
«Lo scopo dell’arte è rendere visibile l’invisibile»: questa è una delle citazioni scritta a grandi lettere su di una parete, in occasione dell’allestimento della mostra dedicata al fotografo Franco Fontana (1933). Curata da Jean-Luc Monterosso, Retrospective permette di conoscere la poliedricità e il coraggio che contraddistinguono i lavori dell’artista. Fontana è un pioniere della fotografia contemporanea: quando, negli anni Sessanta, il bianco e nero era considerato l’unico filtro attraverso il quale poter cogliere l’elegante essenza della realtà, egli scelse invece i colori.
Spaziando dal paesaggio naturalistico alle città, dalla quotidianità delle metropoli alle sperimentazioni più intime di nudità, la fotografia di Fontana è pittorica. La ricerca del dettaglio, il gioco delle linee, i pieni e i vuoti stordiscono chi osserva. L’artista, nei suoi scatti, compie una frammentazione del mondo; il che richiede del tempo per guardare, capire e ri-conoscere. È proprio nel suo dettagliare la realtà che fuoriesce quell’invisibile che il creato contiene. Quel mistero, che è davanti ai nostri occhi e che fatichiamo a vedere, si manifesta soprattutto negli Skyline, dove si abolisce il visibile. Qui il paesaggio perde consistenza; talvolta è tutto sovvertito in una realtà capovolta: cosa è cielo? E terra? E mare? E sabbia?
Un mondo letto al rovescio può essere specchio di un’interiorità ribaltata: è la stessa metanoia che opera dentro di sé chi abbraccia la fede in Cristo. È tutto un lavoro interiore, quello che compie Fontana. Egli stesso ha dichiarato che, quando si accinge a fotografare un paesaggio, tenta di lasciarsi attraversare da esso, così che possa diventare anch’egli, a sua volta, un «paesaggio», per esprimersi al meglio. L’opera che ne deriva, quindi, è frutto di un incontro amoroso, perché è nel mutuo riconoscimento degli innamorati che la vita prende forma, e così la creatività acquisisce un senso. Diventare un tutt’uno, sentire, vedere, conoscere attraverso nuovi occhi, ma soprattutto lasciarsi guardare e farsi immagine dell’altro è la grande sfida che l’artista compie.
Una certa poetica Fontana riesce a coglierla anche nella realtà urbana: una, composta da architetture avvolte nel silenzio e toccate dalla luce, di cui egli ritrae un dettaglio, uno scorcio; un’altra, fatta di città e persone. Quest’ultima serie trova la sua realizzazione in America, nei viaggi compiuti tra il 1979 e il 2008. Qui l’artista fotografa la frenesia della vita americana, eppure riesce a catturare immagini in cui, anche se è il movimento a fare da padrone, l’attesa e la pausa prendono ampio spazio. Tutto ciò sarà frutto, evidentemente, della sua ricerca del «chi sei» e non del «chi vuoi essere», come Fontana dichiara nella video-intervista proposta nel percorso.
È interessante scoprire, a un certo punto, cosa abbia determinato il cambiamento dei soggetti delle sue opere: Fontana ha temuto di diventare schiavo di sé stesso, di ripetersi, e quindi di appiattirsi. Così, ha abbandonato i paesaggi e ha accettato la sfida di fotografare in bianco e nero, come richiesto per partecipare al libro Contact Theory.
Questa è l’occasione per l’artista di scoprire le ombre. Un luogo, quello dell’ombra, che – come ricorda lo scrittore giapponese Tanizaki – è esplorato più dall’Oriente che dall’Occidente. Due realtà agli antipodi nella disperata ricerca della bellezza, in cui è dirimente la percezione della luce. Nell’ombra che, in realtà, è penombra, rivestita di una tenerezza che manca al buio, risiede il germe della luce. Allora, la luce e l’ombra non sono in un confronto antitetico, ma piuttosto ci parlano delle «due fonti di luci grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte; e le stelle» (Gen 1,16), che riverberano di una Luce ancora più grande.
Attraverso l’obiettivo di Fontana le incongruenze, l’imperfezione e i contrasti del mondo da cui è affascinato acquisiscono una nuova suggestione, che rapisce e commuove.