
Nel mese di ottobre del 1922 venne pubblicato per la prima volta “La terra desolata” (“The Waste Land”) di T.S. Eliot. Per l’occasione rendiamo disponibile anche sul nostro sito la versione integrale di un articolo di p. Ferdinando Castelli, pubblicato nel 1990 in occasione dei 25 anni della morte del poeta.
Venticinque anni fa (4 gennaio 1965) moriva Thomas Stearns Eliot[1], il poeta che ha cantato la desolazione della terra e il bisogno di trascendere l’effimero per ancorarsi all’eterno. Due anni fa è stato celebrato il centenario della sua nascita (1888). È stato ricordato, ma con riverente distacco per il «sacro terrore» che la sua opera incute. Solo pochi studiosi hanno saputo cogliere, nella sua poesia e nel suo teatro, lo sfondo drammatico della civiltà occidentale e le indicazioni per sfuggire al caos e alla tirannia del tempo. Crediamo opportuno riproporre l’itinerario eliotiano. In tempi, come il nostro, carenti (e nostalgici) di senso e di valori, la personalità di Eliot ha una benefica funzione: ci aiuta a comprendere lo squallore di una società arroccata nell’effimero e a incamminarci sui sentieri che conducono all’Eterno.
Un difficile incontro
Il primo incontro con Eliot disorienta e sconcerta: ellittico, sincopato, discontinuo; accavallarsi di simboli, di citazioni, di sensazioni; rincorrersi di immagini e di espressioni da cui zampillano idee nuove, fortemente avvertite. Con Eliot succede di «sentire» quel caos che trasuda dalle pagine dell’Ulisse di James Joyce. Quando però si riesce a penetrare nel suo mondo poetico, a comprenderne i ritmi e i segreti, ad approfondirne il messaggio, si ha la netta sensazione di trovarsi dinanzi a un’opera di alto livello, in ogni senso. In realtà, Eliot è tra le maggiori personalità del mondo letterario anglosassone del nostro secolo: restauratore della poesia, drammaturgo dalle movenze classiche, profeta della «terra desolata» e assertore del bisogno di assoluto, umanista nel senso classico del termine ma aperto alle più moderne esperienze di forma e di espressione, saggista raffinato chiaro penetrante[2].
Nella sua opera poetica è dato incontrare Oscar Wilde, Thomas Mann e André Gide, cioè l’esperienza di quel decadentismo affermatosi sulla crisi dei valori romantici, ma anche Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé e Charles Baudelaire, cioè i poeti «maledetti» che sguazzano nel fango ma invocano anche una redenzione e una realtà di natura diversa dalla terrena. I volti che è dato intravedere dietro i suoi versi sono innumerevoli: da Guido Cavalcanti a John Donne, da Giovanni della Croce a Rimbaud, da Giuliana di Norwich a Ezra Pound, da Robert Browning a Jules Laforgue. Dante domina la scena, da «maestro» nel campo della poesia e da guida sui sentieri che portano a Dio. «Chi ha rilevato il perfetto parallelismo tra le varie tappe che Eliot ha percorso da The Waste Land al The idea of a christian society e il faticoso viaggio dantesco dagli orrori dell’Inferno agli slanci cristiano-sociali del De Monarchia, attraverso i canti di speranza del Purgatorio e gli sfondi dorati della terza Cantica, non si è abbandonato a entusiasmi privi di fondamento. C’è tanto di comune nel loro sollevarsi dal primo smarrimento verso il regno della luce e della libertà»[3].
Come Dante, Eliot è un poeta «vivo». Non raffigura regni ultramondani chimerici, ma situazioni esistenziali che riflettono l’esperienza umana e il dramma delle nostre scelte. Il suo inferno è il nostro mondo caotico, insensato, in putrefazione; il suo purgatorio è il faticoso, lento cammino di purificazione e di conversione; il suo paradiso è la vita di fede, di speranza e di carità, che viene offerta dal mistero dell’Incarnazione. Grazie a tale mistero la «terra desolata» torna a essere il giardino dell’Eden. Un lettore superficiale potrebbe avere l’impressione che Cristo, nell’opera eliotiana, sia assente. Certamente, la presenza del Salvatore non è gridata né ribadita; è negli sfondi, velata, sfuggente, ma certa e determinante: esigenza di un mondo in frantumi che invoca un restauratore, e insopprimibile nostalgia della mente e del cuore di completezza, di armonia, di assoluto. Il Cristo di Eliot sguscia dalla desolazione del mondo, come l’inno al Redentore, da parte di Dmitrij Karamazov, s’innalza dalle «viscere della terra».
«Per un forzato è impossibile vivere senza Dio, ancora meno possibile che per un uomo libero! E allora noi, uomini chiusi sotto terra, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico inno a Dio, che possiede la gioia! Lode a Dio e alla sua gioia! Io lo amo»[4]. L’inno al Dio della gioia, che il prigioniero Dmitrij sente di dover innalzare «dalle viscere della terra», è l’inno al Dio della vita, Cristo, che scuote gli uomini del sottosuolo. In Assassinio nella cattedrale anche Thomas Becket, prima di ricevere il colpo di grazia, avverte «un fremito di beatitudine»: la beatitudine dono del Dio della vita, che «ci ha salvato nel suo sangue» e ha trasfigurato anche la morte.
Una poesia per comprendere l’uomo
Prendendo lo spunto da una lettera di D. H. Lawrence, così Eliot formulava la sua concezione poetica: «Scrivere della poesia che sia essenzialmente poesia, senza nulla di poetico, poesia che si regga nuda sul suo scheletro, o poesia così trasparente che leggendola siamo attenti a ciò che la poesia ci indica e non alla poesia: questo mi sembra il fine a cui dobbiamo tendere. Giungere di là dalla poesia, come Beethoven nelle sue ultime composizioni si sforzò di giungere di là dalla musica»[5].
La poesia, dunque, è ricerca e contemplazione di realtà che sono di là dalla poesia, intuite però e comunicate attraverso la poesia. Perché ciò sia possibile sono necessarie quella nudità e semplicità, quella trasparenza ed essenzialità che rendono luminoso l’oggetto poetico e permettono di raggiungere altri lidi, altri mondi. Compito del poeta – nota Eliot – non è trovare nuovi sentimenti, ma servirsi di quelli ordinari, elaborarli poeticamente per «esprimere sensazioni che non sono presenti nella realtà dei sentimenti […]. La poesia non è libero sfogo dei sentimenti ma evasione da essi; non è espressione della personalità ma evasione dalla personalità»[6].
Due concetti sono qui definiti. Il primo è quello che Eliot chiama il «correlativo oggettivo». Consiste in «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare; tali che quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensibile, siano dati, venga immediatamente evocata l’emozione»[7]. Il secondo concetto concerne l’arte come depersonalization. La grandezza di un poeta consiste, secondo Eliot, nella capacità di dare espressione suprema a un’esperienza di carattere universale. Conseguentemente «il singolo poeta dovrà acquistare un’ampiezza di vedute quale la sua sola limitata esperienza personale non gli consentirebbe; studierà dunque l’esperienza del passato incorporata nella letteratura sì da far suo un patrimonio di impressioni già sistemate in forme definite anziché affrontare soltanto un caos di esperienze allo stato grezzo. Impersonale ha da essere il poeta nel senso che l’emozione e l’esperienza personali vengono estese a qualcosa d’impersonale e così completate; non nel senso di un divorzio dall’esperienza e dalla passione personali; il suo compito è anzi di mettere tutto se stesso al servizio dei valori più alti. Classicismo ascetico, insomma»[8].
Ogni grande poeta – secondo Eliot – è vivificato dalla poesia di tutti i tempi; da essa riceve sentimenti di universalità e nello stesso tempo la feconda con innesti vitali. Si pensi alla ricchezza che ha rappresentato per lui l’incontro con la poesia di Baudelaire, di Rimbaud, di Donne, soprattutto di Dante. «Soprattutto Dante, che ha significato per lui nel campo formale precisione di linguaggio, economia e funzionalità di stile, chiarezza di immagini visive, e nel campo spirituale ha richiamato la sua attenzione sui più profondi abissi di degradazione e le più alte vette di estasi, sull’orrore e la gloria. Dante è stato il maestro del cui insegnamento Eliot ha più approfittato, e in un certo senso si può dire che la crescita della poesia di Eliot è stata anche la crescita di Dante in Eliot»[9].
Da tali premesse si comprende perché Eliot si sia rifiutato di costruire una trama organica e si sia limitato a registrare sequenze di immagini e di idee apparentemente gratuite, ma in realtà fondate su riferimenti culturali assai complessi. Si comprende anche il perché dell’irruzione, nella sua poesia, dei versi di autori del passato (Dante, la Bibbia, Baudelaire, Giovanni della Croce), che entrano nel vivo della composizione, la caricano di nuovi significati, come se Eliot li risuscitasse per i propri scopi. Così, attraverso continui passaggi dal piano lirico al narrativo, dal profetico all’ironico, dall’oggettivo all’autobiografico, la massa di immagini prende forma, lasciando nel lettore un forte flusso di sensazioni che immettono in nuove realtà[10]. È vero, capita talvolta che la poesia di Eliot manchi di respiro e di calore umano[11], ma il più delle volte essa raggiunge i vertici della grande arte, capace di coinvolgere il lettore e renderlo partecipe di forti esperienze esistenziali.
La terra desolata degli uomini vuoti
Come La Divina Commedia, l’opera di Eliot è un itinerarium mentis in Deum. E come Dante, attraverso le bolge infernali e la montagna del purgatorio, approda alla visione di Dio, così Eliot si muove da un mondo caotico e funereo per raggiungere il regno dell’ordine e della vita. L’itinerario poetico, che riflette l’esperienza spirituale del Poeta, si effettua in tre momenti. Il primo comprende un periodo di aridità, di degradazione morale e di disgregazione della personalità; ad esso corrispondono Prufrock e altre osservazioni (1917), Poesie (1920), La terra desolata (1922), Gli uomini vuoti (1925). Il secondo periodo si accompagna a Mercoledi delle ceneri (1930) e inaugura un «tempo purgatoriale» di ricerca di redenzione. Il terzo periodo si snoda sulla scoperta della verità e sull’adesione alla fede cristiana; comprende Quattro quartetti (1940-43), i cori da La rocca (1934), Assassinio nella cattedrale (1935) e, in misura diversa, gli altri drammi.
Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (The Love Song of J. Alfred Prufrock, poi inserito nella raccolta poetica Prufrock and Other Observations), è tutt’altro che un canto d’amore: è il triste soliloquio di un antieroe che lancia nel vuoto il suo dire desolato e disincantato, inoltrandosi
Per certe strade semideserte,
Mormoranti ricoveri
Di notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzo
E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche;
Strade che si succedono come un tedioso argomento
Con l’insidioso proposito
Di condurti a domande che opprimono…
Oh, non chiedere «Cosa?»
Andiamo a fare la nostra visita (p. 5)
Si va avanti senza sapere dove, perché, fino a quando; impossibile capire, comunicare, fermarsi ché l’atmosfera è irrespirabile. Disincanto e paura, stanchezza e noia, mentre la vecchiaia incalza e la morte spia. Lo stesso clima di disfacimento si respira in Poesie. Gerontion, più che un personaggio, è il simbolo della decrepitezza, sgradevole e arida.
Eccomi qui, vecchio in un mese arido […].
La mia casa è una casa in rovina […].
La capra a notte tossisce nel campo che sta dietro; Rocce, muschio, gramigna, ferrivecchi, merde […].
Io un vecchio,
Una testa intronata fra spazi ventosi (p. 47).
Il vecchio ha avuto la rivelazione dell’immenso panorama di futilità e «di anarchia» in cui non c’è riscatto ma impotenza e tragico inaridimento. The Waste Land (La terra desolata) riprende e amplifica i temi di Poesie, offrendo un quadro pauroso della desolazione e della sterilità in cui è caduta la civiltà occidentale a causa del disamore e della perdita dei grandi valori umani. È il più noto poema di Eliot, composto di 493 versi[12], difficile da capire nonostante le «note» dell’autore, ma con guizzi di alta poesia. Per la sua intelligenza è importante non tanto seguire l’ordine narrativo quanto abbandonarsi al flusso delle emozioni; cioè «entrare nel poema e prendervi dimora» per sintonizzarsi col poeta e condividerne gli impulsi creativi. E il poema affonda le sue radici in un passato favoloso dal quale emergono miti, leggende, culti pagani: tutto assume valore di simbolo per rappresentare l’angoscia e la devastazione del mondo moderno.
Il poema si compone di cinque canti. Il primo La sepoltura dei morti si apre col famoso verso Aprile è il mese più crudele. Perche? Perché inaugura la primavera nella quale c’è il risveglio della terra, dunque della vita. Tale risveglio è crudele per le «anime morte» della terra desolata che hanno perduto il gusto e la speranza della vita. Esse vogliono dormire, preferiscono «l’inverno che le mantiene al caldo». Non risvegliatele. Alla fine del canto il torpore si colora di morte. La folla del London Bridge ha «gli occhi fissi ai piedi» e un’andatura spettrale; è tanta ch’i’ non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. La reminiscenza dell’Inferno di Dante[13], del canto funebre in The White Devil di Webster e il verso di Baudelaire (Toi, hypocrite lecteur! – mon sembable, – mon frère) ripetono che ci troviamo nel regno dei morti. Il terzo canto Il sermone del fuoco emana odore di disfacimento. Al «dolce Tamigi» si sostituisce un «tetro canale», regno di topi, in cui finiscono uomini e donne di ogni tempo. Il cieco Tiresia vede nel buio di una scala gli stanchi amori di due amanti; vede soprattutto lo squallore in cui muoiono tutti gli amori. Nel quarto canto La morte per acqua protagonista è ancora la morte nella quale tutto confluisce, si livella, si sgretola. L’ultimo canto Ciò che disse il tuono riecheggia sentimenti di aridità (Vi fosse almeno acqua fra la roccia | Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare), di sbigottimento per lo spettacolo delle orde incappucciate che sciamano su pianure infinite, disseminando terrore e rovine.
C’è speranza di salvezza in questa waste land? È la voce di Dio quella che parla nel tuono e annunzia la pace dell’annientamento? Il termine sanscrito Shantih[14], ripetuto tre volte alla fine del canto, lascia intravedere un annunzio di pace ineffabile che oltrepassa ogni comprensione. Pace del nulla o pace della rigenerazione? La terra desolata offre uno scenario su cui sfilano fantasmi e simboli di morte. Le voci dei poeti, dei veggenti e dei saggi di ogni tempo – Ezechiele, l’Ecclesiaste, Buddha, Ovidio, sant’Agostino, Dante, Shakespeare, Kyd, Webster, Baudelaire, Nerval, Wagner, Verlaine, Hesse – riecheggiano lugubremente per poi spegnersi in cieli deserti. La vita? Un intrico di morte, di buio, di noia; tutto si dissolve e si decompone; il futuro è fagocitato dal passato. Meglio chiudere bottega e andarsene.
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Buonanotte Bill. Buonanotte Lou. Buonanotte May. Buonanotte.
Ciao. ‘Notte. ‘Notte.
Buonanotte signore, buonanotte, dolci signore, buonanotte (p. 95).
Sono le parole con le quali si accomiata Ofelia demente, nell’Amleto di Shakespeare. Risuonano come un ritornello sulla vanità della vita, quasi a ribadire che vita e morte sono termini illusori di una stessa realtà. Non tutto però è disperazione e deserto, alcune luci rischiarano gli orizzonti. Nell’ultima parte di Ciò che disse il tuono si ode la voce del tuono, annunziatrice della pioggia che rinverdisce la terra. La voce arcana invita a «dare, compatire, frenare», cioè all’altruismo e alla comprensione quale presupposto per una vita ordinata, solo rimedio all’aridità che ha devastato la terra.
Anche Cristo fa una timida comparsa, in penombra, dietro le quinte. Senza nominarlo, il poeta lo fa intravedere prima nell’Orto dell’agonia, poi sulla strada di Emmaus. Quest’ultimo quadro gli fu suggerito dal racconto di una spedizione antartica: si riferiva che gli esploratori, stremati di forze, avessero l’illusione che tra loro vi fosse una persona in più. Il richiamo all’episodio evangelico è immediato e significativo.
Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco? (p. 111).
Sogno o realtà? Fantasia o speranza? Non è dato sapere. Comunque sia, anche un sogno o una fantasia, nella terra desolata, acquista un senso di speranza.
In cammino, verso il «Verbo silenzioso»
Non pochi poeti e scrittori hanno descritto l’«inferno» della condizione umana. Mentre per alcuni esso non ha sbocchi, sbarrato com’è da massicce mura di disperazione totale (come quello degli eroi sartriani o beckettiani), per altri la sua consapevolezza implica l’esistenza di un paradiso, perduto sì, ma che è possibile riconquistare. È il caso di Baudelaire, e di Eliot. Mercoledì delle Ceneri segna il limite tra l’inferno della Terra desolata e il purgatorio nel quale avviene la purificazione per raggiungere il paradiso cui l’uomo è destinato. Tappa ardua, questa, per il dibattersi dell’anima tra speranza e disperazione, assenso e rifiuto.
Il poema segna cronologicamente il centro della poesia e della vita di Eliot. Nel 1927, trentanovenne, si converte dall’unitarianesimo[15] alla Chiesa anglicana, dopo un lungo e sofferto itinerario spirituale. Essendo la sua poesia il riflesso della sua vita interiore, la svolta religiosa imprime un timbro nuovo alla sua opera. Mercoledi delle ceneri costituisce un preludio – discreto, talvolta incerto, ma inequivocabile – degli sfondi nuovi sui quali si collocheranno gli Ariel Poems, i cori de La rocca, i Quattro quartetti, Assassinio nella cattedrale. Il cristianesimo di Eliot «non ha niente di evasione, di ripiego a cui l’anima si determini per sfuggire a un’intollerabile angoscia. Eliot non è giunto al cristianesimo perché, stanco di una intense moral struggle, abbia a un certo punto deciso di concedersi dei bewildering minutes, un appagamento sentimentale; vi è giunto al termine di quella moral struggle, accettata e combattuta fino in fondo con immenso coraggio»[16].
Nell’atmosfera crepuscolare di Mercoledì delle Ceneri non c’è più il «deserto pietroso» della Terra desolata, né l’arida terra degli Uomini vuoti, nella quale si confondono volti e voci; ora si avverte la presenza dell’anima individuale che si definisce sempre più nella purificazione e nella preghiera. Anche il senso della storia si va precisando, nella luce dell’Incarnazione. Il poema procede per sezioni, sei in tutto, quasi atteggiamenti dell’anima lungo i sentieri della purificazione sui quali avanza, in umiltà e fiducia, coperta di cenere. Il linguaggio è sciolto, i simboli densi di significato, l’atmosfera impregnata di stilnovismo e di purgatorio dantesco, i versi riecheggiano temi biblici e liturgici.
«In my Beginning is my End»
Riconoscere e accogliere Cristo non è facile. Il protagonista della poesia Il viaggio dei magi ricorda il faticoso avanzare fra un popolo straniero che è rimasto aggrappato ai propri idoli e che quando sente parlare della Nascita proclama che è tutto follia. Per raggiungere il Dio della vita bisogna accettare la morte dei tanti idoli disseminati lungo il nostro cammino. Di questa morte il protagonista della poesia si dice lieto perché immette nella vita nuova. Di essa Canto di Simeone è l’eco nostalgica. Il vecchio invoca la morte, che è la pace di Dio, poiché ha visto la consolazione d’Israele. Perché vivere quando si è stanchi della propria vita e della vita di quelli che verranno? e quando l’orizzonte è carico di minacce per la persistente miseria umana? Perché vivere, ora che la terra è stata riscattata?
Concedi a noi la tua pace.
Prima delle stazioni della montagna di desolazione,
Prima dell’ora certa del dolore materno,
Ora in questa stagione di nascita e di morte,
Possa il Figliolo, il Verbo non pronunciante e impronunciato ancora[17]
Accordare la consolazione d’Israele
A un uomo di ottant’anni e che non ha domani (p. 119).
Simeone è simbolo dell’uomo di ogni tempo il cui scopo non è trascinare l’esistenza sui lidi devastati dalla violenza e dal buio, ma avviarsi verso l’eternità sui sentieri tracciati da Cristo.
Sempre negli sfondi, ma precisa e densa di significato, è la presenza di Cristo nei Quattro quartetti, il poema mistico che ha consacrato la fama di Eliot. In esso temi metafisici s’intrecciano a temi teologici e cosmologici, spesso di difficile comprensione; i versi sono ellittici, sincopati, ricchi di riferimenti e di risonanze; le idee sprizzano come scintille. «Ogni quartetto è diviso in cinque parti, con un’alternanza di recitativo, “meditazioni” e liriche, che si ripete più o meno nello stesso ordine in tutti i quartetti. Proprio come nelle composizioni musicali analoghe, i temi sono introdotti, svolti, ripresi, variati e rielaborati in forme diverse; determinati motivi si presentano sempre associati a determinate forme; frasi particolari riecheggiano a distanza come ritornelli»[18].
Divisi in quattro parti – denominate ciascuna da località care alla memoria del poeta – i Quartetti possono definirsi il breviario mistico di Eliot. In essi si esalta il tempo riscattato e l’eternità onnipresente, il rasserenante amore del divino e dell’umano, la conquista della pace profonda. I temi di fondo sono sostanzialmente tre: relazione tra la durata e l’intemporale, senso della storia, mistero dell’Incarnazione e della Redenzione[19]. Soprattutto il tema del tempo, che rende i nostri giorni frammentari e deludenti perché sbriciola e confonde tutto. Un interrogativo s’impone: ha un senso il sorgere e il tramontare delle cose? Qual è il fine dell’uomo, sperduto com’è tra queste schegge del tempo? è possibile sfuggire alla durata e ancorarsi a un istante eterno?
Nel secondo movimento di Burnt Norton si parla di un punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo, visione di un mondo quale lo vede colui che vive nella chiarezza dell’estasi beatifica. Nella seconda lirica di East Coker poi si afferma la sintesi tra principio e fine, che apre un varco verso l’immobile punto. La lirica inizia col motto (rovesciato) di Maria Stuarda: In my beginning is my end (nel mio principio è la mia fine) e termina col motto trascritto nella sua forma originaria: In my end is my beginning (nella mia fine è il mio principio). Al pensiero della caducità della vita subentra la certezza cristiana della sopravvivenza, cioè dello stabilirsi nell’eternità di Dio. Tale certezza porta in primo piano il Salvatore.
Cristo appare nella quarta lirica di East Coker, in un contesto fortemente allegorico per la cui comprensione è necessario comprendere i simboli e le immagini derivanti da san Giovanni della Croce e dai metafisici inglesi. La terra è rappresentata come un ospedale, regno della morte; Cristo in esso si aggira come un chirurgo, le mani insanguinate, per guarire.
Sotto le mani insanguinate sentiamo
L’arte pungente e pietosa di chi guarisce
E scioglie l’enigma del diagramma della febbre (p. 283).
Per guarire dobbiamo riconoscerci malati, dunque bisognosi del medico; e dobbiamo obbedire all’infermiera, cioè alla Chiesa, il cui compito non è assecondare i nostri desideri ma ricordarci la maledizione nostra e d’Adamo | E che per guarire la nostra malattia deve peggiorare, cioè, mediante la sofferenza che espia, possiamo raggiungere la salvezza. Non siamo più nel regno della morte poiché Cristo ci ha lasciato il suo sangue come bevanda e la sua carne come cibo.
Nostra sola bevanda il sangue che stilla,
Nostro solo cibo la carne sanguinosa
All’invito della Chiesa noi recalcitriamo perché appesantiti dall’orgoglio e dal materialismo. Si, parliamo di Eucaristia e di Venerdì Santo; in realtà viviamo come se la morte del Signore non fosse mai avvenuta. È necessaria la penitenza, necessaria l’umiltà. Negli ultimi versi della terza lirica – sempre di East Coker – Eliot parafrasa un famoso brano della Salita al Monte Carmelo di san Giovanni della Croce in cui è sintetizzata la dottrina per approdare a Dio: spogliarsi del vecchio uomo, bramoso di tutto possedere, tutto concedersi, in tutto soddisfarsi. «In questa nudità lo spirito trova la sua quiete e il suo riposo; poiché, nulla desiderando, nessuna cosa lo sospinge in alto, né lo deprime in basso; e così viene a trovarsi nel centro della sua umiltà. Al contrario, quando brama qualche cosa, in ciò stesso si affatica»[20]. Ecco come Eliot parafrasa la severa dottrina ascetica del Santo:
Per arrivare dove siete, per andare via da dove non siete, per arrivare là,
Dovete fare una strada nella quale non c’è estasi.
Per arrivare a ciò che non sapete
Dovete fare una strada che è quella dell’ignoranza.
Per possedere ciò che non possedete
Dovete fare la strada della privazione.
Per arrivare a quello che non siete
Dovete andare per la strada nella quale non siete
E quello che non sapete è la sola cosa che sapete
E ciò che avete è ciò che non avete
E dove siete è là dove non siete (pp. 281-283).[21]
In Mercoledi delle ceneri si avvertiva l’eco della teologia «notturna» di san Giovanni della Croce e dei suoi grandi insegnamenti sui sentieri dell’oscurità e della spogliazione per procedere verso la purificazione e approdare alla luce. Nei Quartetti tale obiettivo è stato realizzato: resta la legge del nada per raggiungere il todo, cioè voltare le spalle al vecchio uomo del peccato per rivestirsi di Cristo.
The Dry Salvages è il poemetto dell’Incarnazione da cui fiorisce la speranza. La quarta parte – ritenuta un piccolo capolavoro – contiene una bellissima preghiera alla Vergine. Lo sfondo del Quartetto è il continuo turbinoso scorrere del tempo: come le acque del fiume, come un battello sul mare, la vita scorre, tra rottami e insidie, vociari minacciosi e nebbie silenziose. Il rintocco di una campana ammonisce sia sui pericoli incombenti sia sul rovinio operato dal tempo. Dopo le varie tristi annunciazioni – di tempeste, di sciagure, di morte – ecco, finalmente, the one Annunciation, l’unica annunciazione che segna l’intersecarsi del tempo con l’eternità, grazie all’Incarnazione che ha aperto all’uomo la porta della vita di Dio.
Nella visione eliotiana, Cristo non è un accessorio: è il centro di tutto perché in lui soltanto è possibile sottrarsi al flusso dei giorni, dunque alla vanità del vivere, e ancorarsi nell’eternità di Dio. Perché ciò si realizzi, Eliot invoca la protezione della Vergine:
Signora il cui santuario sta sul promontorio,
Prega per tutti quelli che sono in mare, quelli
Il cui mestiere è di pescare, e quelli
Intenti a ogni traffico legittimo
E quelli che li guidano.
Ripeti una preghiera anche per le
Donne che han visto i loro mariti e i figli
Partire e non tornare:
Figlia del tuo figlio,
Regina del Cielo.
Anche per quelli prega ch’erano in navi e in viaggio
Finirono sulla sabbia, del mare sulle labbra,
O nella gola oscura che non li renderà
O dovunque raggiungerli non può l’eterno angelus
Della campana del mare (p. 301)[22]
L’ultimo quartetto, Little Gidding, ricorda la visita a una cappella solitaria, meta di pellegrinaggi di grandi spiriti che ivi meditarono e pregarono, lasciandoci una ricca eredità di insegnamenti. La quinta lirica ricapitola splendidamente tutti i temi dei quartetti. Il fuoco purificatore ha bruciato le scorie caduche, il tempo è stato redento, la strada è aperta sull’eternità che è Amore, la misteriosa voce del Signore ci interpella. Con la forza di questo Amore e la voce di questo Appello possiamo avviarci verso la Vita. I versi che chiudono il poema, di sapore dantesco, esprimono la consumazione del tutto nel fuoco divino.
E tutto sarà bene, e
Ogni sorta di cose sarà bene
Quando lingue di fuoco s’incurvino
Nel nodo di fuoco in corona
E il fuoco e la rosa sian uno.
La candida rosa, che nel suo sangue Cristo fece sposa[23], fecondata dallo Spirito Santo, si è inabissata nel mistero trinitario. È il caso di affermare: In my Beginning is my End: Dio è il nostro fine e il nostro tutto.
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[1] Thomas Stearns Eliot nacque a St. Louis (Missouri), il 26 settembre 1888, da famiglia inglese residente da tempo negli USA, calvinista e puritana di stretta osservanza. Studio letteratura e filosofia all’Università di Harvard, dove si laureò con una tesi sulla filosofia di Bradley. Nel 1910 visitò Parigi, dove Bergson teneva i suoi corsi nei quali il giovane Eliot vide «tutto il passato» e «a volte tutto l’avvenire», fusi in un «tempo compiuto». Visito anche l’Inghilterra e la Germania, e nel 1915 si stabili definitivamente nella terra dei suoi avi, anzi nel 1917 ottenne anche la cittadinanza britannica. Poté in tal modo venire a conoscenza della grande letteratura europea, particolarmente della poesia metafisica inglese, del simbolismo francese, della poesia provenzale e stilnovistica, e soprattutto di Dante per il quale ebbe un’ammirazione illimitata. Nel 1917 si converti all’anglicanesimo e pronunciò la sua celebre dichiarazione di fede: classico in letteratura, monarchico in politica, anglocattolico in religione. Sotto la spinta e l’incoraggiamento di Ezra Pound altro poeta americano «europeizzato» -, nel 1917 pubblicò il suo primo libro di poesia: Prufrock and Other Observations (Prufrock e altre osservazioni), cui seguirono un’opera di prose critiche, The Sacred Wood (Il bosco sacro), e, nel 1922, il famoso poemetto The Waste Land (La terra desolata), che gli procurò notorietà, prestigio e tranquillità economica. Altre sue opere poetiche importanti sono The Hollow Men (Gli uomini vuoti) (1924), Ash-Wednesday (Mercoledi delle ceneri) (1930), Four Quartets (Quattro quartetti) (1943). Tra i suoi drammi ricordiamo il notissimo Murder in the Cathedral (Assassinio nella cattedrale) (1935). Nel 1948 ottenne il Premio Nobel e nel 1955 il Premio Goethe a Edimburgo. Mori a Londra il 4 gennaio 1965.
[2] Particolarmente importanti sono per noi italiani i saggi eliotiani su Dante, nel quale Eliot vide, in opposizione all’arbitrario individualismo romantico, il tipo perfetto del poeta, colui che esprime «la più grande intensità emotiva del tempo suo, basata su quello che costituisce il pensiero del suo tempo». Accanto a Dante, due grandi figure dominano la scena della poesia: Shakespeare e Goethe, nel senso, però, che, mentre Dante quale inequivocabilmente supernaturalist indica l’aldilà, e Shakespeare, inequivocabilmente naturalist rappresenta con stoica incorruttibilità la realtà della vita non redenta ma bisognosa di redenzione, Goethe oscilla ambiguamente tra questa vita e l’altra e, con l’illusione umanistico-individualistica, ritiene che l’uomo possa salvarsi da solo ed evita le realtà assolute» (E. C. MASON, Eliot, in Dizionario della letteratura mondiale del sec. XX, vol. II, SAIE, Roma-Torino 1968, 23). Degna di nota è anche la famosa conferenza L’idea di una società cristiana in cui Eliot afferma che la società cristiana è la sola che possa dare senso all’esistenza.
[3] E. GUIDUBALDI, «Il Dante di T. S. Eliot», in Civ. Catt. 1950 I 270.
[4] F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Sansoni, Firenze 1958, 822.
[5] Testo riportato da M. GUIDACCI, Studi su Eliot, IPL, Milano, 1975, 7.
[6] Tradizione e talento individuale, in T.S. ELIOT, Opere, Bompiani, Milano 1986, 728. Tutte le citazioni sono prese da questo volume intelligentemente curato da Roberto Senesi.
[7] T.S. ELIOT, Il bosco sacro, Bompiani, Milano 1985, 124.
[8] M. PRAZ, Cronache letterarie anglosassoni, vol.I, Storia e letteratura, Roma 1950 (riportato in T.S. ELIOT, Opere, cit., 1.163)
[9] M. GUIDACCI, Studi su Eliot, cit., 10.
[10] Cfr F. RONCONI, Testo e contesto, Mondadori, Milano 1984, 768.
[11] Cfr D. DAICHES, Storia della letteratura inglese, vol. III, Garzanti 1983, 237.
[12] La prima versione era molto più lunga. Fu Ezra Pound che, d’accordo con Eliot, ridusse il testo di circa mille versi.
[13] Cfr. Inferno III, 55-57: si lunga tratta | di gente, ch’io non avrei mai creduto | che morte tanta n’avesse disfatta.
[14] Si tratta della chiusa formale di una Upanishad. In italiano Shantih è «pace ineffabile».
[15] Gli unitariani negano la Trinità e la divinità di Gesù.
[16] M. GUIDACCI, Studi su Eliot, cit., 14 S.
[17] Let the infant, the still unspeaking and unspoken Word: perchè bambino, Gesù non si proclama Verbo, nè tale è proclamato.
[18] R. SANESI, in Note a T. S. ELIOT, Opere, cit., 1.118.
[19] Così li riassume Helen Garner. Cfr G. CATTAUI, Eliot, Borla, Torino 1964, 112.
[20] S. GIOVANNI DELLA CROCE, Opere, Post. Gen. dei Carmelitani Scalzi, Roma 1959, 63 s.
[21] Ecco il testo nell’originale 1) Para gustarlo todo, no quieras tener gusto en nada. 2) Para venir à saberlo todo, no quieras saber algo en nada. 3) Para venir à poseerlo todo, no quieres poseer algo en nada. 4) Para venir á serlo todo, no quieres ser algo en nada. 1) Para venir a lo que no gustas, bas de ir por donde no gustas 6) Para venir a lo que no sabes. has de ir por donde no sabes. 7) Para venir á lo que no posees, bas de ir por donde no posees. 8) Para venir a lo que no eres, no eres. della Subida (1.1, c. 13). MODO PARA NO IMPEDIR AL TODO 1) Cuando reparas en algo. dejas de arrojarte al todo. 2) Porque para venir del todo al todo, bas de negarte del todo en todo. 3) Y cuando lo vengas todo à tener, bas de tenerlo sin nada querer. 4) Porque si quieres tener algo en todo; no tienes puro en Dios tu tesoro.
[22] Questo brano – nota R. Sanesi nelle Note alle Opere (cit., 1.133) – è il pezzo più facile di tutti i quartetti, ma non per questo il meno bello, anzi! Eccone il testo originale: Lady, whose shrine stands on the promontory, Pray for all those who are in ships, those | Whose 1 business has to do with fish, and Thase concerned with every lawful traffic And those who conduct them. Repeat a prayer also on behalf of Women who have seen their sons or husbands | Setting forth, and not returning: | Figlia del tuo figlio, | Queen of Heaven. Also pray for those who were in ships, and Ended their voyage on the sand, in the sea’s lips | Or in the dark throat which will not reject them Or wherever cannot reach them the sound of the sea bell’s Perpetual angelus.
[23] DANTE, Paradiso, 31, 3.