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Dopo che l’Oxford Dictionary l’ha elevata allo status di parola dell’anno nel 2016, la nozione di post-verità ha guadagnato molta attenzione pubblica[1]. Questo autorevole dizionario collegava il termine a eventi come la Brexit e la crescita della nuova destra populista in vari Paesi occidentali. Possiamo dire che il termine «post-verità» si riferisce a un atteggiamento che smette di dare priorità ai fatti oggettivi nel processo di formazione dell’opinione pubblica, a vantaggio delle ideologie tribali.
Tuttavia, se l’ascesa del populismo, spesso alimentato da teorie del complotto, ci dà la sensazione di entrare in una nuova era, quella della post-verità appunto, è opportuno riconoscere che non si tratta di un fenomeno completamente nuovo. I totalitarismi del passato informavano i cittadini delle loro nazioni solo sui fatti che confermassero le loro ideologie. Spesso arrivavano persino a modificare i fatti oggettivi per convalidare l’ideologia istituzionalizzata. La verità si sarebbe dovuta adattare non a una realtà oggettiva e indipendente dalle costruzioni umane, ma all’ideologia del gruppo che aveva conquistato il potere. È per questo che la post-verità ci porta facilmente a pensare al nazismo degli anni Trenta del secolo scorso, così come al revisionismo storico del regime sovietico e dei suoi alleati.
Vale la pena riprendere in questo contesto la tesi proposta dallo storico e saggista statunitense Timothy Snyder[2]. Secondo lui, «la post-verità è un prefascismo»[3]. Snyder ci apre così una prospettiva paradossale: la violenza del fascismo, tipica della prassi dell’estrema destra, sembra che si sia potuta sviluppare a partire dal relativismo promosso da ideologie di estrema sinistra.
Approfondendo questa tesi, potremo comprendere come la post-verità emerga dalla struttura mentale di un certo postmodernismo: si tratta di disprezzare la verità fattuale a favore del principio secondo cui tutto è relativo. Cercheremo allora di capire in quale modo il relativismo promosso dalla cosiddetta «sinistra postmoderna» possa creare l’orizzonte per il ritorno di una sorta di fascismo.
Esamineremo dunque questa tesi, identificando anzitutto il problema della struttura mentale della cosiddetta «postmodernità» per quanto riguarda la convivenza comune. Successivamente, mostreremo come le strategie promosse per contrastare i problemi della post-verità siano comprensibili solo all’interno di una prospettiva realista. Difenderemo, infine, l’importanza della fratellanza e del dialogo, basati sulla possibilità di una convergenza verso verità oggettive.
La decostruzione del concetto di verità oggettiva
Se chiedessimo a un autore classico come Aristotele di presentarci una definizione di verità, ci troveremmo di fronte a una relazione di corrispondenza tra le affermazioni che potremmo fare come soggetti cognitivi e la realtà oggettiva e indipendente da noi: «Falso è dire che l’essere non è o che il non-essere è; vero, invece, è dire che l’essere è e che il non-essere non è»[4]. Questa definizione suggerisce che la verità di un’affermazione è determinata dalla sua corrispondenza con i fatti oggettivi, i quali si riferiscono a realtà esterne e indipendenti da noi. Nonostante la verità risieda nel pensiero, Aristotele afferma la sua dipendenza da una realtà svincolata dalle costruzioni umane: «Il discorso vero non può in alcun modo causare la realtà del proprio contenuto, mentre il contenuto si presenta in certo modo come causa della realtà vera del discorso»[5].
Secondo questa prospettiva, il mio pensiero comprende l’essenza di una determinata realtà che è indipendente dalla mia volontà, dalle mie credenze, dalle mie ideologie. Fedele a questa tradizione filosofica, Tommaso d’Aquino ha ereditato una formula che esprime questa concezione realista: la verità è «adaequatio rei et intellectus»[6], ossia «l’adeguazione della cosa e dell’intelletto»[7]. La verità è quindi concepita come una corrispondenza tra la sostanza, intesa come realtà oggettiva, e la mente.
Ecco la nozione classica di verità come corrispondenza. Si tratta di una nozione secondo cui ci deve essere una certa identificazione tra la realtà in sé e ciò che si produce nella mia mente. La difficoltà di tale prospettiva deriva dal fatto che non vediamo le cose con gli occhi di Dio che le ha create. Se non sono io il creatore delle cose che vedo, come potrei sapere se la mia percezione corrisponde alla loro realtà intrinseca? Infatti, mentre accedo solo a immagini che si producono all’interno della mia mente, mi sarà difficile, se non impossibile, conoscere con certezza l’essenza delle cose in sé che esistono fuori di me. Mi sembra dunque un’illusione pensare di accedere all’essenza esatta delle entità esterne e indipendenti da me, perché le vedo solo attraverso le lenti dei miei occhi.
Nietzsche ha espresso bene questa aporia della posizione realista affermando che la percezione sensibile a cui accediamo in ogni istante «in nessun modo conduce alla verità, ma si soddisfa di ricevere stimoli» che riceviamo e che si producono all’interno del nostro essere, della nostra vita[8]. Già Cartesio aveva intuìto la forza di questo argomento scettico che decostruisce il realismo. E, cercando di superarlo, aveva proposto una nuova definizione di verità: si trattava quindi di una certezza soggettiva che si stabilirebbe in noi mediante l’evidenza della chiarezza e distinzione di certe idee[9].
Fu comunque lui, in quanto padre della modernità, a condurci verso un approccio sempre più centrato sul soggetto che siamo. Così, man mano che ci siamo concentrati, e chiusi, sulle idee che emergono nella nostra mente, abbiamo finito per allontanarci dalla prospettiva realista. E gran parte dei filosofi hanno iniziato a concepire la verità come una semplice operazione soggettiva. Alla fine, il realismo ha lasciato il posto al prospettivismo: non si tratta solo di affermare l’impossibilità di accedere a una Verità oggettiva e universale, ma di confutare a maggior ragione l’esistenza di una tale Verità scritta con la lettera maiuscola. I fatti oggettivi perdono quindi rilevanza, mentre si esaltano le interpretazioni soggettive e circostanziali. In definitiva, non ci sono più fatti oggettivi: tutto è ormai ridotto a una possibile interpretazione.
Questa è, in sintesi, la visione di Nietzsche, uno dei padri degli autori definiti «postmoderni». Come osserva Habermas, colui che diceva di «filosofare a colpi di martello» ha aperto la possibilità di una considerazione artistica del mondo, in una posizione antimetafisica caratterizzata da un radicale scetticismo epistemologico. In questo senso, è facile che in ultima analisi la verità si riduca, all’interno di tale prospettiva, alla produzione della volontà di potere. Questo sarà il risultato naturale del denunciare l’illusione di coloro che credono nell’oggettività della verità[10]. Quest’ultima viene dunque concepita come una costruzione puramente umana. È proprio così che il filosofo tedesco la definisce, come un antropomorfismo[11].
Nietzsche ci descrive il processo di formazione delle verità che si sono cristallizzate attraverso convenzioni sociali, determinati periodi storici, tradizioni e culture. Nel farlo, getta un sospetto scettico su ogni conoscenza che possiamo accumulare. Infatti, come posso essere sicuro che il pensiero prodotto nella mia mente corrisponda alla realtà oggettiva di ciò che mi circonda? Per Nietzsche, c’è una falsa presunzione di verità nella prospettiva realista: i filosofi classici, egli dice, hanno compiuto un atto ipocrita di pura superbia pretendendo di conoscere le essenze delle cose in sé stesse, come se la rappresentazione nell’intelletto avesse la realtà della cosa[12].
Il relativismo come buona notizia
Nell’annunciare il carattere precario, relativo e mutevole di qualsiasi verità che possiamo concepire, Nietzsche non intende darci cattive notizie: si tratta per lui di una buona notizia, anche se comporta il rischio per coloro che osano abitare la pura contingenza di questa Terra. Nella misura in cui si decostruisce la nozione classica di verità, si apre l’orizzonte verso nuove verità che ciascuno di noi potrebbe creare con la propria vita. Se la debolezza della verità deriva dalla sua natura intrinsecamente relativa, la sua forza risiede nella nostra capacità di generare nuove verità. Accettare la contingenza insormontabile di qualsiasi verità è scoprire sé stesso come soggetto «artisticamente creativo»[13]. La decostruzione del realismo accompagna l’annuncio che ciascuno di noi è un soggetto creatore di nuove verità. Ecco perché io divento veramente libero solo dopo aver ucciso la Verità oggettiva e universale. Perciò, la sconfitta di tale Verità assoluta, a cui dovrei adattarmi, corrisponde alla mia vittoria come potente «genio costruttivo». E, contrariamente alle api, che producono il miele da ciò che trovano nella natura circostante, posso creare concetti solo da me stesso[14]. Nietzsche non si limitò dunque a decostruire la prospettiva realista: ci invitò a creare la nostra stessa essenza, assolutamente unica, partendo dalla persona che siamo, o, in altre parole, dalla nostra propria volontà.
La lotta contro il realismo classico proviene dunque da questo impulso che mi porta a resistere al movimento di adattamento a una realtà esterna a me, una realtà che apparentemente non appartiene alla mia propria vita. Percepisco questa prospettiva realista come totalitaria, nella misura in cui essa cerca di impormi una Verità alla quale devo adattarmi, uniformandomi a tutte le altre persone che abitano con me questa stessa Terra, ricca di possibilità da esplorare. Si tratta delle convenzioni sociali che finiscono per determinare ciò che devo essere, quando potrei diventare una persona diversa, che non si lascia adattare a quelle costruzioni che non provengano da me.
In questa prospettiva, la ricerca di una Verità universale è associata alla restrizione della libertà di autoscoperta e autodeterminazione del mio ego. Ed è facile capirne il motivo: il riferimento alla Verità oggettiva si trova in una realtà esterna al mio essere e indipendente da ciò che potrei desiderare. La liberazione avviene quindi quando divento il punto di riferimento primario nella costruzione della mia – e solo mia – verità. Né la società umana, che mi obbliga ad adattarmi alle sue convenzioni sociali e ai suoi princìpi universali e astratti, né la biologia, che determina ciò che sono gli individui per l’adattamento all’ambiente o alle caratteristiche fisiche di un determinato corpo, devono limitare l’orizzonte delle mie possibilità in quanto soggetto creatore e artefice della sua realtà.
In questo modo, tutte le Verità con la «V» maiuscola vengono smantellate. Tutto ciò che mi viene presentato come universale e assoluto verrà percepito da me come una violenza contro la mia volontà singolare. Dopotutto, perché dovrei adattarmi a una verità che è solo una costruzione umana e che è stata cristallizzata attraverso convenzioni sociali? Lasciatemi essere chi sono o chi voglio diventare!
Verso dove ci porta il prospettivismo?
Abbiamo appena descritto ciò che chiamiamo la mentalità della cosiddetta «postmodernità». Ora sorge la questione su dove possa condurci il prospettivismo radicale di Nietzsche. La nostra posizione vuole sottolineare che nella decostruzione della Verità c’è anche una superba pretesa. Infatti, se il realismo può portare all’arroganza di chi presume di conoscere completamente le essenze delle cose in sé stesse, pure il prospettivismo può rinchiudere gli individui nella presunzione di imporre una verità assolutamente personale agli altri.
Innanzitutto, è importante comprendere che la post-verità non ha origine nei movimenti tribali dell’estrema destra attuale, ma risale alla prospettiva insegnata da decenni nelle università più prestigiose dell’Occidente. Almeno, questa è la tesi che Snyder suggerisce. Secondo una tale prospettiva, è in questo contesto accademico che la verità è stata esaminata al fine di identificare, seguendo una narrazione vicina a quella di Nietzsche, la storia, i valori, gli interessi che operano nell’atto della sua creazione e cristallizzazione sociale. Così, in tali ambienti accademici, è diventato molto difficile essere realista, perché lo status quo vigente considera illegittimo e proprio di un atteggiamento totalitario affermare di conoscere una realtà oggettiva e indipendente da noi. Inoltre, persino l’esistenza stessa di questa realtà esterna è diventata, in tali contesti, un’illusione.
Da un lato, il prospettivismo ci porta a concepire la verità come una convenzione impostaci dalla forza di un potere costituito. Si ritiene che le verità vigenti siano intrinsecamente legate all’esercizio di un potere. Poiché non esiste una ricerca neutra di una verità oggettiva, alla fine tutto si riduce a uno status quo che conviene a un determinato gruppo o istituzione. Saranno quindi i vincitori a stabilire ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è buono e cattivo, in vista di consolidare il loro potere. A partire da questa concezione di verità, diventa imperativo denunciare l’autoritarismo delle istituzioni che attualmente detengono il potere nella società e che impediscono all’individuo di vivere il suo proprio e unico ego.
D’altra parte, è questa prospettiva che finisce per legittimare l’imposizione della verità attraverso la forza. Ciò accade perché, nella logica del prospettivismo, non esiste altro modo per stabilire una verità. Infatti, dal momento che manca un punto di riferimento esterno all’immanenza umana per formulare una proposizione vera, tutto si riduce a una mera costruzione del nostro genio costruttore. Pertanto, poiché sono assolutamente singolari e uniche, le costruzioni di ciascuno degli individui possono realizzarsi nel mondo solo attraverso la forza, il potere che alcune persone – i «forti», i «nobili», direbbe Nietzsche – riescono a ottenere.
Non si tratta di negare l’esistenza della verità, ma piuttosto di subordinare i fatti al punto di vista ideologico e personale del soggetto umano. Rinchiusi in tale orizzonte, comprendiamo che, quando si contesta un fatto oggettivo, c’è un forte motivo per farlo: il prospettivismo nietzschiano sostiene che chi lo fa cerca di raggiungere il massimo vantaggio per i propri interessi, cerca di lasciar fiorire la propria vita. È in questo senso che la post-verità configura una forma di supremazia ideologica che si impone con la forza, disprezzando l’evidenza dei fatti oggettivi.
Arrivati a questo punto, ritorniamo alla tesi di Snyder per svilupparla: «Oggi ci troviamo di fronte a qualcosa che chiamiamo “post-verità” e tendiamo a pensare che il suo disprezzo dei fatti quotidiani e la sua costruzione di realtà alternative siano qualcosa di nuovo o di postmoderno […]. Nella sua filosofia, la post-verità ripristina proprio l’atteggiamento fascista nei confronti della verità»[15].
Infatti, non è sorprendente osservare certe somiglianze tra i totalitarismi del secolo scorso e i sostenitori di nuove espressioni di nazionalismi di esclusione e di destra populista, perché entrambi costruiscono un universo parallelo regolato dalle proprie norme. Entrambi respingono la Verità come principio oggettivo, arrivando addirittura a negare i dati che la scienza fornisce oggi. In fondo, se ogni verità si riduce al prodotto di un determinato contesto storico, sociale e ideologico, si tratta solo di cercare di imporre la costruzione del gruppo a cui apparteniamo, con l’intento di passare da sconfitti a vincitori della storia. In ogni caso, questa prospettiva costruttivista di una verità antropomorfica incombe sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra. Infatti, come è accaduto in passato con i nazisti e con il revisionismo storico del regime sovietico, tutto è lecito per imporre la verità ideologica del proprio gruppo.
Dal prospettivismo radicale scaturisce un conflitto tra diversi punti di vista che si contendono la supremazia su quale verità prevarrà nella società. Quello che ci rimane da fare è aderire al gruppo che promuove di più la nostra verità. La tesi di Snyder sembra affermare che questa mentalità della post-verità non è solo fascista, poiché caratterizza l’essenza della sinistra postmoderna. Infatti, chi è più nietzschiano di un ideologo del wokismo contemporaneo? Per questo, non solo la verità si riduce a una costruzione umana, a una semplice convenzione sociale, ma ogni individuo possiede la propria verità, assolutamente unica, tanto da non permettere più neanche alla realtà biologica di determinare la persona che ciascuno di noi è.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
In questo contesto, è opportuno far riferimento alla recente Dichiarazione Dignitas infinita, in quanto critica la cosiddetta «teoria del gender», che diventa ideologica quando annulla completamente qualsiasi «differenza» tra uomo e donna, considerando questa distinzione come puramente culturale[16]. Effettivamente, il modo migliore per garantire la dignità della persona umana è affermare che essa è intrinseca ontologicamente alla natura stessa delle cose, piuttosto che essere attribuita mediante un decreto imposto da una società o da un gruppo di individui che assumono il potere in un contesto sociale specifico[17].
Tuttavia, il prospettivismo relativista respinge la possibilità di una Verità comune a tutti gli esseri umani, cioè universale. E questo influisce sul modo in cui comprendiamo i diritti umani. Sebbene vengano ancora etichettati come universali, tali diritti diventano assolutamente particolari, perché, quando si mette in discussione la possibilità di conoscere una verità comune a tutte le persone, il diritto di ognuno si limiterà a rispettare la costruzione della propria e unica identità.
In questo contesto, è opportuno prendere in considerazione ciò che papa Francesco afferma nell’enciclica Fratelli tutti, citando la Laudato si’ a proposito del «relativismo»: «Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare»[18].
Il Papa parla dunque di un tipo di tolleranza che finisce per separarci gli uni dagli altri. Infatti, io mi separo necessariamente dalle persone quando devo tollerare le loro volontà individuali. Assumendo che le Verità universali limitino la vita di ogni individuo, io potrò permettere loro di vivere la loro vita nella misura in cui rimangono lontani da me senza disturbare la mia verità. Il tessuto sociale si frammenta allora sempre di più, mentre gli individui cercano di imporre le proprie verità intrasmissibili a tutti coloro che non le hanno costruite o che non le vogliono adottare come proprie. Ciò si traduce anche in una crescente polarizzazione del nostro tessuto sociale.
Ecco perché, dopo la morte della Verità, finiamo per sentirne la mancanza: perché quando si rinuncia alla ricerca di una Verità oggettiva, facilmente ci verrà imposto il principio del più forte. Questo è il processo che spiega il legame tra il relativismo promosso dalla sinistra postmoderna e il principio fascista della violenza. Senza un riferimento a una realtà esterna alla quale tutti noi dovremmo adattarci, diventa impossibile affermare che qualcuno sbaglia nell’esprimere un’opinione non supportata dai fatti oggettivi. Rinunciando alla fattualità oggettiva, il prospettivismo non si limita ad annunciare che tutta la verità corrisponde alla visione di un individuo o di un gruppo. La sua concezione relativistica della verità implica una forma molto concreta di trasmissione: la violenza. In un tale contesto, o c’è un gruppo che alla fine prevale su tutti gli altri, oppure si stabilisce una separazione tra tutti, ognuno nella propria società parallela. In entrambi i casi, si distrugge la possibilità di costruire la comunione tra persone diverse.
Per questo l’attuale prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, card. Víctor Manuel Fernández, ha affermato qualcosa di molto simile nella Presentazionedel documento Dignitas infinita: «La Dichiarazione si sforza di mostrare che ci troviamo di fronte a una verità universale, che tutti siamo chiamati a riconoscere, come condizione fondamentale affinché le nostre società siano veramente giuste, pacifiche, sane e alla fine autenticamente umane»[19].
In un mondo sempre più polarizzato e frammentato, finiamo per sentire la mancanza di una Verità che possa unirci. A tale proposito, papa Francesco afferma: «Oggi […] si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare […] e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte»[20]. Ecco il combattimento di tutti contro tutti. Perciò le parole di papa Francesco considerano i pericoli di questo orizzonte relativista come un male che minaccia il nostro futuro. In questo contesto, esponiamo in forma di bozza tre linee di argomentazione a favore della concezione realista, facendo riferimento al magistero attuale della Chiesa.
Perché dovremmo rimanere realisti
Innanzitutto, è importante comprendere come il concetto stesso di post-verità, così come i mezzi per ridurre i suoi danni, presuppongano una prospettiva realista. Ad esempio, consideriamo i poligrafi e il fact-checking ampiamente diffusi dai media attuali. Da un lato, la verifica della veridicità di una notizia dipende dalla corretta conoscenza del fatto oggettivo in questione. È possibile affermare che qualcuno ha diffuso una fake news solo nel caso in cui si riesca a dimostrare che quella persona ha fatto un’affermazione che non corrisponde alla realtà oggettiva che possiamo conoscere. Dall’altro lato, le istituzioni che svolgono questo servizio di fact-checking devono garantire la loro indipendenza dalle ideologie che agiscono nel tessuto sociale. Un fact-checking utilizzato per contrastare i pericoli della post-verità presuppone dunque necessariamente il realismo, secondo il quale dobbiamo riferirci a una realtà oggettiva, indipendente dalla nostra volontà e dalle nostre costruzioni ideologiche.
A questo proposito, affrontando la questione della «violenza digitale», il card. Fernández menziona il paradosso dei mezzi digitali che, pur rendendo più accessibile l’informazione e facilitando la comunicazione tra le persone, possono allo stesso tempo isolare e impoverire le loro relazioni interpersonali: è necessario evitare la violenza contro gli altri attraverso la «ricerca sincera della verità piena»[21].
In secondo luogo, si può distruggere la decostruzione nietzschiana dimostrando come sia possibile presumere, senza arroganza, di conoscere qualcosa della realtà oggettiva che esiste indipendentemente da noi. È infatti possibile essere realisti senza cadere nell’ingenuità di pensare che ciò che vediamo corrisponda all’esatta essenza delle cose. È evidente che noi percepiamo solo ciò che filtra attraverso la nostra coscienza e che è in un certo modo costruito all’interno di essa. Ma questo non significa che la conoscenza non dipenda da una realtà indipendente da noi e dalle nostre costruzioni, né implica che questa realtà sia totalmente inconoscibile. È facile comprendere come ci sia sempre qualcosa che resiste ai nostri errori cognitivi e al nostro affetto volitivo. Quando, ad esempio, mi accingo ad aprire una porta e sbaglio la chiave, verifico immediatamente la presenza di una realtà esterna a me a cui devo adattarmi, che io lo voglia o no: altrimenti, resterò fuori casa, per strada.
La costruzione antropica della verità si vede quindi limitata da una realtà ricevuta. Siamo costantemente chiamati ad accogliere realtà che non abbiamo costruito e ad adattarci a circostanze indipendenti dalla nostra volontà. E la conoscenza di tali realtà viene raggiunta attraverso l’umiltà di chi riconosce di non poter sapere né costruire tutto. Chi si adatta a una realtà che lo precede e lo costituisce è consapevole di raggiungere una conoscenza limitata. L’arroganza risiede più nel soggetto che crea le proprie verità soggettive che nella persona che si sforza di accogliere una realtà oggettiva e indipendente dalle proprie costruzioni.
In terzo luogo, la Verità oggettiva si manifesta come condizione di possibilità per il dialogo e la comunione tra persone diverse. A questo proposito, è importante comprendere come la concezione costruttivista della verità, da un lato, abbia condotto al relativismo morale e, dall’altro, abbia finito per ridurre l’apprendimento alla conoscenza tecnica, con la quale possiamo produrre cose e ottenere profitti in questo mondo. Quando si strumentalizza così la conoscenza, trasformandola in una tecnica che ci consente di plasmare il mondo a nostro piacimento, le discipline umanistiche e le scienze sociali non scompaiono completamente, ma smettono di essere luoghi di incontro e di dibattito armonioso. Di fatto, la scienza stessa perde la sua oggettività, per diventare, per così dire, un’arma ideologica e politica che nega proprio il terreno comune e il dialogo.
È importante ricordare, a tale riguardo, quanto è stato affermato da papa Francesco nella sua prima enciclica, Lumen fidei, che è chiaramente in continuità con il magistero di Benedetto XVI: «La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi […]. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti»[22].
Conclusione
Possiamo concludere immaginando di fare una breve visita alla Stanza della Segnatura nel Palazzo Apostolico del Vaticano. Chi vi entra potrà contemplare l’armonia di una sala che riunisce i filosofi greci dell’antichità con i teologi cristiani del Medioevo. Si intravede così una continuità tra due epoche storiche diverse. Si respira lì un cristianesimo capace di riunire Parmenide, Eraclito, Pitagora, Socrate, attorno, ovviamente, a Platone e Aristotele, con teologi come Ambrogio, Girolamo, Agostino e Tommaso d’Aquino. Contemplando oggi l’armonia di tutte quelle figure storiche riunite nella stessa stanza, potremmo rimanere sorpresi dal fatto che la cristianità romana abbia accolto influenze della tradizione pagana dell’antichità, e persino dell’islam. È importante sottolineare, infatti, la presenza di Averroè ne La Scuola di Atene. Vicino a Zenone e Pitagora, Raffaello ha collocato questo pensatore musulmano di fronte a san Tommaso d’Aquino, che non solo ha tollerato il suo pensiero, ma ha anche appreso dai suoi commenti la filosofia di Aristotele.
Senza abbandonare la tradizione cristiana, Raffaello ha accolto la saggezza di tradizioni diverse dalla propria. Questo spirito rinascimentale si fonda sulla convinzione che sia possibile raggiungere, in una certa misura, una Verità universale. Solo così possiamo credere che valga la pena promuovere una discussione feconda e armoniosa con persone che pensano in modo diverso da noi.
La mentalità rinascimentale presente nelle opere di Raffaello contrasta con lo spirito postmoderno della post-verità, che apre la possibilità del ritorno del fascismo. Contemplando oggi La Scuola di Atene, siamo invitati ad abbandonare le prospettive dominate da uno sguardo ideologico. Man mano che ci liberiamo dalla cecità ideologica, ci sarà possibile guardare il mondo a partire da una Verità che ci trascende. Questa Verità potrà liberarci solo quando riusciremo a prendere le distanze rispetto all’ideologia promossa dal gruppo di cui facciamo parte. Per smettere di essere isolati ai margini del nostro gruppo, è importante assumere la presenza di una Verità che superi tutte le tradizioni, tutte le ideologie, tutti i punti di vista. Solo essa ci permetterà di superare lo spirito di odio e violenza che oggi ci divide nello sforzo di imporre verità a chi non le condivide in modo naturale e pacifico. Così, invece di assumere l’impossibilità di raggiungere la verità, come un Pilato che ironicamente pone la domanda: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38), possiamo intraprendere lo sforzo di avvicinarci a essa insieme. Solo così la fratellanza umana, il dialogo costruttivo e la pace diventeranno possibili.
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[1]. Cfr L. McIntyre, Post-Truth, Cambridge – London, The MIT Press, 2018, 1.
[2]. Cfr T. Snyder, On Tyranny. Twenty Lessons from the Twentieth Century, New York, Crown, 2017 (in it. L’era dei tiranni. Cosa ci ha insegnato il XX secolo?, Milano, Rizzoli, 2023).
[3]. Ivi.
[4]. Aristotele, Metafisica, Milano, Rusconi, 1993, 179 (Met. 1011b, 26-27).
[5]. Id., Opere. I. Organon: Categorie, Dell’espressione, Primi Analitici, Secondi Analitici, Bari, Laterza, 1973, 45 (Cat. XII, 19-23).
[6]. Cfr Tommaso d’Aquino, s., Le questioni disputate. Vol. 1: La verità (Questioni 1-9), Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1992, 78.
[7]. Ivi, 79.
[8] . Cfr F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Scritti minori, Napoli, Ricciardi, 1916, 49.
[9] . Cfr R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Milano, Bompiani, 2001, 183.
[10]. Cfr J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Bari, Laterza, 1987, 100.
[11]. Cfr F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., 54.
[12]. Cfr ivi, 59.
[13]. Ivi, 57.
[14]. Cfr ivi, 56.
[15]. T. Snyder, On Tyranny…, cit., 70 s.
[16]. Cfr Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarazione «Dignitas infinita» circa la dignità umana, Roma, 2 aprile 2024, nn. 58-60.
[17]. Cfr ivi, n.15.
[18]. Francesco, Fratelli tutti, n. 206; Id., Laudato si’, n. 123.
[19]. Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarizione «Dignitas infinita» circa la dignità umana, cit.
[20]. Francesco, Fratelli tutti, n. 15.
[21]. Cfr Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarazione «Dignitas infinita» circa la dignità umana, cit., nn. 61-62.
[22]. Francesco, Lumen fidei, n. 34.