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Da cosa sono provocati i conflitti che scuotono il globo? Quali forze ne sono il motore? Quali scenari verranno a delinearsi nel nostro prossimo futuro? Cosa sarà dell’Europa? Convinto che l’attuale fase storica sia sostanzialmente simile a quella di fine Ottocento e inizio Novecento, nella quale si accese il contrasto tra le spinte suscitate dal nichilismo e dal positivismo, l’economista e storico Giulio Sapelli cerca di rispondere a questi interrogativi prendendo in esame i tanti aspetti di una realtà quanto mai complessa. Provvede a farlo in questo denso saggio, nel quale non manca di mettere in rilievo le numerose questioni che dovremo, prima o poi, affrontare.
Egli ritiene anzitutto che, nell’ambito della storia mondiale, si sia aperta una fase completamente nuova: quella connotata dall’assenza di «grandi generali», dal momento che le maggiori potenze non sono più in grado di garantire equilibri stabili e delle relazioni internazionali, mentre emergono attori regionali non interessati a perseguire tali equilibri o incapaci di raggiungerli. Osserva al riguardo lo studioso: «Siamo entrati nel terzo shock esogeno al ciclo economico mondiale: quello dopo la contaminazione pandemica e la guerra imperiale e inter-imperialistica della Russia nei confronti dell’Ucraina» (p. 33). Un contesto «tellurico e apocalittico», destinato, a suo parere, a estendersi e ad accrescere la già notevole conflittualità esistente.
Di fronte a un’epoca caratterizzata dall’assenza di regole e dalla crescente dissoluzione di molti Stati come quella presente, assistiamo a una nuova dislocazione del potere mondiale, che sfocerà forse in una poliarchia di grandi potenze, nell’ambito della quale l’Europa rischia di essere irrilevante. Intanto esercitano la loro egemonia élite imposte dall’alto, senza alcuna selezione: tecnocrazie transnazionali, prive di legittimazione democratica, che dominano dunque di fatto, non certo di diritto.
Come venire a capo di una situazione del genere? Muovendosi nel novero dell’immaginabile, Sapelli avanza un’ipotesi ed esprime un auspicio: «Ma se il mondo va a rotoli, è possibile che dal suo sgomitolarsi sorga un ricomporsi dalle fila della storia e che Usa e Russia ritornino a quel dualismo competitivo che è l’unica speranza prima della fine del mondo» (p. 106). Il ritorno, dunque, a una sorta di «guerra fredda», a un equilibrio basato sul terrore, a una contrapposizione costante, a un ordine che – seppure tra aspre tensioni e reciproche minacce, crisi ricorrenti e periodi di relativa calma – ha garantito al mondo una certa stabilità per oltre quattro decenni. Un assetto di cui, tuttavia, hanno beneficiato solo alcuni Paesi, mentre altri ne hanno fatto le spese in termini di limitazione delle libertà, modesta crescita economica, basso tenore di vita; si trattava, in altri termini, della cosiddetta «sovranità limitata».
Ma, al netto di queste considerazioni, ci si chiede quanto sia realistico vagheggiare un mondo bipolare di fronte a un contesto delle relazioni internazionali che sembra caratterizzarsi per la presenza di più poli e numerose potenze regionali; nel quale nessuno degli attori – seppure lo volesse – appare in grado di svolgere il ruolo di «gendarme globale»; nel quale i conflitti, i focolai, le aree di crisi tendono a moltiplicarsi e le prospettive economico-finanziarie non sono affatto rassicuranti. Non dovremmo, allora, renderci conto che la politica mondiale continuerà a essere caotica e conflittuale ancora a lungo? Che le relazioni internazionali saranno caratterizzate da una profonda instabilità? E che solo riflettendo su questo stato di cose riusciremo ad affrontare meglio le sfide che ci attendono negli anni futuri?