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Leggere le saghe di Alfred Bertram Guthrie Jr. (1901-91) è abbandonarsi con voluttà su due tracce, malinconiche ed avventurose a un tempo: quella del paesaggio maestoso e aspro di un Nordovest americano sulla soglia crepuscolare e tragica (tra il 1845 e il 1870) della sua definitiva trasformazione, e quella di una lingua nella quale l’intensificazione stilistica dei dialoghi rivela un orecchio assoluto, e l’economia espressiva esalta la forza epica delle brutali vicende degli uomini e della storia.
Nelle narrazioni di Guthrie si avverte la potenza della natura di Jack London, echeggia la cupa antropologia di Cormac McCarthy, il sentimento, se non lo humour, delle relazioni tra ruvidi avventurieri di Charles Portis, e la bestiale vita di frontiera raccontata da John E. Williams: una galleria di scrittori di enorme talento, che, ognuno a suo modo, di quella formidabile America in divenire ha eternizzato le miserie, ma anche la numinosa bellezza.
L’ethos dell’eroe, Dick Summers, «un uomo maledettamente in gamba», già protagonista dei due precedenti volumi della trilogia (The Big Sky e The Way West), è lo stesso dello scrittore dell’Indiana, che fu anche un campione di conservazionismo: agire secondo i dettami della legge naturale, che è rispetto del vivente e non solo dei diritti degli uomini, in netta contrapposizione con i soprusi e le predazioni sistematiche, i trattati mendaci che insidiano la stessa sopravvivenza dei nativi americani e delle loro terre: «Gli indiani si erano organizzati abbastanza bene. Uccidevano solo quando necessario […]. Non gli è mai venuto in mente di delimitare un pezzo di terra e dire: questo è mio. La terra apparteneva a tutti». «E poi è arrivato l’uomo bianco. Voleva pellicce. Voleva terra». È l’inizio della fine.
Siamo in un mondo aspro, immerso in una natura selvaggia, sebbene già contaminata e corrotta: un mondo popolato dai mountain men delle Montagne Rocciose, cacciatori ed esploratori; guerrieri Piedi Neri e Shoshone, fuorilegge in fuga; una realtà di violenza e spoliazione, ma anche di sodalizi umani che infrangono le barriere di razza e potere, come i matrimoni tra Dick, il suo compagno Higgins e le due donne indiane Teal Eye e Little Wing. L’esistenza durissima delle terre brulle, delle foreste di conifere, delle immense praterie.
Una vita che Guthrie non idealizza affatto, ma di cui riconosce implicitamente l’autenticità: «Che razza di modo di vivere! Sempre senza un soldo […], campo dopo campo, con il fumo del fuoco negli occhi e il freddo che ti gelava le ossa. Vagabondi persi in mezzo alla natura, sì, senza moglie, senza figli, senza obiettivi. Questo era il loro futuro. Sempre che fossero riusciti a sopravvivere, a resistere alla neve invernale, ad attraversare gli aspri passi alti e a trovare la pianura».
E intorno, le immense mandrie di bisonti (a metà del XIX secolo se ne contavano 50 milioni, poi ridotti al limite dell’estinzione), il mare fluttuante delle loro gobbe, i grandi corsi d’acqua, l’Oregon Trail, la strada delle esplorazioni e dei convogli di carri, della colonizzazione e della conquista. Un mondo in bilico, per poco ancora al di qua della sua antropizzazione definitiva, «dove un cacciatore sapeva di essere il primo a mettere piede su quella terra e camminava con gli dèi del mondo, sentendosi allo stesso tempo piccolo e grande, e benedetto».
E la storia di un’esistenza, quella di Dick, tracciata dalla girovagante maturità alla vecchiaia sedentaria, in un mondo in cui le notizie e le fiammate improvvise della grande storia, come la Guerra civile americana e la corsa all’oro, si apprendono di bocca in bocca, di bivacco in bivacco. Le avventure di Dick non hanno e non potrebbero avere un lieto fine, se non tradendo il peso immane di una storia che è stata strage di uomini, di animali, di terre e di culture native.
Eppure, lo struggimento per quel tempo in cui «pensavamo che quella vita sarebbe durata per sempre» contiene anche l’istinto a «goderne finché c’è ancora tempo», a coltivare il presente, pur fragile e transitorio: «Tutto finisce. Tutto prima o poi deve lasciare spazio a un nuovo inizio […]. Se la sua testa era carica di ricordi e persino di rimpianti, era anche ricca e piena di ciò che aveva adesso. Ma, nel bene e nel male, il cambiamento faceva parte della vita».