
Solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea, ultimo album del musicista Michele Gazich, è un arazzo poetico e musicale principalmente intessuto dal suo violino e dal violoncello di Giovanna Famulari, i cui fili, sottili e finissimi, evocano attimi di esistenza di Goethe, Chagall, Hölderlin, Beethoven, Wenders, De André…
Leggendo il libretto che accompagna il cd, scritto con accuratezza dallo stesso musicista, comprendiamo la complessità di questo suo ennesimo viaggio musicale, i cui testi e musiche raggiungono un ardito equilibrio, ottenuto per sottrazione, per radicalità ed essenzialità poetica e musicale. Si viaggia, per citare una celebre frase di De André, in «direzione ostinata e contraria», ossia andando contro tutto ciò che non ha sapore di profondità esistenziale, di sapore per la ricerca del vero, che non è ideologia, ma espressione di un’investigazione che comprende anche deragliamenti e cadute.
L’album inizia con la canzone «Perché Goethe è partito per l’oriente?», con un riferimento all’estate del 1814, quando il poeta tedesco, all’età di 65 anni, decide di intraprendere un viaggio in Renania, verso i luoghi della sua infanzia. In questo periodo egli scrive West–östlicher Divan, «densissimo canzoniere d’amore in cui i modi della poesia orientale vengono riproposti con la sensibilità di uno dei più grandi poeti dell’occidente. Goethe cambia tutto: bruciato dall’amore, fa a pezzi le strutture fino a quel momento certe della sua poesia e scrive un libro leggero e profondo insieme. Definiva queste poesie “Il gioco selvatico della polvere e del vento”» (libretto cd, p. 3).
Intriso di pensiero mistico è il brano «Alice nel paese di Chagall», che evoca il Museo Marc Chagall di Nizza, dove Gazich – come egli stesso afferma – ritorna per contemplare quelle tele in cui l’artista, ormai anziano, «coagula la ricerca di un’intera esistenza, mentre i colori si accendono nella pura luce del sole della costa azzurra appena filtrata da velari bianchi» (ivi, p. 7). La dolcezza dell’accompagnamento del pianoforte e le tenui note del violoncello fanno da flebile sostegno alla voce, quasi sussurrata, del cantato di Gazich.
«La resa» è emblematicamente il brano più lungo dell’album, con i suoi abbondanti sette minuti, quasi a significare che è una resa meditata, contemplata, alla quale non è facile concedersi. Il violino, che riprende il tema dell’andante del concerto per pianoforte e orchestra K 488 di Mozart, si erge in tutta la sua drammatica e vibrante forza, contrapponendosi alla gravità delle note del pianoforte. Il ritornello, che sboccia quasi inaspettato, esprime il senso della soavità prodotto dalla resa: Possa il vento del nord / trattenere il suo respiro / è così lento ad aprirsi un fiore / puoi arrenderti ancora / o per la prima volta. La resa di cui parla Gazich non è rinuncia, ma un atteggiamento di ribellione a sé stessi, al solipsistico essere fautori di sé stessi. Esiste l’imprevedibile, ciò che esce dalla logica ferrea, l’inatteso, che è portatore di esistenza e a cui è necessario arrendersi.
Cogliere questo inatteso e imprevedibile è forse il miracolo più significativo in un mondo che per le atrocità, ingiustizie e dolori appare totalmente disumano, come viene cantato nell’incipit dell’ultima canzone: Sputo, sputo, sputo fuori tutto / in questa trincea chiamata vita / chiamata circo, chiamata lacrime, chiamata madre. In questo mondo che è, come dice papa Francesco, un «ospedale da campo», è necessario credere che «solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea». Questo è il titolo e il ritornello corale dell’ultima canzone, che dà il titolo anche all’album, che risulta essere un ardito percorso letterario, poetico, musicale, e dunque profondamente umano. Alla fine dell’ascolto rimane così l’eco – quasi un mantra che scende nella profondità dell’anima – di questo semplice e stupendo ritornello, che è un segno di speranza e di ribellione nei confronti di tutto quel male che in questi tempi pare avere il sopravvento sulla vita.