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«Non fu toccante ma ben deludente, dopo un viaggio così lungo e pieno di emozioni, il nostro arrivo in Olanda; preferiamo per questo tacerne. Il nostro gruppo si sciolse, ognuno solo ormai con i suoi problemi. Io ritrovai mia moglie e i miei figli sani e salvi, ma per tanti altri non fu così e sarebbe stato per loro ben difficile ricostruirsi una vita; per alcuni temo sia stato impossibile» (pp. 134 s). Con queste parole, dal tono piuttosto sommesso, Jo Koopman conclude il racconto relativo alla propria deportazione e liberazione, nonché alle tante tappe del viaggio che lo avrebbe riportato a casa, ad Amersfoort.
Un racconto, scritto negli ultimi mesi del 1945 e nei primi del 1946, che, pubblicato con il titolo Wandelende Joden («Ebrei erranti»), vede ora la luce in italiano grazie alla scorrevole traduzione di Alba Maria Tarozzi e ci fornisce una vivida testimonianza sulla Shoah d’Olanda. Un contributo che va ad aggiungersi a quelli, certamente più noti, di autori come Abel Herzberg, Etty Hillesum, Philip Mechanicus, ma che appare pregevole a sua volta sia per la vivacità della narrazione sia per la concisione e l’incisività della prosa.
Jo(zeph) Koopman era nato ad Amsterdam nel 1906 da genitori ebrei osservanti, che vivevano in un quartiere popolare situato al centro della città. Il padre, un venditore ambulante di frutta e verdura, veniva aiutato a svolgere la sua attività dal figlio, il quale, tuttavia, aderì al movimento socialista. Jo sposò in seguito Alida Breeuwer, una donna di confessione evangelica, dalla quale ebbe cinque figli.
La condizione degli ebrei subì però un progressivo, drastico peggioramento a causa dell’invasione nazista, che ebbe luogo il 10 maggio del 1940. Da allora in poi la popolazione di origine ebraica divenne oggetto di continui provvedimenti discriminatori e di violenze. Successivamente, nell’estate del 1942, ebbero inizio le deportazioni sistematiche, delle quali sarebbero stati vittime sia i genitori dell’A. sia quasi tutti i suoi parenti. Quanto a lui, entrò nella Resistenza clandestina: operò in un gruppo che produceva falsi documenti di identità e cercava di trovare nascondigli per i ricercati. Venne però denunciato da un ex commilitone, arrestato il 1° luglio del 1944 e inviato a Westerbork, il più esteso campo di transito presente sul territorio olandese. Venne poi costretto a salire sull’ultimo convoglio diretto in Polonia il 3 settembre di quello stesso anno.
Arrivato ad Auschwitz, Koopman si rende subito conto che lì ha luogo lo sterminio – pianificato secondo criteri scientifici – di milioni di persone. Del resto, la lucidità con la quale il suo sguardo esamina la quotidianità del campo di concentramento lo porta ben presto a concludere, citando l’Inferno dantesco: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate».
Poi, nel gennaio del 1945, incalzate dall’offensiva sovietica, le SS decisero di sgomberare il campo e di trasferire a ovest moltissimi prigionieri, i quali, però, debolissimi a causa della malnutrizione e costretti a percorrere quasi 50 chilometri al giorno, morirono quasi tutti durante la marcia. Koopman, invece, era riuscito a restare ad Auschwitz, e questa decisione probabilmente gli salvò la vita.
Le truppe sovietiche vi fecero il loro ingresso il 27 gennaio. L’A. lasciò invece il lager all’inizio di marzo. Ebbe così inizio il suo lungo e avventuroso viaggio di ritorno in patria: un itinerario – da Katowice a Leopoli, da Černovcy a Odessa, da Istanbul a Messina fino a Marsiglia, a Tilburg e finalmente ad Amersfoort – che mostrò sì ai sopravvissuti le immani distruzioni provocate dalla guerra, ma anche i primi segni della ricostruzione post-bellica. Ciononostante, l’A. conclude il suo resoconto con un tono caratterizzato dalla malinconia: difficile fare diversamente, considerato l’elevatissimo numero degli ebrei d’Olanda che erano stati deportati e che non vi fecero ritorno.
JO KOOPMAN
La notte di Auschwitz. Diario inedito di un ebreo olandese
Bologna, EDB, 2017, 144, € 13,00.