2021, dopo la scoperta di 215 tombe anonime nel luogo in cui sorgeva la scuola residenziale cattolica di Kamloops, in British Columbia, e successivamente di nuovi resti in altri istituti che furono cattolici.
Per questo fatto tutte le Chiese coinvolte hanno chiesto perdono. La Chiesa cattolica ha avviato anche un piano di risarcimenti, rispondendo alle richieste della Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione. A queste vicende è legato il viaggio del Pontefice in Canada, inteso come «pellegrinaggio penitenziale»[2]. Infatti, una precisa istanza aveva chiamato in causa il Papa, chiedendo che presentasse domanda di perdono alle vittime in territorio canadese. Prima del viaggio i vescovi cattolici canadesi, tra il 28 marzo e il 1° aprile, si sono recati a Roma insieme a una rappresentanza di indigeni, per incontrare il Pontefice e preparare la visita pastorale come parte di un cammino di guarigione e riconciliazione.
Memoria e riconciliazione
Francesco è atterrato a Edmonton, capitale della provincia dell’Alberta. Al suo arrivo, è stato accolto dalla Governatrice generale del Canada, Mary Simon, dal Primo ministro, Justin Trudeau, e da un rappresentante delle Popolazioni indigene. Quindi il Papa si è recato nell’hangar dell’aeroporto di Edmonton e, dopo l’esecuzione di un canto tradizionale di benvenuto in lingua autoctona e il saluto di alcuni rappresentanti indigeni, si è congedato dalla Governatrice generale e dal Primo ministro per trasferirsi in auto al St. Joseph Seminary, dove si è riposato in attesa degli eventi del giorno successivo.
Lunedì 25 luglio, dopo aver celebrato la Messa in privato, il Pontefice si è trasferito a Maskwacis («colline dell’orso», in lingua cree, perché l’area era ricoperta di cespugli di mirtilli che attiravano nella zona una numerosa popolazione di orsi). Il luogo si trova nell’Alberta centrale, a circa 70 chilometri a sud della città di Edmonton. Ospita le riserve del gruppo delle tribù indiane del Canada occidentale, le Quattro Nazioni di Maskwacis: l’Ermineskin Cree Nation, Louis Bull Tribe, Montana First Nation e Samson Cree Nation. Qui il Papa è stato accolto, all’ingresso della chiesa dedicata alla Madonna dei Sette Dolori, dal parroco e da alcuni anziani delle popolazioni Prime Nazioni, Métis e Inuit. Poi, accompagnato da suoni di tamburo, è entrato nel cimitero in forma strettamente privata, e si è soffermato in preghiera silenziosa. Al termine, si è recato al Bear Park Pow-Wow Grounds, dove all’ingresso è stato accolto da una delegazione di capi indigeni provenienti da tutto il Paese.
Il capo Usow-Kihew (Little Child) ha rivolto alcune parole al Papa, riconoscendo «con profondo apprezzamento il grande sforzo personale che ha fatto per arrivare nella nostra terra». «È stato chiaro a tutti noi che ha ascoltato profondamente e con grande compassione le testimonianze», ha detto ricordando la visita a Roma, alla quale aveva partecipato. «Le parole che ci ha rivolto in risposta sono venute chiaramente dal profondo del suo cuore e sono state, per coloro che le hanno ascoltate, fonte di profondo conforto e grande incoraggiamento», ha concluso.
Alle parole di benvenuto è seguito un discorso di Francesco, che ha ricordato gli incontri avuti a Roma con gli indigeni canadesi quattro mesi prima. Allora gli erano state consegnate due paia di mocassini, segno della sofferenza patita dai bambini indigeni, in particolare da quanti purtroppo non fecero più ritorno a casa dalle scuole residenziali. Gli era stato chiesto di restituire i mocassini una volta arrivato in Canada. E Francesco li aveva con sé. «Quei mocassini – ha detto – ci parlano anche di un cammino: camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione». La memoria è la base per questo futuro: gli indigeni hanno «vissuto in questa terra per migliaia di anni con stili di vita che hanno rispettato la terra stessa, ereditata dalle generazioni passate e custodita per quelle future».
Francesco ha sottolineato questo rapporto saggio con la terra, facendo riferimento implicito a quanto aveva scritto sugli indigeni in Querida Amazonia: «L’avete trattata come un dono del Creatore da condividere con gli altri e da amare in armonia con tutto quanto esiste, in una vivida interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Avete così imparato a nutrire un senso di famiglia e di comunità, e sviluppato legami saldi tra le generazioni, onorando gli anziani e prendendovi cura dei piccoli».
Ma la memoria ci porta pure tristemente alle politiche di assimilazione, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali. Il Papa ha chiesto «perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni». A queste parole le persone presenti hanno fatto seguire un lungo applauso. Il Papa ha ribadito «con vergogna e chiarezza: chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene». Si è trattato di un «errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo». Chiaro che le scuse «non sono un punto di arrivo»: «costituiscono solo il primo passo, il punto di partenza».
Concluso il discorso, due uomini, al ritmo di un suono cadenzato di tamburi, hanno donato al Papa un copricapo piumato. Quindi, dopo l’esecuzione di un canto e la recita del Padre nostro, il Papa ha salutato individualmente alcuni anziani nativi, e poi ha fatto rientro al St. Joseph Seminary.
Nel pomeriggio, alle 16,30 si è diretto alla volta della chiesa del Sacro Cuore dei Primi Popoli. Costruita nel 1913, essa è la parrocchia nazionale degli indigeni, dove la fede cattolica viene espressa nel contesto della cultura aborigena. Ad accoglierlo le parole di benvenuto del parroco, p. Susai Jesu, oblato di Maria Immacolata, e di due parrocchiani.
Nel suo discorso il Pontefice ha definito la Chiesa come «una casa per tutti, aperta e inclusiva», «dove l’ospitalità e l’accoglienza, valori tipici della cultura indigena, sono essenziali; dove ognuno deve sentirsi benvenuto, indipendentemente dalle vicende trascorse e dalle circostanze di vita». Francesco ha fatto appello alla riconciliazione. Anzi, la Chiesa stessa è un «corpo vivente di riconciliazione», e «la stessa parola riconciliazione è praticamente sinonimo di Chiesa». Essa «è la casa dove conciliarsi nuovamente, dove riunirsi per ripartire e crescere insieme», la biblica «tenda del convegno», così ben ricordata simbolicamente dalla tepee, la tipica tenda indigena.
La riconciliazione non è «una sorta di compromesso», e «nulla può cancellare la dignità violata, il male subìto, la fiducia tradita. E nemmeno la vergogna di noi credenti deve mai cancellarsi». Ma «che cosa vuol dire questo per chi porta dentro ferite tanto dolorose?», ha detto Francesco, riferendosi alla ferita subita dalle popolazioni indigene. L’unico modo è «guardare insieme Cristo, l’amore tradito e crocifisso per noi; guardare Gesù, crocifisso in tanti alunni delle scuole residenziali. La riconciliazione, infatti, è più un dono che un’opera nostra.
Davanti «al dolore incancellabile provato in questi luoghi da tanti all’interno di istituzioni ecclesiali, viene solo da provare rabbia e vergogna». Perché questo è potuto accadere? «Ciò è avvenuto quando i credenti si sono lasciati mondanizzare e, anziché promuovere la riconciliazione, hanno imposto il loro modello culturale. Questo atteggiamento è duro a morire, anche dal punto di vista religioso. Infatti, sembrerebbe più conveniente inculcare Dio nelle persone, anziché permettere ad esse di avvicinarsi a Dio. Ma questo non funziona mai, perché il Signore non agisce così: egli non costringe, non soffoca e non opprime; sempre, invece, ama, libera e lascia liberi. Egli non sostiene con il suo Spirito chi assoggetta gli altri, chi confonde il Vangelo della riconciliazione con il proselitismo. Perché non si può annunciare Dio in un modo contrario a Dio. Eppure, quante volte è successo nella storia! Mentre Dio semplicemente e umilmente si propone, noi abbiamo sempre la tentazione di imporlo e di imporci in suo nome».
Dopo il discorso, la preghiera del Padre nostro e la benedizione, il Papa ha salutato alcuni fedeli e ha benedetto la statua di santa Kateri Tekakwitha[3] (1656-80), che è stata la prima indigena del Nord America – del villaggio Mohawk di Ossernenon, nello Stato di New York – a essere riconosciuta santa dalla Chiesa cattolica. Quindi ha fatto ritorno al St. Joseph Seminary.
Costruire la storia
Martedì 26 luglio, alle 9,00, il Papa si è recato al Commonwealth Stadium, un complesso di circa 17 ettari, situato a pochi minuti dal centro della città. È il più grande stadio all’aperto del Canada. Qui Francesco ha fatto un giro tra i fedeli in papamobile. Poi ha celebrato la Messa della festa dei santi Gioacchino e Anna in inglese e latino.
Nella sua omelia, si è soffermato su due punti. Il primo è che «siamo figli di una storia da custodire. Non siamo individui isolati, non siamo isole, nessuno viene al mondo slegato dagli altri. Le nostre radici, l’amore che ci ha atteso e che abbiamo ricevuto venendo al mondo, gli ambienti familiari in cui siamo cresciuti, fanno parte di una storia unica, che ci ha preceduti e generati». Questo stretto legame con gli antenati e gli anziani è fondamentale nell’esperienza degli indigeni.
Il secondo punto è il fatto che siamo anche «artigiani di una storia da costruire». Da qui la domanda: «Che società volete costruire? Abbiamo ricevuto tanto dalle mani di chi ci ha preceduto: che cosa vogliamo lasciare in eredità ai nostri posteri?». Troppo facile criticare: siamo chiamati a essere «artigiani di una storia nuova, tessitori di speranza, costruttori di futuro, operatori di pace».
Alla fine della celebrazione il Papa ha fatto ritorno al Seminario. È ripartito alle 16,00, diretto al Lac Ste. Anne, lago ampio e poco profondo, a circa 72 km a ovest di Edmonton, che è meta di pellegrinaggi dalla fine del XIX secolo. Chiamato «lago di Dio» dai Nakota Sioux e «lago dello Spirito» dal popolo Cree, fu defiito Lac Ste. Anne da p. Jean-Baptiste Thibault, il primo sacerdote a stabilire una missione cattolica permanente, nel 1842, in Alberta, in questo posto già ritenuto sacro da generazioni e noto agli indigeni come luogo di guarigione. La prima chiesa fu costruita nel 1844. Il primo pellegrinaggio annuale fu organizzato dagli oblati di Maria Immacolata nel luglio 1889. Questo luogo è stato dichiarato sito storico nazionale dal governo canadese nel 2004.
Qui il Papa ha partecipato al pellegrinaggio con una liturgia della Parola. Accolto davanti alla chiesa parrocchiale, ha proseguito verso il lago sulla sedia a rotelle, passando accanto alla statua di sant’Anna, accompagnato dai suoni tradizionali del tamburo. Arrivato al lago, ha fatto il segno della croce verso i 4 punti cardinali, secondo la consuetudine indigena, e ha benedetto l’acqua del lago. Infine, ha proseguito fino al palco, sempre benedicendo i fedeli con l’acqua del lago. Qui ha tenuto l’omelia.
Francesco ha chiesto di immaginare Gesù, che svolse gran parte del suo ministero sulle rive del lago di Galilea, che era «un condensato di differenze: sulle sue rive si incontravano pescatori e pubblicani, centurioni e schiavi, farisei e poveri, uomini e donne delle più variegate provenienze ed estrazioni sociali». Lì Gesù predicò il regno di Dio «non a gente religiosa selezionata, ma a popolazioni diverse che accorrevano da più parti come oggi, a tutti e in un teatro naturale come questo. Dio elesse quel contesto poliedrico ed eterogeneo per annunciare al mondo qualcosa di rivoluzionario». Proprio quel lago, «“meticciato di diversità”, divenne la sede di un inaudito annuncio di fraternità; di una rivoluzione senza morti e feriti, quella dell’amore». Il Papa ha anche ricordato quanto bene hanno fatto «i missionari autenticamente evangelizzatori per preservare in tante parti del mondo le lingue e le culture autoctone».
Ma a Gesù Signore il Papa ha chiesto di portare «i traumi delle violenze subite dai nostri fratelli e sorelle indigeni. In questo luogo benedetto, dove regnano l’armonia e la pace», ti presentiamo le «disarmonie delle nostre storie, i terribili effetti della colonizzazione, il dolore incancellabile di tante famiglie, nonni e bambini».
In particolare, ha ricordato che in Canada, l’«“inculturazione materna” è avvenuta proprio per opera di una nonna, sant’Anna, unendo la bellezza delle tradizioni indigene e della fede, e plasmandole con la saggezza di una nonna». Questa maternità è fondamentale. Infatti, «parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura». Questa perdita è «certamente una tragedia», ma le popolazioni indigene danno «una testimonianza di resilienza e di ripartenza, di pellegrinaggio verso la guarigione, di apertura del cuore a Dio che risana il nostro essere comunità».
Francesco ha poi insistito con chiarezza e determinazione sul fatto che «tutti noi, come Chiesa, abbiamo bisogno di guarigione: di essere risanati dalla tentazione di chiuderci in noi stessi, di scegliere la difesa dell’istituzione anziché la ricerca della verità, di preferire il potere mondano al servizio evangelico».
Al termine, il Papa è tornato nella chiesa parrocchiale. Lungo il percorso ha benedetto una statua di Nostra Signora che scioglie i nodi. Quindi ha fatto ritorno al Seminario.
Le culture indigene e il multiculturalismo
Mercoledì 27 luglio, dopo aver celebrato la Messa in privato, il Papa si è congedato dal St. Joseph Seminary, si è recato all’aeroporto ed è partito alla volta di Québec, dove è atterrato intorno alle 15,00. È stato accolto da cinque autorità locali.
La città di Québec, con i suoi oltre 500.000 abitanti, è la capitale del Québec e la seconda città più popolosa della provincia del Canada Orientale, dopo Montreal. È situata sulle rive del maestoso fiume San Lorenzo. Dichiarata nel 1985 Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è una città dal carattere europeo, francese nella sua impostazione architettonica, e tra le città più antiche del Nord America. Arcivescovo di Québec è il card. Gérald Cyprien Lacroix, dell’Istituto secolare Pio X.
Dall’aeroporto il Papa si è diretto alla Citadelle de Québec, residenza della Governatrice generale. L’enorme fortezza a forma di stella fu costruita dagli ingegneri reali britannici, tra il 1820 e il 1850. Qui si è tenuta la cerimonia di benvenuto ufficiale, seguita da un incontro privato con la Governatrice. Quindi il Papa, la Governatrice e il Primo ministro hanno raggiunto la sala dove è avvenuto l’incontro con le autorità civili, i rappresentanti delle popolazioni indigene e il corpo diplomatico.
Il Primo ministro ha rivolto un saluto, nel quale ha affermato che «la riconciliazione è una responsabilità di tutti noi», e ha parlato di un impegno congiunto di Chiesa, istituzioni e cittadini «nello spirito della guarigione». Riferendosi alle parole del Santo Padre in terra canadese, ha aggiunto: «Non c’è dubbio che lei abbia avuto un impatto enorme». Quindi la Governatrice ha tenuto un discorso. Gli indigeni, ha detto, sono tutti «venuti ad ascoltare ciò che aveva da dire con i cuori e le menti aperte, alcuni disposti a perdonare, altri a convivere con il dolore, ma tutti disposti ad ascoltare», e «tutti sperano di proseguire il loro cammino di guarigione». L’obiettivo di quello che Mary Simon in lingua inuktitut ha definito mamisagniq («un viaggio») è la «vera riconciliazione».
Poi ha preso la parola il Santo Padre. Il «deprecabile sistema» di assimilazione proprio delle scuole residenziali, ha affermato, è stato «promosso dalle autorità governative dell’epoca». E purtroppo, nonostante la fede cristiana abbia «svolto un ruolo essenziale nel plasmare i più alti ideali del Canada», in quel sistema «sono state coinvolte diverse istituzioni cattoliche locali». «È tragico quando dei credenti, come accaduto in quel periodo storico, si adeguano alle convenienze del mondo piuttosto che al Vangelo». Per questo Francesco ha espresso «vergogna e dolore» e, insieme ai vescovi del Paese, ha rinnovato la sua richiesta di perdono «per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene».
«La Santa Sede e le comunità cattoliche locali – ha proseguito Francesco – nutrono la concreta volontà di promuovere le culture indigene, con cammini spirituali appositi e confacenti, che comprendano anche l’attenzione alle tradizioni culturali, alle usanze, alle lingue e ai processi educativi propri, nello spirito della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni».
Tra gli altri temi trattati nel discorso spicca quello del multiculturalismo, che sta alla base della coesione di una società composita. «Il multiculturalismo – ha affermato il Papa – è una sfida permanente: è accogliere e abbracciare le diverse componenti presenti, rispettando, al contempo, la diversità delle loro tradizioni e culture, senza pensare che il processo sia compiuto una volta per tutte».
Alla fine, alle 17,15 circa, uscito dalla Citadelle de Québec, il Papa ha proseguito sulla papamobile – circondato dalla gente, lungo la strada – verso l’arcivescovado, dove è stato alloggiato.
«Trovare una strada per ricominciare»
Giovedì 28 luglio, alle 9,20, il Papa è arrivato al Santuario nazionale di Sainte-Anne-de-Beaupré. La basilica, situata lungo il fiume San Lorenzo, a 30 km dalla città di Québec, è il più antico luogo di pellegrinaggio del Nord America. La chiesa accoglie quasi un milione di visitatori ogni anno. La prima chiesa fu costruita nel 1658 per ospitare una statua miracolosa della Santa, e poi ampliata e ristrutturata più volte. La costruzione dell’attuale struttura fu avviata negli anni Venti del secolo scorso[4]. L’edificio è a cinque navate, a forma di croce latina e in stile neoromanico. Il Papa ha celebrato la Messa per la riconciliazione in francese e latino.
Commentando il Vangelo dei discepoli di Emmaus, egli ha affermato che proprio «mentre portiamo avanti i sogni, i progetti, le attese e le speranze che abitano il nostro cuore, ci scontriamo anche con le nostre fragilità e debolezze, sperimentiamo sconfitte e delusioni, e a volte restiamo prigionieri del senso di fallimento che ci paralizza». Questa è pure la situazione della «Chiesa pellegrina in Canada», che «sta facendo risuonare nel suo cuore in un faticoso cammino di guarigione e di riconciliazione». Infatti, «anche noi, dinanzi allo scandalo del male e al Corpo di Cristo ferito nella carne dei nostri fratelli indigeni, siamo piombati nell’amarezza e avvertiamo il peso del fallimento».
Francesco ha messo subito in guardia dalla tentazione della fuga: «Non c’è cosa peggiore – ha detto –, dinanzi ai fallimenti della vita, che quella di fuggire per non affrontarli. È una tentazione del nemico, che minaccia il nostro cammino spirituale e il cammino della Chiesa: vuole farci credere che quel fallimento sia ormai definitivo, vuole paralizzarci nell’amarezza e nella tristezza, convincerci che non c’è più niente da fare e che quindi non vale la pena di trovare una strada per ricominciare». Al contrario, l’obiettivo deve essere quello di «diventare strumenti di riconciliazione e di pace nella società in cui viviamo».
Dopo la celebrazione, il Papa ha fatto ritorno in arcivescovado. Ma, fuori programma, lungo la strada si è fermato a incontrare gli ospiti del Centro di accoglienza e spiritualità Fraternité St Alphonse, che accoglie circa 50 persone, tra cui anziani, persone che soffrono di varie dipendenze e malati di Aids.
Nel pomeriggio, alle 17,00, il Papa si è recato nella cattedrale di Notre-Dame de Québec. La chiesa fu edificata nel 1647. Nel 1674 assunse il titolo di cattedrale, in seguito alla nomina di Francesco de Laval – poi canonizzato – a primo vescovo della nuova diocesi della città di Québec. Duecento anni dopo, Pio IX la elevò a basilica.
Qui il Papa, accolto dal Cardinale arcivescovo di Québec e dal Presidente della Conferenza episcopale[5], ha celebrato i Vespri con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, i seminaristi e gli operatori pastorali. Poi ha tenuto un’omelia, in cui si è soffermato sulla sfida della secolarizzazione, «che da tempo ha ormai trasformato lo stile di vita delle donne e degli uomini di oggi, lasciando Dio quasi sullo sfondo». Francesco ha precisato che «quando osserviamo la cultura in cui siamo immersi, i suoi linguaggi e i suoi simboli, occorre stare attenti a non restare prigionieri del pessimismo e del risentimento, lasciandoci andare a giudizi negativi o a inutili nostalgie». A uno «sguardo negativo» bisogna sostituire uno «sguardo che discerne».
Lo sguardo negativo «nasce spesso da una fede che, sentendosi attaccata, si concepisce come una specie di “armatura” per difendersi dal mondo. Con amarezza accusa la realtà dicendo: “il mondo è cattivo, regna il peccato”, e rischia così di rivestirsi di uno “spirito da crociata”. Stiamo attenti a questo, perché non è cristiano; non è infatti il modo di fare di Dio». Il Signore, infatti, «che detesta la mondanità, ha uno sguardo buono sul mondo. Egli benedice la nostra vita, dice bene di noi e della nostra realtà, si incarna nelle situazioni della storia non per condannare, ma per far germogliare il seme del Regno proprio là dove sembrano trionfare le tenebre».
Come scrisse san Paolo VI, «la secolarizzazione è «lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione» (Evangelii nuntiandi, n. 55), di scoprire le leggi della realtà e della stessa vita umana poste dal Creatore». Infatti, ha proseguito Francesco, «Dio non ci vuole schiavi, ma figli, non vuole decidere al posto nostro, né opprimerci con un potere sacrale in un mondo governato da leggi religiose. No, Egli ci ha creati liberi e ci chiede di essere persone adulte e responsabili nella vita e nella società». A volte, dietro alla critica sulla secolarizzazione c’è «da parte nostra la nostalgia di un mondo sacralizzato, di una società di altri tempi nella quale la Chiesa e i suoi ministri avevano più potere e rilevanza sociale. Questa è una prospettiva sbagliata».
Altro, invece, è il secolarismo «che separa totalmente dal legame con il Creatore, cosicché Dio diventa superfluo». Allora il nostro compito è quello di «riflettere sui cambiamenti della società, che hanno influito sul modo in cui le persone pensano e organizzano la vita». E così scopriremo «che non è la fede a essere in crisi, ma certe forme e modi attraverso cui la annunciamo. E, perciò, la secolarizzazione è una sfida per la nostra immaginazione pastorale». In questo senso, bisogna «ritrovare una nuova passione per l’evangelizzazione, a cercare nuovi linguaggi, a cambiare alcune priorità pastorali, ad andare all’essenziale». E su questo Francesco ha proposto tre sfide.
La prima è far conoscere Gesù, tornando al primo annuncio, evitando di presentare aspetti secondari o replicando le forme pastorali del passato. La seconda è la testimonianza. Il Vangelo si annuncia in modo efficace quando è la vita a parlare. All’interno di questa sfida, il Papa ha ricordato che la Chiesa in Canada «ha iniziato un percorso nuovo, dopo essere stata ferita e sconvolta dal male perpetrato da alcuni suoi figli». Ha fatto riferimento «in particolare agli abusi sessuali commessi contro minori e persone vulnerabili». Inoltre – ha aggiunto –, «pensando al cammino di guarigione e riconciliazione con i fratelli e le sorelle indigeni, mai più la comunità cristiana si lasci contaminare dall’idea che esista una superiorità di una cultura rispetto ad altre e che sia legittimo usare mezzi di coercizione nei riguardi degli altri». Francesco ha chiesto una «Chiesa diversa: umile, mite, misericordiosa». Infine, la terza sfida è rappresentata dalla fraternità: la Chiesa sarà credibile testimone del Vangelo se i suoi membri vivranno la comunione e promuoveranno le relazioni di fraternità. Al termine dell’omelia, i presenti si sono alzati in piedi e hanno ringraziato il Papa con un lungo e caloroso applauso.
Poi il Cardinale arcivescovo di Québec ha accompagnato il Papa davanti alla tomba di san Francesco de Laval, dove essi hanno pregato in silenzio. Sono state esposte anche le reliquie di alcuni santi canadesi. Infine, verso le 18,30, Francesco ha fatto rientro in arcivescovado.
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Incontrare il volto Inuk di Gesù Cristo
Venerdì 29 luglio, dopo aver celebrato la Messa nella sua residenza, alle 9,00 il Papa ha incontrato in forma privata una delegazione di 15 degli oltre 200 gesuiti presenti in Canada. Successivamente, alle 10,45, ha ricevuto una delegazione di indigeni, pronunciando un discorso di saluto e poi salutando personalmente i membri della delegazione. Il momento ha lasciato spazio alla commozione e alle lacrime. Quindi il Papa ha raggiunto l’aeroporto di Québec, per volare, alle 12,45, a Iqaluit («luogo di molti pesci», in lingua inuktitut), capitale del territorio canadese di Nunavut, situata a circa 300 chilometri a sud del circolo polare artico. La città ospita la più grande comunità di Inuit, composta da 4.000 persone circa.
Francesco ha raggiunto la Nakasuk Elementary School, dove, alle 16,00, ha incontrato privatamente alcuni alunni delle ex scuole residenziali. L’incontro – anch’esso molto coinvolgente dal punto di vista emotivo – si è prolungato ben al di là del tempo previsto.
Al termine, il Papa si è recato nel piazzale per l’incontro con i giovani e con gli anziani. Dopo l’esecuzione di alcuni balli, canti e musiche tradizionali, Francesco ha tenuto un discorso, ribadendo il senso di «indignazione» e «vergogna» che lo accompagnano da mesi per le «politiche di assimilazione culturale». Gli è tornata alla mente la testimonianza di un anziano, che «descriveva la bellezza del clima che regnava nelle famiglie indigene prima dell’avvento del sistema delle scuole residenziali. Paragonava quella stagione, in cui nonni, genitori e figli stavano armoniosamente insieme, alla primavera, quando gli uccellini cantano felici attorno alla mamma. Ma all’improvviso – diceva – il canto si è fermato: le famiglie sono state disgregate, i piccoli portati via, lontani dal loro ambiente; su tutto è calato l’inverno».
Il Papa ha preso spunto dal qulliq che, «oltre a dare luce durante le lunghe notti invernali, permetteva, diffondendo calore, di resistere al rigore del clima: era dunque essenziale per vivere». Esso resta «un bellissimo simbolo di vita, di un vivere luminoso che non si arrende alle oscurità della notte».
Francesco si è rivolto soprattutto ai giovani Inuit, usando un’altra immagine a loro familiare. Indirizzandosi idealmente a uno di loro, ha detto: «Pensa alla rondine dell’artico che noi chiamiamo charrán: essa non lascia che i venti contrari o gli sbalzi di temperatura le impediscano di andare da un’estremità all’altra della terra; a volte sceglie vie che non sono dirette, accetta deviazioni, si adatta a certi venti… ma sempre mantiene chiara la meta, sempre arriva a destinazione».
Una terza immagine usata da Francesco è stata quella dell’hockey su ghiaccio, sport nazionale. Il Papa ha fatto riferimento ad essa, e ai campioni Sarah Nurse e Marie-Philip Poulin, per parlare della necessità di «fare squadra» tra le giovani generazioni: «L’hockey coniuga bene disciplina e creatività, tattica e fisicità; ma a fare la differenza è sempre lo spirito di squadra, presupposto indispensabile per affrontare le imprevedibili circostanze di gioco. Fare squadra significa credere che per raggiungere grandi obiettivi non si può andare avanti da soli; occorre muoversi insieme, avere la pazienza di intessere fitte reti di passaggi». L’ultimo augurio è stato quello di «incontrare il volto Inuk di Gesù Cristo».
Il Papa quindi si è recato all’aeroporto internazionale di Iqaluit, dove è avvenuta la cerimonia di congedo dal Canada, alla presenza della Governatrice generale. Alle 20,14 l’aereo, con a bordo il Papa, il suo seguito e i giornalisti, è decollato alla volta di Roma, dove è atterrato alle 8,06 del 30 luglio.
Così si è concluso il 37° viaggio apostolico di papa Francesco, che ha confermato come quanto egli ha detto – sin da quando era arcivescovo di Buenos Aires[6] – e dice sugli indigeni in varie parti del mondo plasmi un modello di Chiesa, di evangelizzazione, ma anche di società, caratterizzato dalla riconciliazione, dal multiculturalismo e da un approccio radicalmente anticolonialista, e comunque segnato da una visione positiva del meticciato[7].
[1]. I battezzati cattolici sono il 44% della popolazione. La fede cattolica si diffuse in Canada con l’arrivo degli europei nel XVI secolo. Il 7 luglio 1534 un sacerdote francese che accompagnava l’esploratore Jacques Cartier celebrò la prima Messa sulle spiagge della penisola Gaspé. La colonizzazione iniziò con la fondazione della città di Québec nel 1608. Molte congregazioni religiose francesi iniziarono un’intensa opera missionaria tra le popolazioni autoctone. Un ruolo di primo piano fu svolto dai gesuiti con le loro missioni, che prosperarono nel XVII secolo.
[2]. La nostra rivista ha ampiamente illustrato i motivi di questo viaggio in un articolo al quale rinviamo: F. Lombardi, «Perché il Papa in Canada? I popoli indigeni e le “scuole residenziali”», in Civ. Catt. 2022 III 10-23.
[3]. Cfr P. Molinari, «La irochese Caterina Tekakwitha», in Civ. Catt. 2012 I 140-149.
[4]. Uno dei primi costruttori della chiesa, malato di una grave scoliosi, al termine dei lavori di edificazione riuscì a guarire e a camminare senza stampelle. Ben presto la basilica divenne meta di pellegrinaggio.
[5]. La Conferenza episcopale del Canada riunisce i presuli delle circoscrizioni ecclesiastiche latine e orientali del Paese. È stata istituita nel 1943. Alla sua presidenza si alternano ogni due anni vescovi anglofoni e francofoni.
[6]. Cfr A. Spadaro, «La ricchezza dei popoli indigeni. Il pensiero di mons. Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires», in Oss. Rom., 5-6 ottobre 2019.
[7]. Cfr la conversazione di Francesco con i gesuiti del Mozambico: A. Spadaro, «“La sovranità del popolo di Dio”. I dialoghi di papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar», in Civ. Catt. 2019 IV 3-15.
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