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Questo saggio è scritto dalla psicologa e filosofa Rossana Carmagnani, milanese di nascita e palermitana di adozione. La stesura del testo è cambiata in corso d’opera per il sopraggiungere di un «cigno nero» della storia – la pandemia –, che ha costretto l’A. a fare un «salto nell’ovvietà», oltre ai «quattro passi» già programmati.
E così Carmagnani propone un viaggio, che chiama «quattro passi», in cui regala una sintesi del suo percorso di vita. «Quattro passi» rappresentano, infatti, nel dire comune, quel minimo di movimento verso sé stessi, verso l’altro, verso la natura, che parla al cuore delle cose. Il «salto» è uno slancio che interviene di fronte a un ostacolo; è reso necessario dall’imprevisto. La persona comune sa che esso interrompe la quotidianità, e tende a pensarlo come qualcosa che accade ad altri. La sua problematicità è nella modificazione che produce nella vita del singolo e della collettività.
Il testo è caratterizzato da uno sguardo sapienziale che scandaglia quello che sembra ovvio nell’esistenza per rivelarne tutta la ricchezza inedita. Questo viaggio dell’A. si incrocia con l’evento della pandemia e rende questa riflessione ancora più attuale, perché finisce per fluire nella medesima direzione dello scoprire cosa rimane di essenziale quando si tolgono tutti gli orpelli personali e collettivi. Fare quattro passi permette di «respirare profondamente lungo il sentiero dei significati, soffermandosi a cogliere ogni possibile particolare del percorso e lasciandosi interpellare da tutte le luci e da tutte le ombre […], senza la pretesa di vedere tutto, ma con l’umiltà di custodire alcuni pochi frammenti di verità» (pp. 11 s).
Il primo passo entra nell’ovvietà del quotidiano: accompagnare il flusso delle cose per viverle in pienezza, lasciare che l’altro viva la sua peculiarità, apprezzandone le capacità e stimandone il modo di essere; infine, saper prendere ogni giorno, quando necessario, posizione, assumendo la responsabilità di agire con decisione e coraggio, non lasciando correre le cose, ma occupando nella vita di ogni giorno il proprio posto di uomini e donne degne di questo nome.
Il secondo passo affronta la sfida di un’esistenza nella quale si impara a salire in alto per incontrare sé stessi, a riposarsi per ritrovare l’energia del vivere, a lasciarsi avvolgere dalla casa degli affetti per nutrirsi dell’amore e del calore delle presenze. La metafora della torre ci invita a fare bene i conti con noi stessi, perché la quotidianità è ovvia, ma non è banale. Richiede che si sappiano misurare le risorse personali, per non lasciare, presumendo troppo di sé, incompiuta l’opera di ogni giorno.
Il terzo passo procede verso il mistero del dolore e della sua ovvietà. Il dolore fisico, la malattia che cambia la vita, la famiglia nella quale abita la malattia incurabile, sono quell’ovvio del vivere nel quale il carico della problematicità appare insostenibile. Il dolore richiede di essere vissuto senza mai perdere di vista i diritti della persona – né di quella malata né di quella che l’assiste –, richiede una profonda solidarietà, una grande lucidità nel gestire risorse e opportunità, un esercizio continuo di discernimento e di senso della misura condivisi.
Il quarto passo si dirige verso l’ovvietà in quanto tale, caleidoscopio di situazioni disparate. L’ovvietà dell’esistenza non è rappresentata dall’esperienza universale di una relazione paterna amorevole e provvidente, e nemmeno di quella di una famiglia che abbia il coraggio di guardare in faccia aspetti difficili della propria realtà. La problematicità dell’ovvio pone di fronte ad altre verità che hanno bisogno di essere guardate, senza finzioni né vergogna, con l’umiltà di chiedere e di accettare un aiuto.
Nell’ultimo capitolo, l’A. tratta della drammaticità della pandemia, che ha lacerato la nostra vita e ha impresso alla quotidianità una problematicità che non ci si aspettava, in termini del tutto incalcolabili. Nel dolore, l’uomo cerca sempre nuovi spazi vitali, esprime il modo con cui vuole trovarli e occuparli, stabilisce relazioni di convivenza, di opposizione o di attacco. La problematicità dell’ovvio riveste nelle situazioni estreme un’intensa drammaticità.
Questa riflessione esistenziale ha, in forma esplicita o implicita, una profonda portata pedagogica e finisce magistralmente per tracciare dei nuovi «sentieri dell’educazione dopo il Covid». È utile per i docenti e per le famiglie, perché siano aiutati a riflettere su ciò che rende veramente persone umane.